La dimensione europea della cultura
Continua con una nuova forma la collaborazione con Il Giornale delle Fondazioni - Giornale dell'Arte. Da oggi pubblicheremo un approfondimento sulle città italiane candidate a Capitale Europea della Cultura 2019. Cominciamo oggi con un'intervista a Sylvain Pasqua, membro dell’Unità Programma Cultura della Direzione Generale Educazione e Cultura della Commissione Europea, dove coordina l’iniziativa Capitale Europea della Cultura.
Quali sono le opportunità derivanti dal programma «Capitale Europea della Cultura»? Cosa significa essere «Capitale Europea della Cultura» oggi e come è cambiato l’approccio alla cultura, considerando la profonda crisi economica, sociale e anche identitaria che l’Europa sta affrontando?
Questa è una domanda interessante con cui sono felice di iniziare la nostra intervista, perchè mi permette di andare al cuore della ragion d’essere del programma ECoC e di quelli che sono gli obiettivi della Commissione. L’anno europeo della cultura è un evento di grande scala, lungo 12 mesi, che genera grandi aspettative. E’ una sfida impegnativa per le città, solitamente abituate a confrontarsi con l’organizzazione di eventi di minore durata.
L’ECoC prevede un anno di celebrazioni culturali e l’organizzazione di un programma caratterizzato da una forte dimensione europea, in grado di rappresentare le diversità e al tempo stesso i punti in comune dei paesi che insieme compongono l’Unione Europea. Un’altra dimensione fondamentale è il coinvolgimento dei cittadini, dei principali stakeholder economici, dei territori circostanti. In base alla loro risposta e alla misura della loro partecipazione, le città raggiungono risultati più o meno positivi nel breve e nel medio-lungo periodo.
Il titolo di ECoC rappresenta un’opportunità per rafforzare il proprio network internazionale, per determinare il proprio posizionamento nella mappa europea della cultura, per stimolare la nascita di nuove collaborazioni tra le organizzazioni culturali del territorio e quelle attive in altri paesi, per professionalizzare il proprio tessuto di operatori legati, in particolare, ai settori della cultura, della creatività, del turismo.
Ma prima di tutto, tramite il titolo di ECoC, le città hanno opportunità economiche, soprattutto dal punto di vista turistico. E’ un’occasione per mostrare al resto dell’Europa le ragioni per visitare il proprio territorio, per dire “ecco cosa possiamo offrire”. Alcune città usano il titolo come punto di inizio di processi di rigenerazione urbana. Importanti sono anche gli obiettivi sociali che possono essere raggiunti grazie all’anno europeo della cultura, facilitando l’accesso alla cultura da parte di nuovi pubblici, ad esempio minoranze, e coinvolgendo le persone in qualità di volontari.
Tutto ciò è per dire che investire in cultura non è un lusso, ma un vero investimento, non solo per la comunità culturale, ma per la città nel suo complesso. Per questo la Commissione Europea mette grande enfasi sull’importanza di collegare il titolo ad una più ampia strategia di sviluppo della città a 360 gradi: l’anno europeo della cultura non è un evento isolato e la più grande sfida che esso porta con sé è la capacità di collegarlo a strategie di sviluppo culturale, economico e sociale di lungo periodo.
Quali azioni hanno sviluppato le ex ECoC, che hanno raggiunto i migliori risultati in termini di impatto nel lungo periodo?
Penso a Lille 2004, che è stata in grado di mettere in atto azioni volte al cambiamento della propria immagine, prima non connotata troppo positivamente. Ha usato il titolo per comunicare la capacità di offrire opportunità prima di tutto ai giovani e agli studenti, e la propria posizione, sul confine, che ne fa una città aperta e quindi internazionale. E’ stata una strategia di successo volta a rafforzare il proprio posizionamento, non solo culturale, in Francia e a livello europeo, conferendo alla città un’immagine attraente e vibrante. Poi ha dato vita a Lille 3000, che è la continuazione di Lille2004 su scala minore, un’iniziativa che ogni due anni attrae molti turisti. In particolare, attraverso questa iniziativa, e non solo, Lille ha avuto l’intuizione e la capacità di non disperdere le competenze sviluppate durante l’anno europeo, ma di portarle avanti per dare vita a nuovi progetti.
A Bruxelles 2000 la comunità culturale ha utilizzato il titolo come opportunità per creare network che raggruppano centri culturali e associazioni di lingua fiamminga e francese, impegnati insieme a influenzare le decisioni strategiche della città in campo culturale. Il titolo è stato dunque l’opportunità per il settore di raccogliere le proprie energie e rafforzare la propria «posizione contrattuale». Liverpool ha usato il titolo per rigenerare la città e farne una meta turisticamente attrattiva a livello non solo europeo. Guimares 2012 è stata l’opportunità per i decision makers di diventare più consapevoli rispetto al potenziale delle industrie culturali e creative nello sviluppo economico e sociale della regione, che aveva affrontato la crisi del settore tessile negli anni ‘80 e ‘90, e che era alla ricerca di nuove risorse da cui ripartire per la propria crescita economica.
Cosa ne pensa dell’idea di creare Capitali della Cultura nazionali? Questa idea è già stata concretizzata in Gran Bretagna e l’Italia ci sta lavorando, con l’obiettivo di non disperdere e, anzi, valorizzare gli importanti risultati prodotti da tutte le città, che hanno partecipato alla prima fase di selezione.
In linea di principio sono favorevole a questo tipo di iniziative. E’ una buona idea se sono conseguenza di una crescente consapevolezza da parte dei decision makers italiani a livello nazionale rispetto al potenziale espresso dalla cultura in termini di sviluppo economico e sociale del paese e per l’attivazione di processi di rigenerazione non solo a livello urbano, ma dell’intero paese. C’è solo un problema che potrebbe emergere: la procedura per la nomina della città deve essere trasparente.
Se non c’è trasparenza, il programma perde credibilità e questo può danneggiare non solo il titolo a livello nazionale, ma anche quello europeo. La forza del programma ECoC è l’estrema trasparenza dei criteri e delle procedure di selezione e l’indipendenza dei componenti della commissione che valuta e seleziona. La chiarezza dei criteri di selezione aiuta le città nella preparazione della propria application, a meglio comprendere le indicazioni ricevute dalla commissione, e di conseguenza anche a migliorare le proprie strategie culturali.
Quali sono le tre principali raccomandazioni per le città italiane candidate, che si preparano ad affrontare l’ultima fase di selezione?
Un problema diffuso alle città candidate è capire a pieno il significato della «dimensione europea». Non basta essere una città «conosciuta» a livello europeo, è necessario mostrare la diversità culturale dell’Europa e cogliere l’occasione del titolo per aprire nuove opportunità di collaborazione tra gli operatori culturali del territorio e gli altri paesi europei.
Un’altra sfida è costruire un link tra l’anno europeo e una più ampia strategia di sviluppo economico e sociale di lungo periodo. La governance condiziona tutta la strategia e la buona riuscita del programma: l’organismo incaricato di gestirlo deve essere forte e avere il riconoscimento delle istituzioni pubbliche locali e nazionali e un forte legame con gli stakeholder economici e sociali del territorio.