Globale e locale / “Le campagne assediano le città”
Un risultato particolarmente interessante del referendum di settembre sulla riduzione dei parlamentari italiani (riduzione accettata da circa il 70% dell’elettorato) è il fatto che il NO alla riduzione voluta dal governo sia giunto maggioritario solo nei centri storici di Roma e di Milano. Io stesso, che abito al centro di Roma, ho votato per il NO.
Dettaglio molto interessante, anche se non sorprendente. Interessante perché il NO – voto squisitamente anti-populista – è venuto soprattutto da un elettorato colto e bene informato. E questo elettorato è più numeroso nei centri storici delle metropoli. Non sorprendente, perché conferma una caratteristica ormai generale nei paesi occidentali industrializzati: che il voto di sinistra moderata, liberal in senso americano, comunque anti-populista, tende a concentrarsi nelle grandi città, in quelle più ricche e importanti.
Si dirà che il NO al referendum non si caratterizzava come “di sinistra”, dato che anche i partiti di sinistra avevano raccomandato il SI. Ma il SI della sinistra era il meno convinto di tutti, era un Si di pura Realpolitik, imposto per lo più dall’alleanza di governo con il M5S. Non a caso i grandi giornali nazionali italiani si erano schierati tutti, chi più chi meno, per il NO. Ora, sappiamo che i quotidiani nazionali di prestigio vengono letti dall’élite più colta e meno povera del paese.
Un tempo, in Occidente, le roccaforti elettorali della sinistra (partiti socialista, comunista, laburista) erano le grandi periferie urbane e industriali, le zone più povere anche se urbanizzate dei paesi occidentali. In questi ultimi anni è avvenuta una mutazione profonda nella composizione elettorale dei paesi occidentali (europei e nord-americani), forse la mutazione più spettacolare da cento anni a questa parte. Cambiamento su cui i politologi – soprattutto quelli di sinistra – poco hanno riflettuto, e che quindi molto male hanno spiegato.
Tra le cento maggiori città americane per numero di abitanti, il 64% è amministrata da sindaci democratici, il 29% da repubblicani, e il 7% da indipendenti (spesso però più assimilabili alla sinistra che alla destra). Se poi passiamo alle dieci maggiori città americane, la prevalenza della sinistra democratica diventa schiacciante: ben otto metropoli (New York, Los Angeles, Chicago, Houston, Philadelphia, Phoenix, Dallas, San José CA) sono amministrate da democrats, solo una (San Diego in California) è amministrata da un republican, e una sola (San Antonio, Texas) da un indipendente.
In Europa la situazione non è molto diversa. Delle venti più grandi metropoli europee, ben 15 sono amministrate da forze di sinistra o centro-sinistra, solo tre (Mosca, Helsinki, Varsavia) dalla destra, e due (Atene e Roma) da sindaci inclassificabili. Notiamo comunque che la sinistra tiene quasi tutte le grandi capitali europee: Londra, Parigi, Berlino, Bruxelles, Copenhagen, Oslo, Stoccolma, Vienna. Anche Istambul è governata da un sindaco, Ekrem Imamoglu, che si oppone all’egemonia anti-democratica di Recep Tayyip Erdogan, lo possiamo quindi considerare di sinistra liberale.
Persino in Australasia accade qualcosa di simile: delle quattro metropoli maggiori, due hanno sindaci di sinistra, una di centro, una di destra.
Dato che invece l’entroterra di tutti questi paesi tende a premiare la destra e l’estrema destra, sembra realizzarsi lo slogan di Lin-Biao, ex-braccio destro di Mao, quando teorizzò la strategia delle “campagne che assediano le città”, ispirandosi alla guerra del Vietnam negli anni 1960. Da noi, la sterminata provincia del paese assedia le cittadelle urbane liberal e di sinistra.
Questo deciso situarsi a sinistra delle grandi metropoli è a sua volta solo un aspetto di una polarizzazione più generale degli elettorati occidentali, a parte qualche rara eccezione. Si è calcolato che il tipico elettore di sinistra è sempre più giovane, donna, abita nei più grandi centri urbani, ha un reddito familiare tendenzialmente medio o alto, un livello d’istruzione più alto della media.
Al contrario, il tipico elettore di destra o populista (ma il populismo di solito confluisce nella destra, come abbiamo visto in Italia col flusso di voti da M5S alla Lega) è: anziano, maschio, abita in piccoli centri o in zone rurali, ha un reddito tendenzialmente basso così come un’istruzione di livello poco elevato.
In apparenza, è il rovesciamento di quella che era, fino a non molto tempo fa, la polarità elettorale sinistra/destra: secondo il cliché, l’operaio votava a sinistra, le classi più agiate votavano a destra. Segno che una griglia di tipo “classe sociale” non spiega più nulla dell’assetto politico e ideologico delle nostre società iper-industriali.
Si è vista questa nuova polarizzazione nel 2016 con il voto sulla Brexit: il Leave era considerato tipicamente di estrema destra populista, il Remain tipicamente di sinistra moderata. Come è noto, il voto anti-Brexit (Remain) ha prevalso in Scozia (che tradizionalmente vota a sinistra) e in Inghilterra ha prevalso solo a Londra.
