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L’Africa nel nuovo secolo

16 Settembre 2016

English Version.

 

In un testo presentato in origine in una serie di conferenze e successivamente inserito in La filosofia della storia (Germania, 1837), Hegel scrive: “Il Negro... mostra l’uomo naturale nel suo stato completamente selvaggio e non addomesticato. Noi dobbiamo mettere da parte ogni idea di riverenza e moralità – tutto ciò che noi chiamiamo sentimento – se vogliamo comprenderlo correttamente. In questo tipo umano non c’è nulla che si accordi con l’umanità”. Hegel poi si ripromette di non menzionare più l’Africa, poiché “non è una parte storica del mondo; non ha alcun movimento o sviluppo da esibire”. Quello che noi intendiamo propriamente per Africa, conclude, “è lo Spirito Non storico, Non evoluto, ancora connesso con le condizioni di natura pura.”

 

Più di un secolo e mezzo dopo le ruminazioni di Hegel, Robert D. Kaplan, un giornalista e guru politico americano, pubblicò L’imminente Anarchia, un ritratto devastante dell’Africa occidentale, nell’edizione del febbraio 1994 del mensile US, “The Atlantic”. La guerra fredda era appena finita e gran parte del mondo occidentale stava cavalcando trionfalmente un’ondata di ottimismo. Celebrando tale trionfo – dell’occidente e di ciò che egli chiamava l’idea occidentale – Francis Fukuyama, scrivendo nell’edizione 1989 di “The National Interest”, un bimensile americano di affari internazionali, suggerì “ciò di cui noi possiamo essere testimoni non è semplicemente la fine della guerra fredda o il superamento di un periodo particolare di storia post-bellica, ma la fine della storia stessa.” Con “la fine della storia in sé”, Fukuyama non intese semplicemente il capolinea dell’evoluzione ideologica dell’umanità. Più fondamentalmente, egli intese la riconciliazione del principio di mercato e dell’idea di libertà, e l’universalizzazione della democrazia liberale dell’occidente in quanto forma finale del governo umano.

Ma, proiettando se stesso nel periodo dopo la fine della storia, Fukuyama poteva vedere soltanto malinconia e tristezza, una profonda nostalgia per il mondo hegeliano: “la fine della storia sarà un tempo molto triste. La lotta per il riconoscimento, la disponibilità a rischiare la propria vita per un obiettivo puramente astratto, la lotta ideologica globale che ha chiamato in causa temerarietà, coraggio, immaginazione, e idealismo, tutto ciò sarà rimpiazzato dai calcoli economici, la soluzione senza fine di problemi tecnici, questioni ambientali, e la soddisfazione di sofisticate esigenze dei consumatori.

Nel periodo post-storico non ci saranno né arte né filosofia, solo la cura perpetua del museo della storia umana”.

 

Mwangi Hutter, dark ease ease 2016, courtesy of the artists.

 

Quando Fukuyama scrisse il suo epitaffio alla storia, l’Africa era nel bel mezzo di una spettacolare collisione. L’Apartheid e il governo della minoranza bianca stavano giungendo a una fine ufficiale in Sud Africa, mentre un genocidio di proporzioni catastrofiche si stava svolgendo in Ruanda. 

Liberazione e apoteosi di lunghi anni di lotta da un lato, autodistruzione dall’altro.

Entrate procapite e produzione in ribasso, bassi livelli del risparmio e degli investimenti, crescita lenta della produzione in agricoltura, guadagni mancati delle esportazioni, importazioni strangolate e onerosi debiti con l’estero – tutte piaghe prevalenti dell’Africa Subsahariana.

Nel suo scenario del 21esimo secolo, Kaplan argomentava che l’Africa occidentale in particolare stava diventando: “il simbolo di un sovraccarico demografico, ambientale e sociale, nel quale l’anarchia criminale emerge come il vero pericolo “strategico”. Malattie, sovrappopolazione, criminalità spontanea, scarsità di risorse, migrazione di rifugiati, la crescente erosione di stati-nazione e confini internazionali, e il rafforzamento di corpi armati privati, agenzie di sicurezza, e cartelli internazionali della droga sono adesso chiaramente manifesti nel prisma dell’Africa occidentale.”

 

Nella geografia di Kaplan – così come in Hegel nel secolo precedente – l’Africa Occidentale divenne l’epitome di quelle regioni del mondo dove i governi centrali stavano scomparendo, feudi tribali e regionali stavano nascendo e la guerra era diventata pervasiva.

