Conversazione con Antonio Prete / Divento Io dicendo Tu
Al Festival della Letteratura di Mantova Antonio Prete ha raccontato come il suo ultimo libro – Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità – nasca da un azzardo: raccontare l’interiorità significa dare voce a una pluralità di figure e di linguaggi, abitare uno spazio e iscriversi in un movimento necessario e senza termine, dal momento che, come è detto nelle prime pagine, interiorità è parola che designa e non definisce, parola senza confini che invita a un’esplorazione.
La disposizione alla scrittura è, in queste pagine, una disposizione all’ascolto.
C’è umiltà davanti al sapere, e un’idea di saggezza come movimento: il soggetto è un enigma, e i diversi momenti del libro non sono che uno dei sentieri che si potrebbero tracciare, un percorso in cui veniamo accompagnati dalla voce di un io che colloca prima di tutto il suo stesso guardare.
Conosci te stesso, raccoglimento, cosmografie interiori, studio d’amore, soliloquio, in cammino; la parola percorre queste e altre stanze a partire da un dire singolare: “mi è difficile separare la parola ‘ricordo’ dal ‘mi’ che la precedeva nelle conversazioni e nei racconti che ascoltavo da ragazzo, la sera, sull’uscio delle case bianche di calce, in un paese del Sud, o nella controra dei pomeriggi estivi, in campagna…”. Un essai, alla maniera di Montagne: “Je suis moi-même la matière de mon livre” (“Sono io stesso la materia del mio libro”).
Queste pagine contengono la luce che accende i mattoni e le finestre, così come le ombre, ed è soltanto rinunciando alla pretesa di un dire ultimo che la letteratura può tracciare qualcosa, mostrando come il mondo abbia bisogno del mondo in un risuonare continuo.
Ogni capitolo si chiude con una rubrica, per una grammatica dell’interiorità: silenzio, ascolto, attesa, segreto, stupore, solitudine, sono alcune delle parole di una possibile lingua del sentire che dice l’interiorità in modo sempre provvisorio, dando forma ai cieli nascosti e attraversandone i turbamenti: “ad un certo punto, via via che scrivevo, si è imposto da sé questo lessico del sentire, come un libro entro il libro che ho deciso di raccogliere e trattenere: una specie di inserzione. Mi sembrava che non parlare di questa lingua sarebbe stato tralasciare qualcosa di necessario, per quanto questo resti un libro fatto di mancanze, uno dei tanti libri possibili”.
La psiche come cielo, dunque, e non come una topica da ricomporre né un ordine da ricostruire: l’inconcluso, lo sfondato, l’insondabile, alba via via più chiara e fulmini improvvisi. Quel cielo nascosto perché tenuto sotto controllo dal linguaggio e difeso dai sensi, e che tuttavia si rivela, per lampi, seguendo le mutazioni di luce; cielo che dice il visibile e rimanda all'invisibile, all’armonia nascosta più forte di quella manifesta.
Nella quiete del giardino di Palazzo Ducale, a Mantova, conversare con Antonio Prete è stato seguire il suo sguardo nelle stazioni di queste terre ignote, provando quel movimento che lega l’io al tu e l’io al mondo, “reciprocità tra l’incedere e il pensare” che regala delle immagini, delle storie, la possibilità di custodire qualcosa, dialogando con l’intimità del libro, dello spazio intorno e delle sue voci.
Mi piacerebbe partire con te continuando, idealmente, la nostra conversazione sul tema della compassione, e un buon modo mi pare possa essere quello di cominciare da un tema che attraversa diversi momenti del tuo libro: dal suo esergo (“Divento Io dicendo Tu”) fino alle ultime pagine (“l’inverarsi della singolarità nel riconoscimento dell’altro”). Mi riferisco all’idea dell’interiorità come espansione verso il mondo e verso l’altro, come movimento di apertura e di ritorno a sé, che è quel movimento che avevamo guardato parlando di Leopardi, quell’amor proprio come desiderio, come radice di ogni passione che consente l’uscita da sé, che salva dal monologo cui è invece consegnato Narciso, quel Narciso in cui il tu non è che un’ombra del sé.
Sì, diciamo interiorità pensando a questo tempo e spazio da cui siamo abitati e in cui abitiamo, che è davvero insondabile, indefinibile; e che tuttavia noi cerchiamo di rappresentare a noi stessi come quel luogo in cui l’io si possa in qualche modo mostrare, con i suoi contorni, con una sua fisionomia, al di là delle formulazioni che i saperi, le scienze, le religioni, hanno dato e danno del soggetto. Interiorità è una parola dunque sconfinata, che non racchiude ma designa, e sta a noi di volta in volta dare a questa parola dei confini di senso, confini di senso che sono mobili all’interno dei contesti discorsivi. Dire interiorità allora significa muovere verso quello che sempre è nominato come soggetto – dalla filosofia, dalla psicoanalisi, dalle scienze – con un’attenzione nuova. Un’attenzione che non riduca quel soggetto a un’astrazione né cerchi di approdare subito a una definizione, ma che indugi sulla corporeità, sulle forme del suo rappresentarsi, sulla geografia del sentire, sul ventaglio della sua lingua. Presto ci si accorge che in questa mappa del sentire è l’altro che fonda il sé. E questo altro può essere anche l’altrove, il tempo vissuto e quello non vissuto, la presenza e l’assenza. Volevo insomma indugiare su alcune figure dell’interiorità in cui la relazione con l’altro diventa sorgente stessa del conoscere, del conoscersi.
