Speciale
Il lavoro si paga
Oggi l’appuntamento in ospedale.
Mamma sarà lì per il monitoraggio. L’ha detto stamattina quando ho sentito un timbro nervoso: “Oggi andiamo a fare un controllo”.
Lei starà ferma, sdraiata, supina per circa mezz’ora, con una cintura intorno alla pancia che segnala la frequenza e l’intensità delle contrazioni. Presto ci incontreremo, ci guarderemo negli occhi per la prima volta e da quel giorno, forse, la vedrò più serena.
Avverto l’infelicità della mamma.
L’ho sentita piangere, lamentarsi tante volte e l’ho ascoltata dire “Sto subendo un mobbing ed è tutta colpa tua!” (mia!)
Ho capito. Il nervoso di stamane: non mi ha rallegrata prendere consapevolezza che la sua rabbia fosse rivolta verso di me.
Lei subisce un mobbing. Ma che cos’è?
Ho capito che il direttore quando ha saputo dello stato interessante di mamma ha bofonchiato delle congratulazioni per poi cominciare un vero attacco contro di lei. Turni massacranti, scadenze impossibili che l’hanno relegata da subito in ufficio obbligandola a straordinari serali e, quasi ogni giorno, rimproveri per il lavoro svolto. Povera mamma! Quante volte in bagno a piangere! Del resto il capo è stato chiaro: “Dottoressa Nigro, non si metta in testa di rimanere incinta!”
Dal giorno che mamma sul lavoro ha detto timidamente “Scusate potete evitare di fumare, aspetto un bambino”, be’, da quel momento non ha più ricevuto la parte di stipendio che le veniva dato fuori busta.
Ed è tornata a vivere da sua madre.
Mamma accenna sempre a sacrifici, a soldi che sembrano non bastare mai.
Dice che non avrò il mio lettino, ma dormirò in quello che era di Gino, il figlio di Sandra.
Son nata il 21 maggio con le rondinelle in festa e l’amica di mamma che gioisce perché è anche il giorno del suo compleanno.
Cose da donne che si vogliono bene, immagino.
Che strano! Cosa? Il mondo visto da fuori.
La mamma è bella, parecchio.
Qualcuno dice che ho i suoi occhi.
Mamma mi guarda con aria ansiosa. Fatica persino a prendermi in braccio.
Accennano a una depressione post-parto.
Le mie prime settimane di vita vanno così: mamma è a casa, si prende cura di me a momenti, mi sorride a tratti. Ogni giorno invece l’unica realtà è un giro al parco. E vedo sempre un uomo che corre. Quando capita vicino a me e mamma si ferma ogni volta per un po’. Mi sorride e saluta anche lei.
Marco, ha detto lui un giorno, mi chiamo Marco.
Ecco appunto, pronuncia a voce bassa la mamma “Sara! Lascia la mano di Marco che deve andare via”.
E così trascorrono anche i mesi di maternità obbligatoria e qualche mese di congedo e per la mia mamma il tutto va con il trenta per cento di stipendio.
Ho imparato a stare seduta, a mangiare la pappa, ma solo se c’è l’omogeneizzato al coniglio; il latte non lo voglio più e mamma urla isterica. O meglio, lo bevo solo quando sono tra le braccia di Marco. Lui oramai viene spesso a casa. Mamma con lui sembra una delle donne di Almodovar, lo dice lei che si sente così: mediterranea, carnale, passionale. Poi quando lui non c’è si rivolge a me e si trasforma e mi racconta tutti i suoi problemi. Me li vomita addosso come io rigurgitavo nei primi mesi di vita quel latte in polvere che mi piaceva poco. Altro che mediterranea e passionale. Una donna in preda a una crisi di nervi.
La sento gridare al telefono.