L’Africa Occidentale, argomentò Kaplan, stava tornando “all’Africa dell’Atlante Vittoriano”. Egli aggiunse: “Ora consiste in una serie di postazioni commerciali costiere, come Freetown e Conakry, e un retroterra che, a causa di violenza, instabilità e malattie, sta nuovamente diventando, come Graham Greene osservò una volta, ‘vuota’ e ‘inesplorata’”. Kaplan evocò l’economista politico inglese Thomas Malthus, descrivendolo come “il filosofo dell’apocalisse demografica” e un “profeta” del futuro dell’Africa Occidentale.

“E il futuro dell’Africa Occidentale, alla fine, sarà lo stesso della gran parte del resto del mondo… in un’età di scontro culturale e razziale”.

Questa visione apocalittica del futuro dell’Africa fu ripresa nel 2000, quando, basandosi nuovamente su schemi hegeliani, l’influente settimanale finanziario britannico, “The Economist”, dichiarò che l’Africa era “senza speranza”.

 

Mwangi Hutter, days of creation 2016, courtesy of the artists.

 

In un famoso editoriale, intitolato “Il Continente senza speranza”, evocò immagini di indigenza, fallimento, disperazione, alluvioni e carestie, povertà e pestilenza, brutalità, despotismo e corruzione, terribili guerre e saccheggi, stupri, cannibalismo, amputazioni, e perfino il clima, per suggerire che l’Africa era definitivamente condannata. Gli operatori di aiuto umanitario, missioni di mantenimento della pace, agenzie umanitarie e il mondo in generale, a tutti non restava che arrendersi, così profondamente “radicate nelle loro culture” erano le cause di tale miseria umana, queste le conclusioni.

Mentre scrivo, povertà e disoccupazione sono ancora diffusi sul continente, in alcuni casi più che in altri mercati emergenti. In molte aree del mondo ricco, l’Africa, con le sue storie apparentemente senza fine di malattie e disordini, ispira ancora pietà e sfiducia, quando non produce impulsi umanitari e filantropici profondamente radicati – e il disprezzo che generalmente li accompagna. La gente lotta ancora per sbarcare il lunario – ma oggigiorno, dov’è che non succede? Si cercano comunque prodotti che possano essere a buon mercato e affidabili. Le necessità sono ancora ovvie. La scarsità è ancora un fatto. Non c’è ancora abbastanza da mangiare. Manca ancora l’educazione. Ci si dispera di fronte all’ingiustizia quotidiana e alcuni vogliono emigrare. Molti ancora temono una fine prematura e violenta.

Ma c’è dell’altro.

 

L’iscrizione alla scuola secondaria è cresciuta del 48% tra il 2000 e il 2008. Nello scorso decennio, la morte per malaria in alcune delle zone più colpite è calata del 30% e l’infezione HIV fino al 74%. L’aspettativa di vita in Africa è aumentata di circa il 10 % e il tasso mortalità infantile nella gran parte dei Paesi ha avuto un forte declino. Negli ultimi dieci anni, il reddito reale procapite è aumentato del 30% mentre nei precedenti 20 anni si era contratto di circa il 10%. Solo il 20% di un miliardo di persone è online, ma tale quota sta crescendo rapidamente dato che le reti mobili si stanno diffondendo e il costo dei dispositivi che si collegano a internet è in continua caduta. Di fatto, 720 milioni di Africani hanno telefoni cellulari e 100 milioni erano su Facebook nel 2014.

La telefonia mobile in particolare ha rivoluzionato il modo di interagire degli Africani e il modo di operare delle piccole e medie imprese, degli agricoltori e del commercio informale. Come risultato, le rendite mobili equivalgono oggi al 3,7% del PIL africano – più del triplo della quota dei paesi sviluppati dove era un’innovazione incrementale. Se internet eventualmente pareggiasse o eccedesse il livello di impatto già raggiunto dalla telefonia mobile, potrebbe contribuire per circa 300 miliardi al PIL africano per il 2025, secondo un rapporto della società di consulenza McKinsey.

Si calcola che, in questo scenario “a salto di rana”, un’accresciuta penetrazione e uso di internet potrebbe incentivare il consumo privato ad oltre 13 volte i livelli correnti di 12 miliardi, raggiungendo circa 154 miliardi di dollari nel 2025.