Sarah Jones ha tracciato l’identikit del tipico elettore Remain e del tipico elettore Leave (cit. in M. Revelli, La politica senza politica, Einaudi, Torino 2019, p. 32). Il paradigma dell’elettore anti-Brexit è una ragazza scozzese o londinese ventenne, con educazione universitaria, che ha sostenuto il partito dei Verdi e che ha o avrà una posizione manageriale, amministrativa o professionale elevata. Tipico elettore pro-Brexit è un lavoratore manuale qualificato di sesso maschile, dell’East Anglia (regione dove non ci sono grandi metropoli), sui sessant’anni, che ha lasciato gli studi a 16 anni e ha sostenuto il partito UKIP (anti-europeista e nazionalista) di Neil Farage.
Ora, se si chiedesse a chiunque quale identikit corrisponde a una figura socialmente e storicamente vincente, chiunque direbbe che è la prima, mentre la figura socialmente e storicamente perdente è la seconda. La prima figura (anti-Brexit) ci dà un’immagine del futuro, la seconda (pro-Brexit) un’immagine di un passato declinante, anche per l’età avanzata dell’elettore-tipo. Pure il fatto di essere piuttosto maschio che femmina conferma questo declino… Basti pensare che Londra – l’unica parte d’Inghilterra che abbia fatto prevalere Remain – produce quasi un terzo del prodotto interno lordo britannico, pur comprendendo meno di 1/7 della popolazione del paese. Eppure i risultati elettorali hanno avuto il risultato inverso a quello della direzione del successo storico: i supposti vincenti hanno perso, e i supposti perdenti hanno vinto.
Questo paradosso va generalizzato a tutto l’Occidente. Le vittorie elettorali dei populismi di destra in questi ultimi anni – di Trump in US, di Boris Johnson in UK, di Marine Le Pen in Francia, di Salvini e Meloni in Italia, di Orbán in Ungheria, di Erdogan in Turchia, ecc. – possono essere viste come una rivincita dei perdenti storici. Come una voglia di quella che chiamerei la retroguardia dell’Occidente di andare indietro piuttosto che avanti. Per andare indietro intendo: tornare al nazionalismo chiuso, combattere ogni forma di globalizzazione politica ed economica, arginare o annullare le immigrazioni dai paesi più poveri, puntare sull’omogeneità etnica e religiosa del proprio paese, incrementare gli apparati polizieschi, mettere in primo piano l’ardore patriottico. Andare avanti significa andare verso un mondo sempre più globalizzato, con società sempre più aperte, come predica George Soros sulla scia della filosofia di Popper (non a caso Soros è divenuto il nemico pubblico n. 1 del suo concittadino Orbán). Perché questo andare indietro tipico delle destre non-liberali conquista sempre più adepti tra le frange più deboli, economicamente e culturalmente, delle nostre società? Questa è la vera domanda a cui cercare una risposta.
Domanda a cui il pensiero classico della sinistra, anche di quella più sofisticata, dà una risposta pre-confezionata e chiaramente insufficiente: che i più poveri, i più deboli, i più marginali nelle nostre società votano per la destra perché soffrono delle crescenti diseguaglianze soprattutto economiche.
Che negli ultimi decenni le diseguaglianze economiche si siano amplificate è un fatto, ma non sembra che il voto e le opinioni dei ceti che ho chiamato perdenti esprimano una richiesta di più eguaglianza. Tutt’altro. Anche se Trump è stato votato dai rednecks americani delle zone rurali, subito ha abbassato le tasse ai più ricchi. La flat tax reclamata da Salvini si risolveva di fatto in un abbassamento drastico delle tasse per i più ricchi. La mia vicina di casa in campagna, povera contadina, che ha votato per la Lega, non ha votato certo perché la Lega promette un maggiore livellamento dei redditi, ma perché teme l’immigrazione (anche se nella sua zona non ci sono praticamente immigrati poveri). Diciamolo francamente: ai ceti che Gramsci chiamava subalterni, stranamente di una maggiore eguaglianza non importa nulla (ma non è così strano se si buttano i vecchi occhiali economicisti con cui da sempre guardiamo alla realtà mentale della gente). Se questa fosse la loro maggiore preoccupazione, avrebbero potuto votare per la sinistra d’opposizione, detta radicale, che denuncia il modo di governare anche della sinistra moderata.