Non so chi abbia la fortuna o la sfortuna di ascoltarla. Possiede tutta la verve di chi è in preda a uno sfogo che va senza l’intenzione di ascoltare pareri altrui. Ma lei accenna di Beatrice, la nostra vicina di casa simpatica. Una di quelle che fa della sua fortuna il mezzo per sminuire o aumentare il senso di frustrazione di altre donne. Be’, lei era incinta ma il suo contratto da co.co.co è stato trasformato in uno a tempo indeterminato. Il dirigente ha avuto l’idea di garantirle tutta la tutela possibile. Lei ha partorito e tornando a lavorare ha avuto il part-time e quando ha terminato il periodo dell’orario ridotto per allattamento ha ottenuto la massima flessibilità che ripaga lavorando quando e come può, anche da casa.
Quando attacca il telefono io sono dentro il box. Gioco con una palla rossa di gomma, un regalo di Marco e ogni tanto provo la mia scalata per stare dritta. Mi lamento un po’. “Silenzio, Sara. Silenzio!” grida la mamma, e ancora: “Se tu non fossi nata tutto questo non sarebbe successo”.
Crollo di botto seduta nel box.
Sono caduta a causa delle parole di mamma e per quelle non ho alcuna protezione. Fino a pochi giorni fa lei sfogava la sua frustrazione convogliando energie e pensieri sulla felicità di Beatrice. Ora comincia a farlo con me.
So che tra poco arriverà Marco. Lui ci raggiunge sempre dopo un po’ che va via la luce. Quando poi Marco è qui la mamma è sul divano, noncurante, quasi indifferente e con la faccia appesa, triste. Lei mugugna qualcosa, poi litigano. E Marco col suo temperamento serafico e giudizioso cerca di spiegare a mamma che non può andare avanti così, che ha una figlia a cui deve pensare, che ha delle responsabilità. Lei, di tutta risposta non sembra ascoltarlo. Poco dopo i due discutono in camera loro.
Io mi sveglio di soprassalto col rumore di qualcosa che si frange in terra. Ma non capisco le loro parole, no. Sono difficili. Vedo però d’improvviso dei vestiti lanciati fuori dalla camera di mamma, sembrerebbero quelli di Marco. Sbarro gli occhi e immagino che mamma lo stia mandando via.
E piango.
Da allora sempre la stessa storia. Ciclica. Noiosa. Rituale. Atona.
I giorni vanno, proseguono. Anche i mesi. E aggiungo gli anni. Oggi ne ho venticinque.
Io e mamma siamo rimaste sole da quando Marco se n’è andato via. Lei cambia partner con una facilità discutibile e per me destabilizzante e io ho scelto di non conoscerli più, i suoi partner.
In questi anni poi lei si è rivolta ai sindacati, ha denunciato il suo datore di lavoro per mobbing. Ma ha perso la causa perché non ha trovato colleghi disponibili a testimoniare in suo favore. Solo dopo ha deciso di dedicarsi all’attività commerciale.
Lavora in un negozio circa dieci ore al giorno, da un’amica.
In nero e con il solito stipendio con cui arrivare a fine mese è sempre una possibilità, ma mai una certezza.
Io sono una studentessa, mi arrangio con lavoretti.
La Fornero ha detto che il lavoro non è un diritto… Stronzate!
Purtroppo però il lavoro oggi è quell’“impiego” per cui spesso o sei sottopagato o non vedi neanche un euro. Una lira, si diceva un tempo. Io ho finito una collaborazione presso una redazione: sono quattro mesi che aspetto lavorando ogni giorno e non ho ancora ricevuto il primo stipendio. Pensare che ero in attesa anche del tempo determinato. Invece la collaborazione è terminata perché sono andata via. Una mattina mi sono svegliata e mi son detta: tu non mi paghi? Lecito, necessario e giusto che io cerchi altro. È così che ho chiuso con quel posto.
Io non posso permettermi di lavorare gratis.
Io, come tutti. Tutti. Il lavoro si paga!
Lavorare gratis… Un modo perfetto per privare una parola del suo stesso significato.
Il mio datore di lavoro non sa che il suo sfruttamento del mio impiego gli costerà una lettera da parte del mio avvocato, e una visita dall’ispettorato dal lavoro. Non lo sa perché starà già cercando un’altra vittima da prendere in giro.