Speciale

Mirandola, 7/10 Giugno 2018 / Seconda lettera a Dorothea sopra il Diavolo e l’Angelo

6 Giugno 2018

Quest’anno dal 7 al 10 giugno l’appuntamento è con la seconda edizione del Memoria Festival, promosso dal Consorzio per il Festival della Memoria in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Nei prossimi giorni pubblicheremo alcuni scritti di approfondimento sui temi di cui si discuterà durante il Festival, in compagnia di numerosi protagonisti italiani della cultura, del pensiero e dello spettacolo.

Giuliano Scabia sarà al Festival il 9 giugno alle 18.30, Parco della Memoria.

 

Dall’aria, ottobre 1983

Cara Dorothea

 

anche se non esisti tu sei, dentro di me, la persona a cui mi vien voglia di narrare, qualche volta, le avventure teatrali del Diavolo e dell’Angelo. Ora ne leggerai di una che non avevo mai pensato mi potesse capitare.

 

 

Les italiens erano stati invitati in Francia, come nei tempi antichi. Però, a differenza che nel 500, non a corte, nel centro di Parigi, ma in banlieue, a Villejuif.

Ho attraversato le Alpi (quei boschi! quelle nevi!) per il Gran San Bernardo. Sulla mia R4 fourgonnette portavo i costumi e gli attrezzi, tutto sdoganato.

Francia è stato il lungo balzo per Franca Contea e Borgogna, sopra l’autostrada.

Pensavo che tu potevi esserci a Parigi, ma come avresti fatto a trovarci nella grande banlieue? Ti penso mentre corriamo fra le colline, il viso amato e sorridente, la tua freschezza di rosa. Mi battono nella mente due parole: ville lumière: città luce: o lucente? o illuminata? o luminosa? Lumi, o lampadine?

 

Parigi si annuncia con la foresta di Fontainbleau. Dopo non si fa che aspettare la grande cintura. Noi andiamo nella parte sud e reciteremo in tre luoghi: Villejuif, Fontenay-sous-Bois, Orly. Partendo una persona mi ha detto: “Andrai sulla Torre Eiffel?” Non è previsto dal programma, ma spero di andarci, cara Dorothea. Per la luce dei tuoi occhi. Perché tu ci veda.

 

Ci sarà dunque la commedia dell’arte in banlieue. Il festival si chiama Premier Festival de Commedia dell’Arte du Val de Marne. Sarebbe come dire della valle del Lambro. Pensavo che si andasse al Marais, all’Odeon, alla Comédie Française. Se andiamo a Parigi che sia per l’occhio del re. Invece bisogna guardare bene i cartelli sull’autostrada verso Porte d’Italie, marciando sempre più lenti nel gorgo che ci prende. Gorgo. Noi veniamo da città piccole, il gorgo è grande, la fortuna ci porta, e sulla destra vediamo scritto il nome Villejuif, città giudea. A un farmacista (ha la farmacia verde, di legno) chiediamo dove sia il teatro Romain Rolland: là arriveranno i comici italiani (alcuni li conosci: Nico Pepe, Vittorio Gassman, Donato Sartori con le sue maschere, Dario Fo), da lì partiranno il Diavolo e l’Angelo. Riuscirò a farmi sentire fra i caseggiati alti alti? Parlerò italiano o francese? Funzionerà?

 

Dopo due giorni viene l’ora di cominciare. Per le strade, nei bar e nei negozi da cui passeremo abbiamo attaccato i manifesti

 


con su scritto: La France est heureuse d’accuellir le diable et son ange, Gloire éternelle au diable et à son ange, Honneur au passage du diable et de son ange (li ho fatti stampare in Italia, vedessi che grafica!). Andiamo proprio noi ad attaccarli e ci segue una troupe cinematografica. È la prima volta che stringo un patto con gente di cinema. Filmeranno tutto.