 

Mwangi Hutter, just a concept 2016, courtesy of the artists.

 

Faccio un altro esempio: le trasformazioni che stanno interessando i modelli urbani.

Queste sono state causate in parte dall’emergere, nel continente, di megacities e mega-regioni la cui densità, massiccia espansione spaziale, enorme incremento demografico, alti livelli di rischio e grandi disparità di ricchezza, è stata accompagnata da modalità dinamiche e inaspettate di crescita urbana. Le città principali quali Lagos, Johannesburg, Kinshasa, Nairobi, Luanda, Dakar e Abidjan hanno continuato ad espandersi in modo relativamente incontrollato, decentralizzato se non casuale dagli anni ’80. Oggi, queste città sono meglio definite come mega-regioni con multipli nuclei urbani.

Le miriadi di spazi pubblici vengono sempre più privatizzati. Nuovi modelli di migrazioni trans-regionali, insediamenti e alto consumo stanno trasformando il loro tessuto economico e culturale, aprendo la strada a forme altamente stilizzate, ibride e creolizzate. Reti visibili e invisibili di scambio sociale ed economico partecipano ma sono anche separate dai flussi principali di capitale globale, reale e fittizio. Una delle loro caratteristiche dominanti non è solo la geografia sociale disgiunta, ma anche il modo in cui esseri umani e non, sono interconnessi in insiemi eterogenei non riconosciuti che concorrono a formare un’unica civilizzazione urbana. Più che in qualsiasi altro momento della loro storia recente, queste mega-regioni sono il risultato diretto di nuove forme socio-economiche come pure di differenti politiche di relazioni umane/non umane/tecno-ecologiche.

 

Consideriamo inoltre che cosa sta accadendo nell’arte contemporanea Africana. Nel paradigma hegeliano, ovviamente non c’è una cosa come “l’arte contemporanea africana”. Qualora esistesse, non avrebbe né autori né concetti, solo caratteri etnici e i loro feticci. È sufficiente piazzare banali oggetti domestici o cerimoniali in un museo o una galleria per trasformarli in oggetti d’arte. In ogni caso, da quando l’artista francese Marcel Duchamp ha definito come arte oggetti di consumo, non ci sono più opere come tali nell’occidente. 

Duchamp ha siglato la morte dell’opera d’arte nel senso classico del termine. Non c’è più nessuna immagine da isolare o da catturare. O almeno non c’è più niente da interpretare. Ci sono solo delle selezioni da fare e collezioni di oggetti da assemblare, da curare ed esporre. 

Da Duchamp, si potrebbe dire che l’atto di dare forma, di animare, è finito in secondo piano. 

Quando l’occidente “scopre” l’art nègre (Arte negra) all’inizio del 20° secolo, è affascinato prima di tutto da ciò che ha dimenticato – che non era necessario separare l’immagine e la forma; infatti potevano essere riconciliate nell’oggetto; e la loro riconciliazione è ciò che conferì ad entrambe una singolare forza animatrice. Da qui la vitale costruzione degli oggetti Africani all’inizio del 20° secolo.

La magia dell’arte dell’Africa e della sua diaspora è sempre derivata dal suo potere di dematerializzazione, la sua capacità di risiedere nei luoghi comuni e nel sensibile, precisamente al fine di trasformarlo in un’idea e un evento. Storicamente deriva da un inequivocabile riconoscimento del fatto che l’infinito non può essere catturato in un forma. 

L’infinito va oltre ogni forma – anche se, di quando in quando, passa attraverso la forma, ovvero attraverso il finito. Ma ciò che fondamentalmente caratterizza la forma è la sua finitezza. La forma può essere soltanto effimera, evanescente e labile. “Formare” è occupare uno spazio di essenziale fragilità e vulnerabilità. Questa è la ragione per cui prendersi cura e nutrire la vita sono le funzioni principali delle arti.

L’idea dell’arte come un tentativo di catturare le forze dell’infinito; un tentativo di calare l’infinito in una forma sensibile, ma un formare che consiste in un costante fare, disfare e rifare; assemblare, disassemblare e riassemblare – questa idea è tipicamente ‘Africana’. È in piena consonanza con lo spirito digitale dei nostri tempi. Ecco perché ci sono buone probabilità che l’arte del 21° secolo sia Afropolitan.

 

Mwangi Hutter, reflex 2016, courtesy of the artists.