In effetti si sono avuti qua e là dei successi parziali della sinistra radicale: l’ascesa del “socialista” Bernie Sanders negli USA, il buon risultato del gauchiste Jean-Luc Mélenchon alle elezioni presidenziali francesi del 2017 (19,58% al primo turno), le affermazioni della sinistra populista Podemos in Spagna (ottenne il 20,7% alle elezioni politiche del 2015), di Syriza di Tsipras in Grecia (ha governato il paese dal 2015 al 2019); e poi abbiamo la Linke tedesca, votata per lo più dai nostalgici del comunismo nella Germania dell’Est (ebbe il suo picco elettorale nel 2009 con circa il 12%). Dobbiamo però anche ricordare che queste affermazioni si sono rivelate effimere e del tutto reversibili. Sanders alle primarie democratiche è stato battuto prima da Hillary Clinton poi da John Biden. Il partito di Mélenchon, La France Insoumise, è crollato al 6,3% alle elezioni europee del 2019. L’elettorato di Podemos in Spagna si è poco a poco eroso fino a cadere al 10% alle elezioni europee del 2019. Syriza in Grecia è stata sonoramente battuta da Nea Demokratia di destra nel 2019 ed è tornata all’opposizione. L’elettorato della Linke stagna attorno al 9% in un’eterna opposizione.
Tutte le analisi del voto euro-americano mostrano comunque che le classi sociali più sfavorite – economicamente e culturalmente – scivolano sempre più verso l’estrema destra, non verso l’estrema sinistra. Insomma, non mi pare proprio che il vessillo “più eguaglianza” smuova le masse più svantaggiate.
A queste importano sempre più altre cose, che riassumerei nel termine narcisismo identitario. Ovvero, orgoglio nazionale (o regionale, come nel caso dei partiti separatisti catalano, basco, scozzese, un tempo la Lega di Bossi), riaffermazione della cultura originaria di appartenenza – il rosario di Salvini, la sintonia di Trump con il Bible Belt americano, il coccardismo chauvinista della Le Pen, il culto nell’Union Jack e “God Save the Queen” per gli inglesi, ecc. È un potente ritorno – backlash, sferzata all’indietro – a un focolarismo profondamente minacciato dalla società globalizzata. Esso non ha ragioni economiche profonde, ma di tipo squisitamente culturale e psicologico in senso lato (lo psicoanalista ha più da dire dell’economista).
La società globalizzata che le masse “perdenti” respingono è una società in cui tutti parlano inglese, in cui ci si sposta facilmente da un paese all’altro per cercare lavoro o il partner amoroso, in cui tutti comunicano attraverso skype o zoom o attraverso lo smartphone, in cui le credenze e i culti religiosi restano fatti privati che non hanno alcuna incidenza sulla vita pubblica, in cui occorre rispettare come pari omosessuali, trans ed eccentrici, in cui i maschi devono subire la superiorità di molte donne, ecc.
Dagli anni 1990 in poi abbiamo assistito a spettacolose proteste dei cosiddetti no-global in occasione degli incontri al vertice dei paesi più industrializzati. Diciamo che queste manifestazioni – feste violente ma essenzialmente innocue – volte essenzialmente contro il primato neo-liberista dell’epoca, contro il Washington Consensus, hanno avuto forse un effetto paradossale sulle masse: non le hanno portate a contestare il capitalismo internazionale globalizzato, le hanno portate verso il neo-fascismo e il populismo di destra. La valanga di scritti contro il neo-liberalismo dominante, a cui si sono dedicati per decenni gli intellettuali di sinistra, è ormai del tutto obsoleta, perché dopo la crisi economica del 2008 e soprattutto dopo questa del 2020 dovuta al coronavirus, il neo-liberalismo dei mercati aperti è ormai in generale ritirata. Queste crisi hanno rimesso in gioco l’importanza essenziale degli stati, delle banche centrali, e quindi delle decisioni politiche interventiste. Ma a questo neo-keynesismo che contagia sempre più i poteri civili in Occidente si accompagna una febbre anti-globalista che i vari populismi, oscillanti tra sinistra e destra, incarnano bene. Le immense retroguardie delle nostre società sembrano andare non verso una prospettiva socialista, ma verso un patetico narcisismo nazionalista.
I punti di discrimine sono sempre meno legati al tipo di lavoro e di reddito, ma sempre più alla propria posizione rispetto alla cultura globalizzata. Accade così che un negoziante di Parigi nel 2017 abbia votato alle presidenziali per Macron, mentre un negoziante di un piccolo centro di provincia con reddito eguale o superiore al collega di Parigi abbia votato per il Front National. Un negoziante giovane può votare Macron o un candidato verde, mentre un negoziante anziano che ha gli stessi introiti, ma esercita in una cittadina del Pas-de-Calais, vota per Le Pen. La differenza pertinente è se si è più o meno inseriti nel mondo globalizzato di oggi, basato sull’informatica, sul virtuale, sulla conoscenza dell’inglese, e sul cosmopolitismo. La differenza quindi non è più nemmeno quella sinistra/destra nel senso tradizionale (la sinistra che vuole più eguaglianza dei diritti e dei redditi, e la destra che vuole può gerarchie e severità), ma un’opposizione pertinente diversa: mondo delle identità focolariste versus mondo cosmopolitico.
In questa nuova divisione del campo politico e ideologico, la sinistra si trova obtorto collo dal lato della barricata del neo-liberalismo globalizzato. La sinistra non può mai dimenticare di essere internazionalista, e che la canzone ufficiale della sinistra è proprio L’Internazionale.