Amarsi e amare, scrivi infatti, sono due movimenti dello stesso sguardo, come conoscere e conoscersi.
Questa è la ragione per cui ho messo come esergo della Premessa la frase dal libro di Martin Buber Io e tu: “Divento io dicendo tu”, espressione che definisce bene questo movimento. “Divento io”: l’io non è dato, Freud ci ha insegnato che l’io diviene, e questo divenire può accadere e mostrarsi soltanto in relazione a un tu.
Quando pronuncio il tu, scrive Buber, divento io: solo attraverso questa pronuncia, questo accoglimento del tu, questo inserimento, nel tempo e spazio del proprio sentire, della presenza del tu, l’io si può osservare come non statico, non fissato in una stereotipia, non astratto, e si può cogliere nella sua mobilità, nella sua variabilità, nella sua non definizione, e si può accettare come plurale, mobile, insondabile. Tutto questo è reso possibile dal tu, che è presenza che genera, che sollecita. È poi quel che accade nell’amore. L’amore è un grande teatro della conoscenza di sé, una conoscenza particolare che passa attraverso l’altro: nella misura in cui riesce a tenere la relazione con l’altro in un equilibrio – equilibrio in cui l’altro non assimila l’io, non si appropria del soggetto da cui muove il desiderio, ma entra nel gioco del desiderio e ne diviene parte – l’esperienza d’amore si fa conoscenza di sé. È questa circolarità a permettere la conoscenza di sé.
E lo smarrimento d’amore?
Certamente vi è una grande tradizione poetica che modula l’amore come perdita di sé, come trasferimento di sé nell’altro, come spoliazione dell’io : dal Dolce Stile al Ficino che commenta il Simposio alle dottrine d’amore e alla poesia d’amore del Cinquecento, questa perdita di sé è una figura ricorrente nella fenomenologia dell’amore (“Come può esser ch’io non sia più mio?”, è il grido che apre una delle più belle Rime di Michelangelo). Come lo spaurimento e il tremore e il turbamento, a lungo rappresentati – da Saffo a Petrarca a Leopardi – anche lo spossessamento di sé è esperienza del vuoto, ma appartiene anche questo al cammino di conoscenza: conoscenza del desiderio, della sua illimitatezza, del suo non compimento, della sua sospensione. Svuotamento di sé necessario perché il sé possa riconoscersi dopo che è passato attraverso l’altro.
Del resto l’appartenenza a sé che uno crede di avere, prima dell’amore, è del tutto illusoria; e dunque l’io non si dà che come io smarrito.
Dici bene: come io smarrito. E riparato dietro maschere e infingimenti. Che nell’amore cadono. Cade nell’amore la presunzione di un io stabile, fondato, fisso. L’amore è esperienza di un tu che smuove questa fissità e prepara alla possibilità di un riconoscimento di sé come tempo e come spazio aperti.
Come a dire: nell’unico modo possibile che non è certo un modo che pretende di cogliere una verità.
Certo. Questo non cancella l’esperienza dell’amore come perdita di sé: tutto il Canzoniere di Gaspara Stampa, per fare un esempio, mette in scena il movimento di un’interiorità che ha origine dalla mancanza. Altre rappresentazioni dell’amore dicono invece di un ritorno verso di sé, nello spazio di un’interiorità resa mossa e aperta dall’incontro d’amore.
Tornando alla frase di Buber, “Divento Io dicendo Tu”, essa indica, dentro e oltre l’amore, il movimento verso il dialogo, nel dialogo. Non posso non pensare, su questo piano, a un altro libro, Livre du dialogue di Edmond Jabès.
Ci sono, potremmo dire, due differenti saggezze: tra Epitteto e Leopardi, scrivi, “c’è in mezzo la storia della compassione”. Una saggezza si crede imperturbabile, rifiuta l’incontro con il mondo: saggezza come distacco che implica in qualche misura un separarsi da sé, un negarsi al movimento della vita e un tentativo di disciplinare il desiderio, allontanandosi dal “patire” (sia un patire l’altro o un patire il cosmo). Leopardi racconta invece una necessaria relazione con il tutto e la saggezza non è in lui pretesa di controllo. La saggezza che lo pretende, forse, ci separa allora dall’interiorità.