 

Comunque sia, oggi, un’altra geografia culturale del mondo si sta configurando. Piaccia o no, l’Africa si sta fermamente inscrivendo in un una nuova storia, decentrata ma globale, delle arti.

Si sta sganciando da paradigmi etnologici che l’avrebbero imbrigliata nel primitivismo o neo-privitivismo. Il termine “Africa” in sé tende, sempre più, a riferirsi ad una categoria geo-estetica.

Essendo l’Africa soprattutto il corpo di una vasta diaspora, è per definizione un corpo in movimento, un corpo deterritorializzato costituito nel crogiolo di varie forme di migrazione. Anche  i suoi oggetti d’arte sono soprattutto oggetti in movimento, derivanti direttamente da un immaginario fluttuante. Questa è la modernità africana – una forma migrante di modernità, scaturita da genealogie sovrapposte, all’incrocio di incontri multipli con multipli altrove.

Anzi se l’arte moderna è una risposta alla crisi dell’immagine, è possibile che questa crisi sia sul punto di essere risolta dalla creazione afro-diasporica contemporanea, che ci consentirà di uscire dalla crisi dell’idea dell’immagine aperta dall’arte moderna. 

Quando si entra nel 21° secolo, la mitologia hegeliana – e le sue molteplici varianti – evidentemente non tengono più. Questa mitologia si sta chiaramente sfaldando. Qualcos’altro sta accadendo. Sta venendo raccolta sia dagli stessi Africani che, per quanto sembri strano, dal mondo dell’alta finanza. Un tacito consenso si sta formando attorno all’idea che dopo la Cina, quello che sta accadendo in Africa avrà un enorme impatto non solo sulla stessa Africa ma sul nostro pianeta. Il tacito consenso emergente è che il destino del nostro pianeta si giocherà, in larga misura, in Africa.

 

 Se c’è una singola idea che vorrei tratteneste da questo intervento, è proprio questa.

Questa svolta planetaria del paradigma africano costituirà l’evento culturale e filosofico centrale del 21° secolo. Ci porterà molto lontano dai miti hegeliani che ho citato in apertura di questo discorso.

Tale svolta planetaria è il risultato di uno spostamento concettuale in corso – e non ancora del tutto manifesto – rispetto al quale vorrei fare tre osservazioni. 

Primo, che l’Africa sia percepita gradualmente come il luogo in cui il nostro futuro planetario è in ballo – o si sta giocando – è dovuto al fatto che, in tutto il mondo e in particolare in Africa, concetti superati di spazio e tempo basati su nozioni lineari di sviluppo e progresso stanno per essere rimpiazzati da nuovi concetti di tempo e orizzonti futuri fondati su modelli di racconto aperti.

Secondo, nel continente stesso, il futuro dell’Africa è pensato sempre più come pieno di possibilità inattuali, di mondi agognati, di potenzialità. Molti credono sempre più che tramite l’auto-organizzazione e piccole rotture, si possa realmente creare miriadi di “punti critici” che potrebbero portare a profonde alterazioni della direzione che il continente sta prendendo.

Terzo, in effetti, è ormai una questione di tacito consenso, specialmente tra istituzioni finanziarie ed esperti internazionali, che l’Africa rappresenti l’ultima frontiera del capitalismo. 

 

Mwangi Hutter,thinking makes it so 2016, courtesy of the artists.

 

Lasciatemi finire dove ho cominciato: con Hegel, cioè, con la razza e il razzismo, e il futuro della specie umana in questa era post-hegeliana e la svolta planetaria del paradigma africano. La razza è ancora una volta rientrata nella sfera della verità biologica, osservata a livello molecolare. Una nuova evoluzione molecolare della razza è emersa dal pensiero genomico. 

In tutto il mondo, siamo testimoni di un rinnovato interesse in termini di identificazione di diversità biologiche. In questi tempi di migrazioni globali, molti stanno cullando il sogno di “Nazioni senza stranieri”. La genomica ha iniettato nuova complessità nell’immagine dell’umano. E tuttavia la tipologia razziale centrale del 19° secolo procura tuttora la lente dominante attraverso cui viene compresa questa nuova conoscenza genetica della diversità umana – e, in effetti, si stanno formando e sviluppando nuovi concetti di natura medica e laica della variazione umana. 

