A Donato Sartori mentre guida il corteo delle sue maschere / Anniversario con Arlecchino e porchetta
Mentre il sole allunga le ombre calando dietro i colli siamo qui in molti – gli amici che Paola e Sara Sartori hanno invitato al Museo della Maschera, ad Abano, per una festa di anniversario. Un anno fa, il 23 aprile, Donato Sartori si è ucciso con un colpo di rivoltella, in casa– preferendo precedere il male che l’avrebbe stroncato fra i dolori e i farmaci.
Siamo in attesa, sono le 18,30. Nella villa accanto alla corte dove siamo raccolti ci sono le maschere
nelle teche di vetro– silenziose, misteriose. Giorgio Bongiovanni, l’attuale Pantalone dell’Arlecchino più longevo del mondo, Arlecchino servitore di due padroni, fa dolcemente da guida a Paola che, spesso piangendo, sorretta dalla figlia legge alcuni momenti della carriera artistica di Donato. Un curriculum che passa per le mostre d’arte, i mascheramenti urbani (Venezia, Firenze, Reims, Copenaghen e altrove), i corsi di formazione e la costruzione delle famose maschere in cuoio.
Ho visto tanti anni fa le prime maschere di Amleto, il padre di Donato, in viso a Jacques Lecoq, a Padova, al Teatro Universitario. E poi nel 1951 sul volto di Marcello Moretti – l’Arlecchino elettrico, sempre saltellante, che all’inizio, per ben due anni, volle in viso solo il trucco e poi si lasciò convincere da Strehler al calco e alla maschera di cui divenne re. E poi sul volto di tanti Pantaloni, Arlecchini, Brighelli, Dottori, Zanni – e avanti fino a Dario Fo, qui di casa fin che è stato vivo.
C’è un’aria di gentilezza e partecipazione profonda, stasera. Siamo qui per dire qualcosa, per ascoltare e per mangiare. Mangiare insieme a Donato: che amava la porchetta, mi ha detto Paola al telefono. Ci sarà la porchetta.
Dopo l’introduzione di Paola – che è stata sommessa, un’orazione bagnata di lacrime, tocca a me di parlare. Paola mi ha chiesto di leggere la poesia dedicata a Donato nei Canti brevi. Prima di leggerla mi viene da dire che il pianto delle donne – beate loro che piangono – è un dono salvifico, che le sgrava dal dolore – e che dal loro pianto sono nati i fiumi, i laghi e le acque tutte.
“A Donato Sartori mentre guida il corteo delle sue maschere” dice la dedica della breve poesia, intitolata Chissà dov’è l’al di là
C'è il ponte che ha solo il di qua
e quelli che sono assiepati di là
per transitare – non c'è guida, non c'è angelo,
chissà dov'è l'al di là.
C’è un tavolo rettangolare alla mia destra, pieno di maschere. Sono nere, marron. Il sole sempre più obliquo sfiorandole la fa sembrare d’oro. Le ha portate Ferruccio Soleri (88 anni) – l’Arlecchino mitico. Legge una pagina breve, intensa, e poi comincia a trasformarsi: in Arlecchino, con la maschera nera e quella marron, infilandosi la calza nera e il berretto bianco; in Zanni, col cappello lungo; in Dottore, col libro sotto braccio (gli presto i Canti brevi) e la pancia in fuori; in Brighella, col cappello da cuoco, tremolando; in Pantalone, curvo in avanti, con la barbetta bianca.
La sera si è fatta color cenere: eccola la commedia dell’arte alla maniera del Piccolo Teatro e dei Sartori, in mezzo al Veneto dove è nata, cento volte sepolta e cento volte risorta – invincibile. Eccolo il corteo degli attori e delle maschere – da Isabella padovana a Mafhìo dei Redetto Zanini, o Zani – in quel palcoscenico esteso quanto l’Europa – come rami di un albero vivo che arriva in Spagna dentro il Don Chisciotte (Zan Ganassa) e a Londra dentro l’Amleto e la Tempesta – e qui, oggi dentro casa Sartori – partendo da quel Teatro Universitario di Zorzi, Baratto, De Bosio che ha visto risorgere Ruzante e le maschere a Padova.
Maschere.
Bongiovanni con la sua maschera di Pantalone in mano racconta una storia vera che ha dell’incredibile.
Quando con l’Arlecchino andarono in tournée negli Stati Uniti, per il ritorno affidarono scene e costumi a una nave. Che avrebbe impiegato un mese per tornare. Anche la maschera di Pantalone per nave?
Bongiovanni aveva ascoltato la raccomandazione di Soleri: mai abbandonare la maschera. Ma in quel caso fu preso dal dubbio – era pieno di regali, anche la maschera avrebbe fatto ingombro. In fondo la nave è sicura – pensò. E la spedì via nave.
Passa un mese e la nave non arriva.
Passano i giorni e arriva la notizia che c’è qualche problema.
Passa qualche settimana e viene il tremendo annuncio: la nave è naufragata, si è incagliata su una spiaggia, alle Azzorre, in mezzo all’Atlantico.
E la maschera?
Il Piccolo Teatro si mette in contatto col governo portoghese. È affondato tutto?
La nave è piegata in due, dicono. I container, uno a uno, scivolano in mare.
Anche quello con le scene, i costumi e la maschera?
Passano i giorni e si viene a sapere che tutto è andato a fondo. Il container del Piccolo si è sfasciato e sulla spiaggia ci sono scene, costumi, tutto sbrindellato e rovinato dal mare.
E la maschera?
Ecco che un giorno Bongiovanni riceve una telefonata dall’amministratrice del Piccolo.
Siediti, gli dice la donna.
Perché? dice Bongiovanni.
Sei seduto?
Sì.
Nella sua scatola hanno ritrovato la maschera, intatta.
Quando Bongiovanni è andato da Sartori per far ripulire il Pantalone, Donato guarda la maschera e dice:
Questa non si tocca, è perfetta così, coi segni del mare. La mettiamo nel museo e te ne faccio una nuova, uguale.
Più tardi, quando è notte, commentiamo l’episodio. La maschera, dice Bongiovanni, non è un oggetto. È misteriosa – ha dentro ciò che l’attore le imprime col suo sudore.
È un’anima? – domando.
C’è un bel mormorio delle persone, quasi un silenzio – siamo riusciti a fare una festa delicata, come se Donato fosse tra noi. Fa freddo, arriva la porchetta insieme a tanti altri cibi, il parmigiano, le uova sode, il baccalà, le verdure da pinzimonio, i dolci, il buon vino di casa rosso e bianco – cibi buoni, preparati con amore da Paola, Sara e dagli amici.
Batti batti il cuoio sulle forme di legno, bagna il cuoio, fa il calco in gesso del viso a chi si appresta a entrare nello scuro – chi sarà l’attore, chi sarà la maschera?
Quando gli mandarono il libro L’arte della maschera Levy-Strauss rispose a Paola e Donato con una breve lettera che finiva così: “Alla maschera l’individuo chiede di mutarlo in un essere diverso da sé; e gli uomini hanno spesso creduto che essa li renda capaci di oltrepassare i limiti del mondo soprannaturale e, indossando delle maschere, di diventare la personificazione degli dei”.