Certo, Leopardi è il traduttore del Manuale di Epitteto, e le regole della “cura di sé” in esso dichiarate Leopardi mostra di condividerle, e nel Preambolo al volgarizzamento consiglia al lettore di poterle mettere in pratica, ma di fatto, come risulta dalle molte osservazioni dello Zibaldone intorno alla compassione, proprio il modo di stare dinanzi al dolore dell’altro allontana il poeta moderno dall’antico stoico. La raggiera del sentire dinanzi alla sofferenza è diversa. In Leopardi c’è sì il senso della finitudine, ma in quell’orizzonte della finitudine c’è il desiderio, il suo arco vitale, che coincide con il respiro stesso dell’uomo. Quanto all’interiorità, che peraltro è un termine acquisito molto tardi dalla lingua italiana (coniato sul francese intérieur/intériorité ), lo sguardo di Leopardi è uno sguardo che abbandona la pretesa di trovare in sé il principio della conoscenza del mondo, la sorgente del pensare, e questo per il fatto che forte è in lui una convinzione: è l’immaginazione la facoltà vera sia del filosofo sia del poeta, facoltà che non si può identificare con il pensare, con il soggetto che pensa, cartesianamente. L’immaginazione scardina ciò che è stabile: è fuggevole, variabile, inattesa, dipinge mondi che non ci sono, corteggia l’altrove, indugia sul mai più e sul non ancora, ed è soprattutto legata al ricordo – la leopardiana ricordanza! – e proprio per questo è produttrice di linguaggio, è segreta tessitura del linguaggio. Per Leopardi, vichianamente, è l’immaginazione la sorgente della conoscenza. Quanto alla saggezza di cui dicevi, certo, essa non può essere separazione dal senso del vivente, che comprende il cosmo, il suo respiro.
Stare al mondo è stare in questo respiro. Un’osservazione al margine: la parola “mondo” per Leopardi – lo ribadisce in uno dei suoi Pensieri – viene dal cristianesimo: è Cristo a parlare di “mondo”. Ma qui c’è anche una coloritura gnostica, non estranea al pensiero di Leopardi. Il mondo in Leopardi è anche male (“a me la vita è male”, frase di cui troviamo una eco in Baudelaire -“vivre est un mal” – e nel notissimo verso di Montale “Spesso il male di vivere ho incontrato”).
Mi pare che questo riporti alla corrispondenza con la physis, che ritorna nelle pagine dedicate a Valéry: l’altro è anche l’altro del cosmo.
Quando diciamo altro certamente – secondo una certa tradizione, propria anche della cultura cristiana – intendiamo l’altro come soggetto, la persona umana. Per la poesia l’altro non è mai soltanto l’altro come soggetto, ma è tutto ciò che è visibile, è l’orizzonte del visibile. Un orizzonte che è anche la soglia dove l’invisibile manda risonanze, riverberi, forme attraverso le quali si può immaginare l’irrappresentabile. Per questo l’orizzonte, e l’indefinito, sono figure che agiscono fortemente nella poesia, persino la fondano. Per il poeta, l’altro è la relazione con quello che appare e con il suo oltre. Ed è strano, perché in fondo questo è il principio stesso della filosofia – poi abbandonato, lungo il tempo, per i sistemi filosofici, per le dottrine e per i saperi. Però è certo che l’origine della filosofia sia la meraviglia: Iride, lo stupore davanti all’apparire inatteso. C’è stupore là dove si delinea qualcosa che entra nel campo visivo secondo forme che non hanno bisogno di essere riconosciute per comparazione con il già noto, ma che sono nuove, inattese, impensate. La meraviglia è lo stupore davanti all’impensato, e la poesia è il luogo che ha conservato l’attitudine primigenia della filosofia, un’attitudine che forse la filosofia ha perduto. Valéry parlava di état de poésie, qualcosa di analogo allo stato di grazia. All’origine, come si sa, filosofia e poesia sono insieme; divergono nella loro storia.
Amore, interiorità: al cospetto di queste parole che non definiscono e che aprono a un nuovo vedere dunque la poesia diventa il linguaggio possibile per scavalcare il limite: “dice il vero chi dice ombra”, come scrive Celan. Ospitare il senso assente contrapposto a una ricerca della verità ultima che la filosofia ha poi percorso.
L’Infinito di Leopardi è la rappresentazione di quel che accade dinanzi al limite e oltre il limite, l’odissea di un linguaggio che intravede il suo oltre, di un pensiero che scorge da un punto di lontananza estrema il suo limite come pensiero. A proposito di quel che dici sull’ “ospitare il senso assente”, c’è un’espressione di Blanchot che mi viene in mente: “vegliare sul senso assente”. Un vegliare, un ospitare, come giustamente dici, che è proprio del poeta, e che dovrebbe essere proprio anche del filosofo. Tutta la scrittura di Leopardi si svolge secondo questa percezione che egli ha avuto sin da giovane, frequentando gli antichi, l’epos, la prima poesia greca. Leopardi era esegeta finissimo dei classici greci, e leggeva già nei Greci questa energia immaginativa, che dialoga con l’indefinito e con l’oltre. La troverà poi, questa energia immaginativa, nel pensiero di Vico. Non a caso Vico è il filosofo italiano che è nel cuore dei romantici tedeschi, grazie alla traduzione di Herder. Il pensiero di Vico sostanzia molta parte del pensiero di Leopardi, seppur emerga raramente quanto a riferimenti espliciti. Vico, nel secondo libro della Scienza nuova, descrive genealogia e forme della sapienza poetica: la conoscenza del mondo attraverso la poiesis, conoscenza attraverso l’immaginazione e attraverso il sentire.