All’inaugurazione del festival ci sono un po’ di comici, i direttori e gli organizzatori, un rappresentante del ministro, una piccola folla in una piazzetta neo nuova. Villejuif è tutta moderna, c’è solo una chiesa antica là davanti.

Quando hanno finito le presentazioni, di sopra la porta del teatro salto fuori con l’Angelo che suona il violino e dico un po’ di parole strampalate improvvisando: ridono (dunque si passa): poi leggo un mio discorso inaugurale in lingua francese (me lo sono fatto tradurre) che dice:

 

Ascolta, gente, il fantastico racconto

del Diavolo e dell’Angelo ritornati al mondo.

 

Voglio dire anche a nome di Pantalone, di Arlecchino, del Dottore, di Brighella, di Pulcinella, del Capitan Spavento della Valle Inferna e del teatro moderno d’avanguardia e di post-avanguardia, che il vento non è acqua, che l’acqua non è vino, che il vino non è pane, che il pane non è porco, che il porco non è uva, che l’uva non è uccello, che l’uccello non è cane, che il cane non è merda, che la merda non è piscio, che il piscio non è l’Angelo, che l’Angelo non è il Diavolo, ma che il Diavolo sono io, e che non sono altro che uno che augura la buona fortuna e la buona defecazione.

È con amore che le maschere talvolta ricompaiono, ma appena riconosciute si rifugiano nell’ombra da cui sono venute. Esse tengono in tepore i nidi dei sogni.

La maschera è tenera, attenta, ride e piange: è viva, come un piccolo dio appena nato che studia le proprie forze.

Talvolta le maschere sanno discendere le scale dei misteri. Chi è capace di seguirle?

 

Siate felici

siate contenti

che non vi venga 

il mal di denti.

 

O Dorothea. Per fare Il Diavolo e l’Angelo devo avere il corpo leggero, allenato. Per venire a Parigi mi sono preparato bene, sono andato a camminare nei boschi, ho ballato ho ripetuto le scene. Se il corpo è leggero mi sembra di volare.

 

Verso le cinque del pomeriggio siamo usciti per Villejuif. Ho capito che non potevo fare le scene solo in italiano e ho cominciato a parlare francese. Ridevano. Su un albero ho trovato un colombo morto. Ho tentato di entrare in chiesa (com’era scassata quella chiesa!). C’era gente di tutti i colori (veramente: di tutti i colori). I francesi ormai sono una razza mista, Madame Bovary sarà cambogiana, Gargantua negro, Julien Sorel creolo. I bambini ho cominciato a inforconarli subito e mi si sono

 

 

scatenati addosso, i santini sono andati a ruba. Non ci sono giornalisti, siamo proprio in banlieue, non vengono neanche a vedere il Diavolo, ma comincio a trovare il filo e il senso dello spettacolo (lo chiamo spettacolo, non trovo mai il nome giusto), esplorazione del margine di una metropoli. Mi sento una barca allegra.

 

È sul velo della sera che ritrovo l’equilibrio e la forza della maschera, a Villejuif. Vedo una ragazza negra grigia per la paura di fronte a me, guarda di qua e di là e cerca di scappare. Più tardi, in un angolo del teatro, ancora in costume sto a vedere Nico Pepe, il vecchio Pantalone, che racconta i secoli gloriosi della commedia dell’arte. Lo ricordi sicuramente il grande Pantalone nell’Arlecchino servitore di due padroni. Nico Pepe, che ha più di 70 anni, dice ridendo: “Perché sì, io sono anche nella vita un po’ Pantalone”. Mostra come si indossa la maschera. “Le comédien – dice in francese – mette la maschera in modo sacro”. Aspetta un istante, si concentra, la pone sul viso e diventa di colpo un altro, una figura che non c’è nella realtà, ma reale.

Secoli gloriosi. Commedia dell’arte è una etichetta per gli italiani. I francesi di noi spesso vedono solo (e sanno solo) commedia dell’arte. Italiani spaghetti commedia dell’arte. Pantalone è irresistibile. È magro, alto, ha i capelli bianchi, è ridente. È friulano. Conversa recitando. Racconta la commedia dell’arte

 

 

secondo la rilettura francese e del Piccolo Teatro: una mitologia e una favola: la favola di Pantalone.

