Speciale

Andare a Santiago

15 Luglio 2011

Nel maggio 2005, mia figlia Agnese ed io abbiamo percorso l’ultimo tratto del Camino Francés, da Leon a Santiago de Campostela. È una specie di gioco di massa dalle poche e semplici regole: procurarsi la Credencial, vidimarla ad ogni tappa, percorrere a piedi almeno gli ultimi cento chilometri prima di Santiago. Il premio è  la Campostela, un certificato in latino rilasciato da un apposito ufficio, che attesta il cammino percorso. Il rituale supremo è la Messa del pellegrino, a mezzogiorno nella cattedrale di Santiago: c’è un’aria da ultimo giorno di scuola, con abbracci e addii, e da finale di un film di Altman, con tutti, ma proprio tutti i pellegrini incontrati per strada che saltano fuori come per incanto nell’ultimo episodio del Camino.

 

Non si va mai da soli e si finisce per incontrare regolarmente le stesse persone, quelli  che vanno al nostro passo e percorrono più o meno le stesse distanze giornaliere. La sera si parla di vesciche e di scarpe, di chi non è arrivato per via della tendinite o di chi non ha trovato posto nell’albergue troppo pieno. Si sente raccontare di cammini favolosi, di gente che viene da Parigi o Losanna, pensionati in particolare, gli ultimi europei che se lo potranno permettere, ancora abbastanza giovani da chiudersi la porta di casa alle spalle e incamminarsi verso la Galizia. Le chiacchierate serali funzionano da radio fante e permettono di seguire a distanza i progressi degli altri pellegrini incontrati per strada e poi persi di vista.

 

Il Camino è una babele di parlate diverse, ma tutti si sentono membri di una comunità che si identifica nella camminata quotidiana e nel peso dello zaino. Il pellegrino si contrappone con orgoglio al turista, termine quanto mai negativo, sinonimo di viaggiatore frettoloso e consumistico, una specie di bambino viziato che pretende tutto e mai si accontenta. Il Camino è unico non perché ci si incontra gente di tutto il mondo, questo succede anche sulla riviera romagnola, ma perché si divide con loro un’esperienza centrata sul corpo: camminare, mangiare, bere, stancarsi, riposarsi. È questa fisicità condivisa che diventa la base materiale di un incontro fra uguali e disponibili.

Lo stile di vita dei pellegrini moderni non mi è sembrato ispirato a modelli espiatori o penitenziali. La maggior parte godeva  pienamente del cibo e del vino, diversi fumavano come ciminiere, alcune coppie hanno incontrato e praticato l’amore lungo la via. Eppure si va a Santiago, non a Wimbledon o a Disneyworld, quindi il richiamo di un luogo e di una storia innervati dalla religione, rimane sotteso al Camino. È comunque una religiosità magra, discreta e tollerante, che si mischia con la voglia di scoperta, il piacere della strada, il desiderio di andarsene di casa, come deve essere successo anche ai nostri precursori medievali. Le radici non consumistiche dell’Europa, e anche quelle pacifiste ed ecologiche, devono ben affondare in esperienze di questo tipo, nel ricordo delle migliaia di uomini e donne che ad un certo punto hanno mollato tutto per mettersi a camminare.

 

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