Tra i momenti che attraversi, tra i linguaggi che provano a dire l’interiorità, vi è anche l’autoritratto: riprendendo le riflessioni di Nancy percorri l’idea della somiglianza come somiglianza impossibile, come un ri-trarsi della somiglianza. Anche nel luogo che vorrebbe fissare almeno un’immagine si dà dunque la messa in scena dello scacco della rappresentazione.
Ho scelto di dedicare un capitolo tra i dieci all’autoritratto un po’ perché penso che il passaggio attraverso le arti figurative possa “illuminare” ogni tipo di ricerca. L’altra ragione è che l’autoritratto – a proposito della conoscenza di sé – mostra proprio lo scacco di ogni rappresentazione di sé, e mostra come la conoscenza di sé sia possibile solo se passa attraverso il riconoscimento della sua impossibilità.
Il pittore che vuole autoritrarsi si accorge presto che l’autoritratto non corrisponde al sé, neppure visivamente. Innanzitutto il pittore ha lo specchio come modello, specchio che rovescia l’immagine, e dunque vi è una difficoltà tecnica. Non ci possiamo vedere mai come fisicamente siamo, perché siamo come gli altri ci vedono e non quello che lo specchio ci restituisce. I colori e i lineamenti che vediamo in un riflesso sono trasformati dalla luce che è intorno, non sono i colori che appaiono a chi, davanti a noi, può descriverci: sono solo le parole dell’altro a poterci dare un’immagine di noi. È solo un esempio, questo, ma è tutto il nostro modo di pensare e di vivere a reggersi su una riconoscibilità che passa attraverso l’altro. L’autoritratto ritrae un soggetto che non può mettere in scena la propria fisionomia. Inoltre il pittore sa benissimo che l’atto dell’autoritrarsi non rende conto del sé profondo, ma solo di una fisica e variabile e provvisoria parvenza del sé. Van Gogh, che ha fatto più di quaranta autoritratti, in una lettera al fratello dice di questa difficoltà a ritrarre se stesso e però richiama l’esempio di Rembrandt, che in alcuni autoritratti ha qualcosa di più del vero, ha una “rivelazione”. Rembrandt questa rivelazione la cerca, nei suoi innumerevoli autoritratti, attraverso il travestimento e la maschera; si mostra in tutte le fogge: da mendicante, da diplomatico, da sovrano, da pittore, da uomo di corte. Rembrandt sa che esiste solo il teatro del sé, pirandellianamente: la maschera recita un sé che non c’è. Rembrandt insegue un ritratto che non esiste. Ritrarsi è un autoritrarsi. E forse qui è quella “rivelazione” di cui dice Van Gogh? Jean-Luc Nancy appunto scrive di questo ritrarsi (la parola italiana ritratto lo dice bene, meglio della parola francese portrait): l’io si ritrae, si ritira in quella zona che è il luogo dell’insondabile. Ma ogni artista con l’autoritratto mette in scena il suo proprio rapporto con l’arte e la tecnica del dipingere e del rappresentare: questo finisce con essere il luogo dove è leggibile qualcosa di sé (da Velázquez a Bacon).
E tuttavia la certezza dell’impossibilità non deve portare alla resa: non possiamo che restare in un continuo tentare, nel movimento della mancanza e del desiderio. Tu scrivi in più momenti la parola obliquo, l’idea cioè che quel che non si può dare direttamente conserva una sua consistenza, qualcosa che la parola della poesia sa ospitare, pur non arrivando a una verità definitiva. Abitare il mondo è stare in questa tensione e in fondo forse è solo questo lo strumento che abbiamo per non cedere all’inganno di un’esteriorità subita, l’esteriorità che, tu scrivi, ci insidia. Salvare così un tempo non addomesticato, mentre l’esteriorità vorrebbe addomesticare tutto, anche la lontananza.