 

O gloriosa commedia dell’arte, maschere stereotipe eppure sempre misteriose. Una sera, cara Dorothea, quando andremo, come mi hai promesso, sul Venusberg con la luna, ti rivelerò da dove viene Arlecchino.

 

La mattina di domenica volevamo attraversare il mercato di Villejuif, al coperto. Mi sono concentrato a lungo, ho ascoltato il costume e la maschera. Che agisse l’immagine. Ci siamo infilati fra la gente. L’Arcangelo suonava, io remavo, cercavo gli sguardi, davo il santino senza parlare. Per più di un’ora. Si è creata una tensione, da me e verso di me. Tutti quegli occhi mi arricchivano ed erano arricchiti da noi. Magàti. È importante, per non essere maghi e sciamani (non abbiamo bisogno di sciamani), saper entrare e uscire dalla maschera.

Ti voglio aggiungere che poi sono entrato in un grande palazzo e per i corridoi ho cominciato a suonare i campanelli delle porte, sempre seguiti da quelli del cinema (i quali erano prima stati ad avvisare qualche inquilino che saremmo entrati). Il palazzo era bellissimo, colorato, pieno di terrazze, di quegli edifici moderni che sanno entrare nell’aria: che scena per noi (l’avevo studiata il giorno prima). Nell’appartamento di sposi entriamo, e poi all’improvviso in una famiglia dove c’era l’anniversario di un bambino, compiva un anno. Con la tartina in bocca sono stati a guardarci: teatro non richiesto, capitato dal cielo. Ma perché vado a recitare dove non sono stato chiamato? L’Arcangelo scalpita. Eppure è qui il segreto dell’apparizione.

Anche per realizzare queste visioni mi faccio pagare a cachet.

 

Parigi si stende davanti, i grattacieli bianchi di Porte d’Italie: lontana, ormai non sola, la Tour Eiffel. A sera, a casa del regista di cinema, la cena viene filmata. Mentre si conversa propongo che si vada sulla Torre. All’Etoile e sulla Torre. Capisci? A recitare sopra la Torre. Rocambolesco, no? Accettano con entusiasmo. Si andrà sulla Torre per souvenir, per mostrare agli amici che ci siamo veramente stati. per lasciare traccia nella toria del teatro (sic!). La cinepresa documenterà l’evento. Vedrai nel film anche la cena, come abbiamo progettato la salita. Sì, bisogna andare alla Torre del mondo. Là ci saranno Voltaire, Villon, Sand con Maurice, Théofile Gautier con Capitan Fracassa, Scarron, Dominque, Scaramouche, forse Molière, Rimbaud, Lautréamont, Apollinaire e una folla di nomi.

Dorothea, verrai presto a trovarmi?

Dell’amore voglio ricordarti. Sei stata, una notte, come la rosa. Sono diventato acqua nel tuo corpo fresco. Eri luminosa. L’amore che si accende, il sentire insieme. Parlare, guardarti.

La dolcezza. Come il fiore con la giusta luce. Sguardi: io che ti guardo, tutta, da ogni parte. Leggerti poesie scritte per te. Aspettarti, sentirti la mano. Tu che ci sei. Che mi cerchi la mano. Ti trovo il tepore. Piano piano, fino a che diventi una rosa.

 

A Fontenay-sous-Bois, mentre ballavo seguendo la musica vedo un vecchio magro, alto, con gli occhiali e il cappello di feltro, vestito di marrone. Cammina appoggiandosi al bastone, è un po’ curvo. Mi vede e da lontano comincia a ballare seguendo i miei movimenti – lui col bastone, io col forcone. In quel momento sentii un tremito e amore dal mio corpo passare nel suo, e dal suo nel mio. Mi sono sentito come un seme che porta vita.

