Stati di agitazione / Dalle intimità pubbliche all'ipertrofia emozionale

29 Marzo 2021

Il film The Circle, diretto da James Pondsolt (2017) e scritto/sceneggiato da Dave Eggers, racconta uno dei valori principali della cultura digitale: la trasparenza totale. La protagonista è coinvolta in una delle sperimentazioni più avanzate di un'azienda con sede nella Silicon Valley. Il progetto mira a creare la piena trasparenza della vita quotidiana in modo che qualsiasi elemento emotivo, relazionale ed esperienziale della vita della protagonista possa essere trasmesso in streaming online attraverso il Cerchio. La trama si concentra sul tipico mix tra il valore controculturale della condivisione e la pedagogia motivazionale (hippy + yuppies come descritto dai critici dell’ideologia californiana). La protagonista viene prima convinta a partecipare all'esperimento/app da un guru digitale, ma poi si rende conto di quanto profonda e traumatica possa essere la trasformazione della sua esistenza in un live streaming permanente. Per questo decide di sabotare tatticamente il sistema, utilizzando i media digitali contro l’ideatore del progetto. La narrazione riflette sul doppio livello di dipendenza degli utenti dei social network dalle piattaforme digitali: quello di un'espressione spontanea e autentica di sé, quello di una nuova spettacolarizzazione della loro quotidianità. Inoltre, il film riflette sulla sovrapposizione tra vita affettiva e lavoro nel capitalismo digitale. Qualcosa che l'influencer vive oggi come una dimensione ludica e promozionale ma anche emozionale e drammatica.

 

Il testo recente di Carlo Bordoni, Intimità pubbliche (La nave di Teseo, 2020), riprende il filo di un discorso che collega la confessione di M. Foucault alla sorveglianza liquida e alla società confessionale di Z. Bauman. Secondo Bordoni “l’autenticità è la parola chiave” Essa è legata a doppio filo al significato e al valore dell’intimità. Difatti a “essere ritenuto autentico, dunque profondamente vero, rispondente alla reale essenza dell’essere, è ciò che fa parte dell’intimo”. La scelta individuale si fonda proprio sulla capacità di gestire questa dimensione e di instaurare a partire da essa una relazione sociale. Cosicché svelare l’intimità “spontaneamente, per libera scelta, significa aprirsi all’altro, mostrare la parte migliore di sé, quella non condizionata dalla cultura, dall’educazione, dalle inibizioni”. Per analizzare la trasformazione del nuovo regime emozionale imposto dai social media non è più tanto adeguata una certa visione francofortese che ha insistito sulla “desublimazione repressiva”, come se ci fosse un assalto all’interiorità da parte di un sistema che sfrutta espedienti tecnici, sensoriali, narrativi per violare lo spazio incontaminato dell’interiorità umana e deviarne lo sviluppo “naturale”.

 

Secondo Bordoni, Marcuse interpreta un certo timore della società industriale e dei regimi totalitari nei confronti del tempo libero. Egli temeva che “l’automazione potesse, infatti, ribaltare il rapporto tra il tempo libero e il tempo del lavoro, compromettendo “uno dei principali fattori repressivi imposti dal principio di realtà al principio di piacere”.  In sintesi, “c’è ben poco di naturale in questo esibizionismo del sé traghettato dai social media: nel tentativo di farsi conoscere e farsi accettare, di proporsi nella forma più autentica, si nasconde il bisogno di appartenenza sociale che in seguito alla liquefazione dei rapporti umani (nella definizione di Bauman) si è andata perdendo con la crisi della modernità”. 

 

Rispetto all’approccio di H. Marcuse, è certamente più utile l’approccio suggerito da M. Foucault in Storia della sessualità (1976) che è tenuto a scardinare l’impianto delle teorie della repressione. Secondo l’autore difatti esse sono null’altro che un’inconsapevole sottomissione alla stessa logica di dominio che provano a combattere. La dimostrazione di tale ribaltamento fa perno sul cosiddetto “dispositivo della confessione” che da mero strumento di estrazione della colpa nel regime teocratico si trasformerebbe, nell’era democratica, in un meccanismo di produzione della verità del piacere. Secondo Foucault l’uomo moderno sarebbe diventato una “bestia da confessione”. La confessione è un rituale discorsivo in cui il soggetto che parla coincide con il soggetto dell’enunciato; è anche un rituale che si dispiega in un rapporto di potere, poiché non si confessa senza la presenza almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza, e interviene per giudicare, punire, perdonare, riconciliare; un rituale in cui la verità mostra la sua autenticità grazie all’ostacolo e alle resistenze che deve eliminare per formularsi; un rituale, infine, in cui la sola enunciazione, indipendentemente dalle sue conseguenze esterne, produce in colui che l’articola delle modificazioni intrinseche: lo rende innocente, lo riscatta.