Certamente: siamo nella finitudine, siamo nel limite, e tuttavia al di qua del limite, nella prigione della finitudine, c’è il pulsare del sentire, c’è l’incontro, la relazione con l’altro, l’altrove, l’immaginazione, c’è uno scoppio di vita. Freud in Caducità (1915) descrive una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura, in compagnia di un poeta (probabilmente Rilke) e di un altro artista: alla malinconia dell’artista e del poeta che esprimono la propria inquietudine nel silenzio davanti al fulgore dell’apparire che declina, si affianca la riflessione di Freud, che sottolinea come nel declino, nel momento dell’apparire, vi è la rarità, il senso di qualcosa di prezioso, insomma la bellezza di un tempo intensivo (“se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida”). Riconoscere il limite è insieme fare esperienza di una ricchezza, ricchezza dell’impossibilità, leggerezza del non approdo, della non compiutezza. Non ci conosciamo, nell’imperfezione, e tuttavia sentiamo la ricchezza di un mostrarsi fugace della luce. Un verso di Yves Bonnefoy dice: “L’imperfection est la cime” (L’imperfezione è la cima). L’imperfezione è il punto di arrivo dell’artista. Immagine del limite come respiro dell’esistenza.
Per tornare alla tua domanda, dire oggi dell’interiorità, è proporre una riflessione che non è nelle corde dell’epoca, perché tutto contribuisce oggi alla formazione di una diffusa passività. Passività nei confronti di quello che è dato, che è presentato come necessario essendo invece superfluo: in un universo mercantile i bisogni sono prodotti, il desiderio viene identificato con il bisogno di qualcosa, imprigionato negli oggetti. Mentre il desiderio è aperto, non ha oggetti. Il desiderio dell’altro è desiderio che l’altro divenga insieme con me, desiderio che non si chiude, che suggerisce un’apertura. L’interiorità è il tempo e lo spazio di questa apertura.
Desiderio del suo desiderio che per natura è senza oggetto…
In effetti Lacan aveva colto bene la natura senza fondamento di questo desiderio. Oggi invece siamo in un universo dove l’esteriorità è la figura che si delinea come l’orizzonte entro cui stare, e l’esteriorità privilegia il concreto, la risposta, il visibile, l’obiettivo, la misurazione, la quantità: consumo e ascolto di qualcosa prodotto ad arte, costruito secondo modi e stili mercantili, non ascolto di un sé che diviene, e nemmeno ascolto dei propri sensi.
Tra le voci della grammatica dell’interiorità troviamo proprio l’ascolto e il silenzio. Nelle pagine dedicate all’ascolto racconti di certe tue albe di novembre in cui ti arrivavano le voci leggere delle donne che andavano a raccogliere ulive cantando per sentirsi insieme, e i paesaggi avevano donne e uomini e “parole che prendevano un suono che insieme apparteneva a loro e stava dentro di te, modo d’essere della tua immaginazione”. Dall’ascolto muove una rappresentazione del mondo, una risonanza interiore.
Non si ascoltano più voci interiori. L’ascolto non si fa ricordo, attenzione, memoria. L’ascolto oggi si struttura come stato di passività nei confronti delle voci che vengono istituite all’esterno: voci pubblicitarie, voci assordanti, voci prive del dubbio, dell’interrogazione, dell’esitazione, e soprattutto voci gridate. Per esempio c’è un grande rumore che viene commercializzato come musica, rumore tecnicamente e abilmente confezionato e distribuito come musica, senza tuttavia essere invenzione musicale. Non c’è solo la produzione dell’oggetto che non è musica, pur presumendo di esserlo, c’ è anche un tempo e uno spazio in cui questa produzione impone l’ascolto: musica ripetuta nei caffè, nei negozi, persino per le strade, per evitare la conversazione e l’incontro, musica estiva che dagli altoparlanti insegue sulle coste chi voglia allontanarsi nel nuoto. L’ ascolto non è più esperienza interiore. Oggi gli esempi di esteriorità sono tanti, il mondo mercantile abolisce ogni richiamo dell’interiorità. Dire dell’interiorità, per questo, è necessario.
Un discorso simile possiamo fare per la memoria: deleghiamo la memoria a meccanismi che producono memoria, che la immagazzinano e la restituiscono su richiesta. Oggi non è più il tempo dell’invito classico a esercitare la memoria, sin dall’infanzia si delega la memoria: un esercizio che protratto nel tempo potrà portare alla diffusa smemoratezza. La memoria non è più un fatto interiore, singolare, immaginativo, proprio. È memoria depositata, contratta, codificata, fruibile: un tipo di società che non conosciamo si può profilare con queste nuove forme di ascolto e con queste deleghe della memoria.
Memoria che ha del resto molto a che fare con la risonanza di cui scrivi, memoria del corpo che si muove nelle cose e appunto unisce, mentre, come dici, delegare è separare, è in fondo una tendenza a produrre il soggetto e l’oggetto, una tendenza che ci riporta nel cuore di Cartesio, allontanandoci dal riconoscere il volto dell’altro.
Questo allontanamento che avviene e che descrivi, queste forme di distanziamento, sono corrispettive alla perdita progressiva della possibilità di rappresentare la lontananza nell’interiorità. Di questo dicevo appunto nel Trattato della lontananza. L’avverbio greco “tele” (lontano) costituisce la “telematica”, la scienza della nostra epoca, e tutti gli strumenti di comunicazione suggeriscono che il lontano – per secoli il luogo precipuo di una rappresentazione di ciò che non c’è, figura dell’assenza e sorgente dell’immaginazione – è ora reso disponibile, è fatto domestico, quotidiano, portatile. Quella lontananza il cui spessore i lettori potevano attraversare e interrogare, ognuno preservando la propria singolarità, diventa un qui e ora consumabile perché già confezionata, accessibile, transitabile in ogni momento.