Ballare, narrare, travestiti giocare, accendere la vita. Con le parole e i moti del corpo accendere la vita. Questo era forse la poesia all’inizio, e questo era il teatro. Quel vecchio danzante voglio farti credere, o Dorothea, che fosse un attore sacro in libera uscita dall’ospedale geriatrico. L’hanno fotografato. Vedrai.

 

 

A Orly, il giorno dopo, al mercato – azzurro cielo d’ottobre, piccole case bianche, antiche attorno a noi – ci sono cento (forse) bambini, piccoli piccoli, grande cerchio. Comincio, mentre l’Arcangelo suona dolcemente, a dare a ognuno l’immagine.

Bambini neri (capelli crespi), gialli, bianchi, rosa. Sono affascinati, interroganti: aspettano: hanno un po’ di paura: aspettano il santino: lo chiedono con gli occhi, con le dita: coi capelli e la pelle: a ognuno, lentamente, cercandolo, rispondendo al suo sguardo, lo porgo. Dura venti, venticinque minuti quello stare sospesi.

 

Finché siamo finiti, attraversando un parco, alla statua di Meliès, fondatore del cinema. Qui mi sono tolto la maschera e ho detto, davanti alla villa dove Meliès pensionato morì:

 

Ici le théâtre est fini:

on commence le cinéma, a Orly.

 

Comincia il cinema. Alla Torre Eiffel. Oggi pomeriggio si lavora per il cinema.

 

È il regista che ha preparato lo scenario. Da una grotticina davanti alla Torre dovremo uscire; suonerò la tromba e mostrerò all’Arcangelo la meta; saliremo le scale per essere ripresi dal basso; ripeteremo la scena ripresi dall’alto; saliremo in ascensore al secondo piano; là reciterò la scena dei nomi dei diavoli e faremo il duello dell’Apocalisse; al terzo piano faremo l’operina della tentazione.

Saremo in Paradiso fra poco. Nessuno del teatro, mai, ha recitato là sopra.

 

Alle quattro del pomeriggio arriviamo alla base della Torre. La grotticina del giardino è piena di segatura (un deposito). Il regista fa ciak! Usciamo ballando e suonando. Alt! Si torna indietro e si fa un’altra volta. Buona a prima e buona la seconda, dice il regista. Adesso dobbiamo filmare il secondo frammento.

Dobbiamo andare verso una roccetta da cui suonerò la tromba. Dice l’Arcangelo: Finalmente si lavora a tempo. Dice il Diavolo: Non c’è possibilità di espandersi facendo cinema.

Si arriva al suonare la tromba, al mostrare la Torre col braccio. Capisci, o Dorothea? Fra pochi istanti saremo là sopra.

Immagina. Il Diavolo ha suonato la tromba. È l’ora di salire.

 

Le foto. Cik. Cik. Un giapponese. Dalla borsa la macchina estrae. La moglie si mette in posa davanti a me sulla scala (sto sulla scala della Tour Eiffel!). Scale di ferro. La Torre mistica. Stringo un seno alla giapponese sposa, scappa, il marito sembra contento. Mostro Parigi all’Angelo. Per la cinepresa. Per tre volte. È teatro! Una voce in italiano dice: Fanno spettacoli sulla Torre Eiffel. Teatro su cinema. O bastardi, che correte sempre dove l’annuncio è già stato dato, ma non sapete precorrere l’annuncio. L’apparizione si sveglia nuda, all’improvviso. Ciak! Per la cinepresa.

 

Intorno era Parigi, la città. De civitate hominis. La vedo per la prima volta così totale. Intorno la folla turistica, sorpresa. Salire (in ascensore). Girano un film? – sento chiedere. Diavolo e Angelo prigionieri dell’ascensore, della cinepresa. È come stare in quinta. Sento venire una grande solennità.

