Curva pericolosa
Sono stati presentati pochi giorni fa i risultati di una ricerca promossa da Pearson, uno dei colossi dell’editoria mondiale con un importante coinvolgimento nel settore scolastico ed educativo. The Learning Curve è uno studio nell’ambito dell’istruzione svolto dall’Economist Intelligence Unit (EIU) che, prendendo in considerazione cinquanta paesi, ha sviluppato un indice sulle capacità cognitive e sul livello d’istruzione (Global Index of Cognitive Skills and Educational Attainment), basato su dati dell’OCSE-PISA, sulle valutazioni TIMMS e PIRLS e sulle rilevazioni del numero di diplomati e dei laureati. I risultati, che sono pubblici e disponibili online, prendono in considerazione numerosi fattori come spesa pubblica nell’istruzione, età di ingresso nella scuola, salari dei docenti e possibilità di scegliere il tipo di scuola; tasso di alfabetizzazione, di raggiungimento del diploma e della laurea; disoccupazione nazionale, PIL, aspettativa di vita, criminalità. In tal modo si possono correlare fattori strettamente educativi con un più ampio spaccato della società.
Difficile sintetizzare una simile mole di materiale in poche battute, ma ci si può provare, correndo il rischio di semplificare: Finlandia e Corea del Sud, seguite da Hong Kong, Giappone e Singapore risultano le realtà in cui l’istruzione sembra funzionare meglio. Al contrario Messico, Brasile e Indonesia mostrano ampie criticità e si collocano ai posti più bassi. Interessante che i risultati relativi alle capacità cognitive non coincidano strettamente con quelli del livello d’istruzione: per le capacità misurate dai test internazionali sulla matematica, lettura e scienze, Finlandia, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud e Giappone sono i primi cinque. Il livello di istruzione è invece misurato sul tasso di alfabetizzazione e del raggiungimento della laurea: in questo caso la ‘classifica’ vede Corea del Sud, Inghilterra, Finlandia, Polonia e Irlanda.
In ogni caso Finlandia e Corea del Sud emergono come vette, caratterizzate peraltro da due sistemi completamente diversi: libertario e sperimentale il primo, tradizionalista e nozionista il secondo. Cosa hanno in comune i due sistemi simbolo del successo formativo? Così gli analisti: “entrambi i paesi si basano su insegnanti di alta qualità, sul senso di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi e sono caratterizzati da una missione morale sottostante gli sforzi nell’ambito dell’istruzione”. “Più che il denaro, è fondamentale il supporto all’istruzione all’interno della società che ci circonda. Mentre non c’è dubbio che i soldi investiti nell’istruzione abbiano un ritorno, un cambiamento nella cultura e nelle aspirazioni è ugualmente, se non più, importante del reddito nel produrre risultati migliori”.
In altri termini il successo formativo degli studenti dipende dalla qualità e dalla motivazione degli insegnanti, dagli investimenti che vengono fatti sugli ambienti scolastici e sui luoghi in cui gli insegnanti lavorano, sulla loro formazione continua, sui loro stipendi e sugli incentivi al lavoro, e infine dalla considerazione sociale di cui un insegnante gode in relazione al fatto che la cultura nel suo Paese sia percepita come un valore.
Non voglio togliere al lettore il piacere di giocare con gli schemi e le infografiche e di vedere come si colloca l’Italia. Ma con una certa soddisfazione mi sono accorto di aver ragione su tutto quello che ho scritto negli ultimi mesi e, se siete critici delle politiche culturali nostrane, avete ragione anche voi. Pensiamo al ‘fattore insegnanti’ che risulta così decisivo. Lo sanno anche oltreoceano dove programmi come Teach for America hanno vasta risonanza. Gli unici a non saperlo probabilmente sono i governanti di questo Paese, di sicuro quelli degli ultimi vent’anni, da quando gli investimenti sull’Istruzione sono sempre più diminuiti. Non lo sanno evidentemente l’attuale capo del governo e il ministro dell’istruzione, che pure provengono da ambienti universitari di grande prestigio: tra le varie manovre di basso profilo rispetto alle aspettative Profumo ha cercato di aumentare l’orario di lavoro dei docenti del 33% senza aumenti salariali, ignorando il fatto che i contratti sono ampiamente disancorati dal costo della vita e bloccati, oltre che sotto la media europea.
Dopo aver fatto così infuriare anche la più mite delle colleghe ultrasessantenni e reazionarie Monti ha recentemente dichiarato, durante la trasmissione Che tempo che fa, che il problema sono i docenti “conservatori” che nel loro “corporativismo” rifiutano di lavorare “due ore in più”. Molta stampa, peraltro, gli ha tenuto bordone, parlando di occasioni di mancato rinnovamento. Il tutto mentre il ministro Fornero invitava sostanzialmente gli studenti a non studiare troppo e ad accontentarsi di lavori di profilo inferiore a motivazioni e curricula. Sono esempi di come va da noi il “supporto all’istruzione nella società”.
Su Radio Tre Tullio De Mauro, intervistato da Loredana Lipperini all’interno di Fahrenheit, ha commentato la situazione italiana sottolineando alcuni aspetti di lungo periodo su cui insiste da tempo. Forse lo sappiamo già, ma mi piace ribadirlo: al netto dei diversi modi in cui la scuola pubblica è stata attaccata e depauperata negli anni, la classe dirigente italiana storicamente concepisce la scuola come un sistema di autoriproduzione culturale e si mostra refrattaria a ogni cambiamento che possa modificare la mobilità sociale e le posizioni tradizionali. È la scuola come fattore di progresso e trasformazione prima di tutto sociale ciò di cui in Italia si ha paura.