Così l’idea di viaggio: il viaggio era molto legato al vedere soggettivo, al muoversi, al guardare e al tempo della percezione di suoni e profumi; ora il viaggio viene o ridotto alla rappresentazione esotica del viaggio, e dunque è un invito al viaggio prestabilito e del tutto diverso dall’invitation au voyage di Baudelaire, oppure è sussunto in una rappresentazione visiva dove l’altrove, il lontano, si può vedere immediatamente nelle forme, nei modi e nei tempi in cui la scena è stata definita.
Il viaggio insomma non ci porta più nel cuore dell’enigma.
Viene cancellato il tempo-spazio della scoperta, del particolare; si cancella il senso dell’apparizione, l’essere colpiti dall’apparizione, disposti a lasciarsi sorprendere. Tanti libri poetici possono definirsi quaderni delle apparizioni: mentali, oniriche, del passato, visive. Il poeta racconta sorprese, cose viste, inattese. Insomma visioni. Presentando Cees Nooteboom, ieri, ho domandato, a lui che è un grande viaggiatore, quanto nella sua scrittura poetica e narrativa abbia giocato Le Voyage di Baudelaire, poème nel quale si mette in scena la ripetizione e la noia nell’odissea del viaggiare, ma in cui è anche detto come il viaggiatore viaggi non per una meta, ma per restare nell’apertura al viaggio (“si parte per partire”). La risposta di Nooteboom è stata molto bella: ha detto che lui non ha fatto altro che rispondere proprio al verso, anzi all’emistichio di Le Voyage baudelairiano dove il poeta chiede: “Dites, qu’avez vous vu?” (Dite, che cosa avete visto?) E la quarta parte del poème, che si apre col secondo emistichio dello stesso verso, comincia a elencare quello che gli interpellati hanno visto: “Nous avons vu de astres”, abbiamo visto degli astri, e così via. Quel che segue è il vero viaggio: il desiderio inestinto, la ripetizione, la noia, il peccato, la sete di conoscenza, lo scacco, il tragico, la pulsione ad andare au fond de l’inconnu, al fondo dell’ignoto, per cercare il nuovo.
Del resto è quanto scrivi dell’altrove che si delinea – altrove come spazio e tempo, un tempo antico – nell’esercizio interiore dell’elevazione: un esplorare del tutto singolare. Vorrei fare una piccola divagazione: ho letto il tuo libro in viaggio, e mi pareva di essere come in un eccesso di immagini tale, in quel mondo così altro dal mio, da portare a un ottundimento dei sensi, come mi fosse impedito l’oltrevedere, lo scarto dell’immaginazione e dunque una parola atta a dirlo. Come non aver accesso alla malia del limite di cui parli. E forse c’è qualcosa in questa sensazione che ha a che fare con quanto detto sul rumore, sulle difficoltà che abbiamo per eccesso di saturazione.
Quello che dici mi ricorda le pagine di Guido Gozzano sul suo viaggio in India e a Goa del 1912, resoconto che uscì postumo nel 1917, voluto da Borgese. Si tratta di pagine poco conosciute e molto belle. Gozzano non era un viaggiatore, ma scrive di questo viaggio, di questa particolare percezione che è il vedere tutto insieme, come tu dicevi, quasi un eccesso di rappresentazione simultanea : il Gange, il rito, il fetore dei corpi bruciati, il tempio, la folla per le strade, le voci. Sembra che il poeta non possa abbandonarsi alla sorpresa del nuovo. Gozzano descrive un viaggio assolutamente non in sintonia con quello che all’epoca era l’esotico, che peraltro subisce la fascinazione del particolare – per quanto lui legga i viaggiatori dell’epoca e ne abbia in mente le opere. Evidentemente c’è anche un modo di vedere che è un avvertire l’impossibilità di isolare il particolare e di entrare con esso in relazione. Anche questa è esperienza interiore del viaggio, perché osserva il proprio modo di percepire, la natura della propria attenzione e non si lascia imbrigliare dalle immagini predefinite.
E forse torniamo all’esigenza di silenzio stretta in un nodo con il tema dell’ascolto. Ci deve essere uno spazio di silenzio, l’interiorità come casa del silenzio. Saper tacere per trovare un altro dire.
In questi giorni le persone che ho incontrato qui a Mantova mi hanno parlato del bisogno di silenzio, è diffusa la percezione che siamo caduti in un mondo rumoroso, in un parlare diffuso, una folla di voci esteriori che ci impediscono un rapporto vero con l’ascolto.