 

 

Solenne: sai bene che deriva da sollus, tutto, e annus: che ricorre ogni anno. la parola che sento più giusta quando nel corpo ferreo di questa cattedrale salgouna scala interna e mi affaccio a cantare i nomi dei diavoli sopra il bordone del violino. È impressionante per me il silenzio di tutti quelli che guardano, i volti stupiti. Mi segui, Dorothea?

Quando siamo in cima si vede il sole che sta tramontando. La città è posata sulle colline, bianca, mi fa l’impressione del suono della parola cormorano. Sembra un vasto uccello (in volo), e noi nel suo occhio. Città umana delle meraviglie. Vedo recitando le prime luci, l’Odeon, l’Etoile, i Campi Elisi, il Palazzo Reale, i mercati generali, la cattedrale, i grattacieli: è una mente chiara (un pensiero unico), questa città che si muove davanti alle altre e le guida. È in volo. Pronta a levarsi. Metropoli inferno? Forse, ma non qui, non ora. Città orologio, dominatrice del tempo, scandita da lui, sua forma, città denaro, città delle merci, loro gloria – città cervello, madre, innamorata, viva, generatrice, divoratrice.

 

O Dorothea, pensa pure che là stavo giungendo al Graal. Viaggio dell’anima verso la coppa eterna. la ricerca del (sublime) mistero. Spaccati in due fra il cielo puro (puro?) e il basso traffico impuro. Parsifal. L’Arcangelo è Parsifal? Cielo del Graal, sotto c’è il mercato. Parsifal: chi gli dà i soldi per vagare? E la ricerca dell’anima può essere oggetto di mercato? Che paura può avere, il Diavolo, del mercato? Non vende i propri occhi, fatti a forma di spilla, in una delle scene?

Ma il diavolo sta ancora cercando di salvarsi l’anima. Da che perdita? Vende i suoi spettacoli, e quando viene pagato è felice.

 

O denaro

che sai risvegliare

le impronte dei sogni dell’umanità in volo.

 

Chi è Parsifal: il Diavolo o l’Angelo?

Tu dirai: E se tutto diventa mercato? Vedo trasalire il tuo idealismo.

 

È così bello comprare, così emozionante vendere. Mercato è eros, gioco d’amore. Cosa c’è di più allegro, a volte, di un mercato? Là è la vita.

 

O notte che poni mantello leggero ad avvolgere le nostre ali, ti saluto dall’alto della Torre. E tu sole, che con te trai il giorno, a domani. Vita che suoni nell’aria salendo dalla città concava, ti bacio. Vedo le tue membra, il tempo che produci e ti divora, e la forza che ti costituisce. Dormi, malinconia, va nelle grotte del sonno e aspetta i comici che tu faranno ridere. Tu li rifiuterai, ma loro forse vinceranno sul tuo nero umore. Venite, stelle, spettatrici. Per voi recitano e suonano il Diavolo e l’Angelo.

Perepepè.

 

Fu per meglio stare in quel teatro delle stelle che cominciammo a volare. Ci seguivano gli occhi dei turisti, e non osavano fotografarci, forse per paura che cadessimo o per non perdere la visione. Ma noi salivamo leggeri come mai prima (ti ho parlato, Dorothea, del corpo leggero). Erano, i colori della notte sopravveniente, come l’amore tuo, umidi appena, freschi e tiepidi. La città Parigi era un volto unico, e per guardarla non facemmo duelli: l’Arcangelo meditava, turbato. E mentre io volevo salire ancora più in alto per meglio vedere quella città nella sua completezza, lui tendeva a rimanere in quota – più non si vedevano i cineasti e gli spettatori occasionali della terra.

O Dorothea, non lo crederai: a un certo punto l’Arcangelo mi indicò l’orologio e mi fece cenno che bisognava tornare là in terra, al teatro dove ci eravamo cambiati. Perché era ora di cena. ma io insistetti per stare volando ancora un poco, e avere il tempo, là sui lembi di luce, per scrivere le ultime righe in questa lettera d’amore. Ti bacio.

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