 

 

Articola delle modificazioni intrinseche: lo rende innocente, lo riscatta, lo purifica, lo sgrava dalle sue colpe, lo libera, gli promette la salvezza (57). L’istanza di dominazione non è dalla parte di colui che parla (poiché è obbligato) ma da quella di colui che ascolta e tace; non dalla parte di chi sa e risponde, ma da quella di chi interroga e si suppone che non sappia. E questo discorso di verità produce infine il suo effetto non in chi lo riceve, ma in colui al quale lo si strappa. 

Quello della confessione è un modello comunicativo-terapeutico che ha attraversato il crepuscolo della Tv e dei media generalisti per poi spostarsi in maniera preponderante nella dimensione del web; specialmente in quella del cosiddetto 2.0 in cui giunge a manifestarsi in modo compiuto e sistematico. A tal proposito l’indagine di Eva Illouz in Intimità fredde (Fertrinelli, 2007) opera sul confine che separa gli ultimi bagliori dell’impero televisivo, il mito dell’Oprah Winfrey Show e le nuove pratiche di autopromozione dei social media.

 

L’autrice si occupa perlopiù di piattaforme di web dating ma potremmo estendere alcune sue considerazioni a YouTube, a Twitter, a Instagram. Nell’ontologia emozionale, sono rinvenibili processi di lungo termine che hanno avuto luogo principalmente nello sviluppo delle pratiche organizzative delle aziende americane, passando per i grandi movimenti collettivi come il femminismo e il self-help, sino alla spettacolarizzazione della politica anni Ottanta. Ma il mezzo di totale attuazione dell’ontologia emozionale – ovvero della capacità di dare consistenza pubblica alle emozioni per coinvolgere vaste schiere di persone nella realtà del proprio sé (sofferente) – sono i media digitali e nella fattispecie i social media. Il tema della sofferenza è utilizzato da E. Illouz come grimaldello per scardinare, senza troppa efficacia, la concezione che Foucault espone nel testo sopra citato.

 

Secondo l’autrice, il rapporto potere/piacere sarebbe concepito dal Filosofo come un tratto dominante dell’attività umana laddove tale concetto – che a ben vedere Foucault adotta come sinonimo di sessualità o libido e con dovuto distacco da una banale lettura edonistica – non si contrappone al dolore, bensì può sussumerlo. Del resto, le pratiche non ortodosse a cui il filosofo allude (come il masochismo, il sadismo o la sodomia) si pongono proprio al confine tra l’esperienza del piacere quella del dolore. Mentre il dolore per Illouz è piuttosto un sinonimo di “esperienza autentica” che si contrappone al paesaggio desertificato dalla spettacolarizzazione anni Ottanta, basata sulla Santa Alleanza tra artificialità ed edonismo. Pertanto, sono spuntate le armi della vecchia critica, in particolare di quella che polemizza contro i dispositivi della confessione, che per Agamben determinano il passaggio dalla “soggettivizzazione” alla “desoggettivizzazione” (Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, 2006).

Il modo in cui il social network utilizza spregiudicatamente il nostro sistema di relazioni, emozioni ed esperienze, per rinforzare la nostra fidelizzazione alla sua causa non è semplicemente il frutto di un processo di desoggettivizzazione, di artificializzazione dell’esperienza o di deprivazione del privato. Tale premessa ci ricondurrebbe sulla via di una visione apocalittica ed eterodiretta se non fosse per il fatto che quelle relazioni sono esse stesse il vincolo d’appartenenza al network.

 

Ovvero noi apparteniamo al network perché esso è la rappresentazione formale del sistema delle nostre relazioni e se dovessimo rinunciare alla piattaforma tecnologica che ci permette di gestirle non potremmo rinunciare alle relazioni stesse. Le correnti emozionali di panico morale, di dolore non anestetizzato, di odio generate dall’azione dei social, prefigurano l’orizzonte di una nuova socialità, una nuova emozionalità, una nuova esperienzialità prodotta dai e nei media digitali. Il nuovo regime emozionale predica ovunque la preminenza dell’esperienza singolare, irripetibile, profonda a cui si accede anche tramite la tecnologia. Nella nuova economia emozional-esperenziale non importa se l’autenticità sia un mezzo o un traguardo, come accade nella comunicazione delle aziende, nel selfbranding degli user, nelle narrazioni della società post-spettacolare o nell’industria turistica. In un modo o nell’altro, disporre di questo nuova forma di capitale può garantirci una posizione di vantaggio per competere nello sconfinato mercato delle identità.

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