Roland Barthes proprio in un suo saggio sull’ascolto scrive che la storia dell’interiorità – non ancora scritta e che forse non si può scrivere – è propria della tradizioni cristiana, come la Colpa: questo è interessante perché nella tradizione cristiana è forte questa idea dell’ascolto, anche ascolto della voce interiore. Vocazione è parola della tradizione religiosa ed è figura dell’interiorità, la voce che chiama, la chiamata di Cristo (“Vieni e seguimi”) replicata nell’interiorità. Si tratta di una voce che ha una corrispondenza con il dictare profano della poesia, con il “dittator cortese” (pensiamo ai versi famosi di Dante, Purgatorio, XXIV: “ I' mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando”). Amore è colui che ditta dentro. La poesia d’amore nasce come poesia che viene da una voce. L’ascolto della voce del resto appartiene alla storia dell’ispirazione: già nello Ione di Platone l’ispirazione è ascolto, Baudelaire unisce in maniera folgorante l’ispirazione con le travail, con il lavoro (la poesia come ispirazione e tecnica, ebbrezza e lavoro sul linguaggio).
Per tornare all’interiorità, nella tradizione cristiana della cura di sé c’è l’ascolto di voci che compendiano per dir così la morale dell’agire: le beatitudini rispondono a questo. Sono analoghe in certo senso ai detti propri degli stoici, che sottolineavano come nella cura di sé fosse necessario un esercizio interiore analogo all’esercizio fisico dell’atleta, e fosse importante conservare nella memoria i detti, le frasi lapidarie, compendiose, da evocare quando si è davanti a una scelta di comportamento (anche l’iscrizione sul tempio di Delfi corrisponde a questo). Al di là di questa voce d’altri che è sapienza antica, c’è, nell’interiorità come si definisce con la tradizione cristiana, l’ascolto interiore, e Agostino mette in scena proprio questo grande costante ascolto nelle Confessioni.
Il Tu di Agostino non ha tuttavia la stessa componente di incompiutezza e di movimento infinito, dal momento che vi è la ricerca di una Verità.
Certo, quel Tu è un approdo. Certamente non dobbiamo leggere Agostino in modo laico, o solo in modo laico, perché tutta la sua ricerca muove da questo Tu e va verso questo Tu, ed è un’inchiesta che diventa racconto della conversione. La conversione – che ha più fasi, non avviene in un istante – si nutre dell’ascolto di voci, voci la cui sorgente non è ben definita. Ripensiamo la scena. Agostino, dopo aver sentito, nel piccolo giardino, una sera, la voce di un fanciullo o di una fanciulla che dice Tolle et lege, raccoglie il libro abbandonato dall’amico – la Vita del monaco Antonio, del santo del deserto, scritta da Attanasio -, lo apre, quel libro, e trova la frase in cui Paolo invita a rivestirsi delle vesti di Cristo. Agostino mette in scena la vocazione, la chiamata. La voce da esteriore si fa interiore. E replica il gesto analogo raccontato appunto nella Vita del monaco Antonio. Petrarca farà la stessa cosa salendo sul Mont Ventoux: il libro, quasi libro tascabile, sarà allora proprio quello delle Confessioni di Agostino, che il poeta apre in cima al monte (ritraendosi così dallo stupore dinanzi alla bellezza del paesaggio).
“In interiore homine habitat veritas”: in Agostino la ricerca al fondo del sé arriva a un Tu che è principio fondativo e soglia di approdo, Tu che agisce nell’interrogazione, nell’evocazione, che ascolta la confessione, gli errori, anche quelli di cui il narratore non ha nemmeno memoria (il senso della colpa è al centro, e tra l’altro è interessante come Agostino indugi su alcune colpe e non su altre, l’eros per esempio è osservato con una leggerezza insolita per chi assuma oggi il punto di vista più comune della dottrina cristiana).
Tuttavia quello che ci interessa è che in questa ricerca di una verità Agostino descrive il movimento dell’interiorità, parla di sensi interiori, descrive l’inchiesta su di sé, la memoria, il rapporto con l’altro e la relazione con il tempo che da irreversibile diventa vivo, tempo che posso evocare in qualsiasi momento; posso distinguere con la memoria il profumo del giglio da quello della violetta, posso cantare senza emettere voce. Agostino disegna quello spazio dell’interiorità che poi Montaigne ripercorrerà con altre fonti, con altre domande: l’io che ci consegna non è l’io filosofico, l’io astratto, l’io del pensiero, ma è un io sconfinato, aperto, transitabile. E questo Agostino ci dice qualcosa al di là della sua più propria esperienza di conversione.
Un’ ultima domanda. Me lo hai già detto: questo scrivere non può che essere un narrare, un provare a dire in una delle forme possibili, e tuttavia quello che mi domando è se queste stazioni che tu hai scelto e che abbiamo in parte raccontato ti siano, di fatto, accadute.