Fondamentali nella corrente di riarticolazione della razza e ricodificazione del razzismo sono gli sviluppi delle scienze biologiche. Ho già menzionato la genomica. Dovrei aggiungere la nostra rinnovata comprensione della cellula, della neuroscienza e biologia sintetica. L’ultimo quarto del 20° secolo ha visto il sorgere di uno stile di pensiero molecolare e neuro-molecolare che analizza tutti i processi viventi del corpo e del cervello in termini di proprietà materiali di componenti cellulari come basi DNA, canali ionici, potenziali di membrana e affini. Questo processo è iniziato all’inizio del 20° secolo e ha raggiunto il suo acme durante il suo ultimo quarto – e continua a esercitare un influsso nel 21°. 

È un processo che è stato reso ancora più potente dalla sua convergenza con due sviluppi paralleli. Il primo è l’emergere delle tecnologie digitali dell’era informatica, e il secondo è la finanziarizzazione dell’economia. Questi sviluppi hanno a loro volta creato due serie di conseguenze. Da un lato, questa è una rinnovata preoccupazione per il futuro della vita stessa, e dall’altro, il capitale sta operando in modo nuovo nelle condizioni attuali. Grazie al lavoro del capitale, non siamo più radicalmente diversi dalle cose. Le trasformiamo in persone. Ce ne innamoriamo. Non siamo più solo persone, o forse non siamo mai stati solo persone.

 

Ora ci rendiamo conto che nell’idea di razza c’è più di quanto Hegel aveva immaginato. Nuove configurazioni di razzismo stanno emergendo ovunque. Poiché il concetto di razza implica profonde domande sulla natura della specie umana in genere, la necessità di ripensare le politiche di razzializzazione e i termini in base ai quali si sviluppa la battaglia per la giustizia razziale – qui e ovunque nel mondo – oggi è diventato sempre più urgente. Il razzismo agisce ancora come un supplemento intrinseco del nazionalismo. Come creiamo un mondo oltre il nazionalismo? Dietro il velo della neutralità e imparzialità, il potere razziale dipende ancora strutturalmente da vari regimi legali per la sua riproduzione. Come trasformiamo radicalmente la legge?

Cosa ancora più minacciosa, la politica razziale sta prendendo una svolta genomica. Al fine di rafforzare pensieri e prassi anti-razziste, e per rianimare il progetto di non-razzismo, abbiamo particolarmente bisogno di esplorare i nessi emergenti tra biologia, geni, tecnologie e le loro articolazioni con nuove forme di umana miseria. Nella attuale riconfigurazione e mutazione della razza e del razzismo è in gioco la divisione dell’umanità stessa in specie e sottospecie separate come risultato della liberalizzazione del mercato e della tecnologia genetica. 

 

Mwangi Hutter, two to fly 2016, courtesy of the artists.

 

Sono pure in gioco, di nuovo, le vecchie domande su chi è chi; chi può avanzare pretese su chi, e su quale terreno; e chi possiede chi, e che cosa. In un ordine neoliberale contemporaneo che si vanta di essere andato oltre il razziale, la lotta per la giustizia razziale deve prendere nuove forme.

Ma guardando semplicemente al passato e al presente, riarticolazioni locali e globali della razza non basteranno. Per promuovere alternative possibili di pensiero sulla vita e il futuro dell’uomo in questa era di individualismo neoliberale, dobbiamo collegare in modi completamente diversi il progetto non-razzismo a quello della solidarietà umana. 

In ultima istanza, non-razziale ha veramente a che fare con la condivisione radicale e l’inclusione universale. Riguarda il genere umano che governa in comune in nome di un bene comune più grande, che include non-umani – questo è il termine esatto per democrazia. In questo senso, non-razzismo è l’antitesi del potere del mercato. Il dominio del capitale sulla politica ha avuto come risultato la  perdita di innumerevoli vite umane e la produzione in ogni angolo del mondo di vaste distese di terre aride e morte.

 

Per riaprire il futuro del nostro pianeta a tutti coloro che lo abitano, dovremo imparare a condividerlo di nuovo, tra i suoi abitanti umani e non umani, tra le molte specie che lo popolano. È solo a queste condizioni che, consapevoli della nostra precarietà come specie di fronte a minacce ecologiche, saremo in grado di superare la prospettiva certa dell’estinzione umana che si è aperta in questa nuova epoca, l’era dell’Antropocene.

 

* This article originally appeared in City Scapes, the publication of the African Center for Cities.

 

La traduzione è a cura di Gian Carlo Gianesin.

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