Sì, mi si sono imposte queste stazioni e sono convinto che qualcun altro potrebbe scrivere un saggio sull’interiorità scegliendo altre figure, proprio perché “interiorità” è parola aperta. Mi si sono imposte queste figure, non altre. La scrittura è il luogo del desiderio, non bisogna lasciarsi prendere dall’irrigidimento convenzionale dei generi: il saggio, inteso come essai, è in certo senso discreto, mette in scena un io che non né quello del diario né quello dell’autobiografia e tanto meno quello dell’odierna autofiction. È un movimento per dir così doppio: il saggio dice di sé mentre parla d’altro, dice d’altro mentre parla di sé, e questo lasciando margini per la presenza interrogativa del lettore. Dunque, nella scelta di queste figure c’è certamente la mia storia, la mia esperienza interiore.
Per esempio Raccoglimento è un capitolo, ma in fondo sarebbe potuto diventare soltanto una delle voci del lessico. Raccoglimento è una parola che mi ha sempre colpito, forse perché dice il chiamare dall’esterno verso l’interno: raccogliersi attorno a qualcosa, e questo qualcosa l’ho sempre sentito come un centro assente. Raccoglimento è come un mandala. Raccogliersi è allora passare attraverso il variopinto: disegni, vie, forme anche fantasmatiche e inattese; ogni raccoglimento è un attraversare richiami, rischiare lo smarrimento e la distrazione, anzi avere a che fare con lo smarrimento e la distrazione, con lo svagamento e la perdita, e poi arrivare a qualcosa che insieme ti appartiene profondamente, è un tuo sentire, e tuttavia non ha un centro. Il raccoglimento mi è parso un esercizio proprio della scrittura poetica e più in generale della scrittura: non ho mai potuto scrivere se non raccogliendomi prima, perché la parola nasca mi è necessario un lavoro di astrazione dal contesto, di messa a tacere dell’attorno, il ritrovamento di un tempo e di uno spazio interiore. Il raccoglimento ha i suoi luoghi e per me scrivere vuole dire essere in solitudine, isolarsi, ritirarsi appunto in una stanza. Raccoglimento è per me una figura importante, che ha poi anche una storia in cui è declinata : dalla poesia di Baudelaire Recueillement alla rappresentazione della stanza, e così via. Così è anche per il Soliloquio, altra figura del libro.
Così anche la figura del Cammino –un altro capitolo- risponde a quel percorrere il mandala che dicevo prima e che non conduce a una meta precisa, ma ha a che fare con il pensare, con il conoscersi, con la formazione del vedere e del sentire. Il cammino inoltre per me è una pratica senza la quale mi mancherebbe qualcosa di essenziale nella giornata. Così la figura dell’amore come conoscenza di sé, che nel libro cerco di osservare in particolare attraverso la poesia d’amore (è solo un passaggio in un grandissimo tema: un libro che non ho mai scritto è un libro sull’amore).
A me sembra proprio questo il libro d’amore che non hai mai scritto, anzi, un libro politico perché libro d’amore. Un modo coraggioso di restare e resistere, oggi, percorrendo una lingua altra rispetto a quella dell’esteriorità, che insidia da ogni parte, addomestica, assimila ("ogni vera vita è incontro”, come scrivi). Non è un caso che molte erano le persone ad ascoltare la tua parola qui a Mantova: vi è ancora il sentire atto ad ascoltare il movimento, vi è ancora un risuonare con il desiderio, là dove lo si incontra, e bisognerebbe allora chiedersi perché ci ostiniamo a cercare Verità e compilare saggi accademici, non lasciando spazio alla parola incerta del viandante. Forse non si ha tanta voglia di stare nella mancanza, stare nel desiderio significa comunque stare in una voragine.
Vi è, in questa domanda che so bene essere senza risposta, qualcosa che ha a che fare con l’interiorità?
Da un lato c’è oggi un inaridimento dell’interiorità che deriva dalla scena del mondo sempre più invasiva dell’intimità, sempre più invitante alla vita esteriore. Addirittura è l’interiorità stessa ad essere elaborata come figura da consumare. Vi è un territorio del “parlare di sé” che è manipolato da formule poco capaci di stare in ascolto. Si distribuiscono ricette per essere felici e la ricerca di sé è consegnata a percorsi precostituiti. E c’è anche il fatto che il desiderio oggi non investe la scrittura, pensata ancora soprattutto come un insieme di generi, di format, di stili predeterminati (dunque non più stili) : una scrittura indisciplinata la si vuole subito ascrivere a un genere. Non c’è l’invenzione fantastica ma la fantasy, non il racconto delle forme che assume il desiderio, ma le rappresentazioni codificate delle psiche come la psicologia le può descrivere. La poesia, per esempio, che è il luogo precipuo in cui il desiderio si fa parola e non si risolve nella parola, e il silenzio è materia del dire e del pensare, oggi è una scrittura che l’editoria considera, quando la considera, una concessione all’arbitrario, al prezioso, all’altro-dal-mercato (ma forse è bene che sia così : la povertà, frugalità e marginalità assoluta della poesia è la sua energia, la sua bellezza).