Modelli materni impossibili

2 Febbraio 2023

La tragedia della mamma di Roma, il cui neonato è morto soffocato dal peso del suo corpo addormentato, ha riaperto le discussioni sul co-sleeping e sull'aiuto che manca alle madri nel nostro Paese. Non abbiamo molti dettagli di questa vicenda che utilizziamo qui solo per introdurre qualche riflessione, non certo per dare un giudizio su un avvenimento ancora al vaglio.

La condivisione del letto è uno dei cavalli di battaglia di associazioni e movimenti che puntano sul recupero di uno scambio “naturale” madre-bambino. Tuttavia, sul sito del Ministero della salute italiano leggiamo che “la condivisione nel letto dei genitori non è la scelta più sicura e può portare a un aumento del rischio di morte improvvisa del lattante (SIDS: sudden infant death syndrome)”. Di fronte a sciagure come quella della mamma di Roma, sembra di tornare alle tragedie antiche, come quella del racconto biblico di Salomone, il re degli ebrei che ha dovuto intervenire quando un figlio di una madre "è morto durante la notte perché essa gli si era coricata sopra" (Primo libro dei Re 3,16-28). Perché, anche se poco conosciuto, questo è l'antefatto della nota vicenda in cui Salomone ebbe il difficile compito di decidere chi fosse la vera madre tra due donne che si contendevano un bambino. 

Il co-sleeping, o il co-bedding, definiscono quella pratica, oggi molto diffusa (“tutti i bambini della classe di mio figlio lo fanno”, mi dice una madre) che consiste nel dormire insieme al bambino. Alcune madri credono, o piuttosto sono indotte a credere, che dormire con il proprio figlio sia quanto di più naturale possa esserci perché lo fanno gli animali e molti popoli della terra. È una pratica che realizza ciò che la pulsione di mamma e bambino "naturalmente" desiderano, cioè la spinta a rifondersi. Tuttavia, il fare di nuovo Uno è solo un immaginario della gravidanza perché il bambino è separato dalla madre anche in utero: nessuno può essere davvero Uno se non nella morte, suggerisce Lacan. Desiderare di tornare allo stato pre-parto è immaginare un godimento fusionale che guasta la vita vera. Per l’uomo la biologia e la natura sono narrazioni elementari e inadeguate. Per dirla più precisamente: non è il fatto che venga dal mio ventre che mi permette di trasmettere qualcosa a mio figlio, ma il fatto che nonostante venga dal mio ventre posso accoglierlo psichicamente, posso stabilire una filiazione culturale con lui.

Quei nove mesi della gravidanza non sono solo natura, bensì sono un tempo altamente psichico in cui si giocano già molte cose e anche, non raramente, molti fantasmi. Non è questione di biologia, non siamo gatte. Per dirla più precisamente la biologia è un inciampo. Scrivendo questa frase, ho fatto io un inciampo, un lapsus calami, ho scritto buiologia e difatti la biologia da sola rappresenta un luogo cieco per la complessità dell’umano. I fenomeni biologici attraggono perché forniscono spiegazioni apparentemente semplici che, nella loro linearità, possono sembrare definitive. Non è nel dormire insieme al bambino che si forma il legame con lui, ma nella filiazione, nella possibilità di uno spazio psichico di accoglienza e distinzione.

Tornando a re Salomone, ciò che egli fa non è individuare la madre biologica, tutt’altro: egli sospende la verità biologica perché ciò che gli interessa è capire chi sia la madre che alleverà meglio il figlio e la individua in quella che non accetta di tagliarlo a metà con la spada, che non lo lacera per soddisfare il bisogno di volerne un pezzo tutto per sé.

Le madri oggi sono immerse nella narrazione di una maternità che, se da una parte le esalta in una nuova e scintillante cornice eroica, dall’altra chiede loro presenza e dedizione continua, anzi le esalta proprio in quanto sacrificali. Si dimentica che la maternità è un evento eccezionale nella vita di una donna, che può infragilirla, destabilizzarla. Non lo si dice perché si preferisce idealizzare, falsificare, far credere che una madre, partorendo, acquisisca superpoteri e supersaperi – il famoso «quando avrai figli tuoi, saprai» –, come se il partorire ci facesse più intelligenti. Invece, sostenere quel palco di menzogne richiede alle donne sacrifici enormi, come quell’essere con la tetta – reale e metaforica – sempre a disposizione, come ancelle del godimento, mortifero e capitalistico, mentre il bambino diventa oggetto di soddisfazione più che soggetto di cui si ha la responsabilità della crescita. Con un mainstream sulla maternità così architettato, una madre non ha più tempo, non ha altra vita oltre quella che infonde al suo bambino e che il suo piccolo infonde in lei: e così abbiamo raggiunto il temibile traguardo che vede la metà delle neomamme italiane che non lavora (Bes Istat 2022). Basterebbero queste cifre agghiaccianti per cambiare le politiche di sostegno a una maternità celebrata a parole ma schiacciata nei fatti per mancanza di un progetto serio che riguardi madri e bambini. Un progetto in cui, ad esempio, si possa pensare che non solo la scuola materna ma anche il nido sia una imperdibile opportunità per il bambino, quantomeno per sperimentare quello strutturante andare e venire della madre che potrebbe non vivere mai fino ai sei anni, cioè al tempo dell’inizio delle elementari. In Italia, sostenere che è un bene separare la diade madre-bambino è considerato press’a poco un progetto delittuoso.

Meglio chiarire che non sono le madri le colpevoli, benché siano responsabili di un certo irriflesso contagio tra loro di comportamenti di ansiosa ipercura. Tuttavia, sono usate come carne da marketing, infilate dentro un frullatore ideologico che propone loro pratiche di godimento simbiotico come se fossero altamente educative e che le distraggono dai loro progetti e forse da un lavoro su cui hanno speso sogni e fatiche.

Molte donne si sentono sole nella gravidanza perché il discorso comune, scimmiottando correnti psicologiche non ben comprese, o di cui vuole comprendere solo una parte, esalta l'esclusivismo naturale madre-feto di quel periodo. In realtà, il bambino nel sacco amniotico è già immerso nel bagno di quel linguaggio a cui apparterrà, un linguaggio che è musica su cui anche lui modulerà più tardi il suo strumento vocale. Intanto ascolta e ciò che sente da là dentro non è affatto neutro: è da lì che comincia a udire il suono del mondo che abiterà.

Ed ora il tasto scabroso. Il bambino non è un angelo: è attraversato da correnti di erotismo delle quali i genitori sembrano non tener conto. Sembrano non comprendere che il loro corpo adulto è pulsionalmente attivante per un bambino. Se ne accorgono solo quando il loro piccolo dorme con un’altra figura di cura – una babysitter, una zia, la nuova compagna del padre o la nonna – e adotta lo stesso comportamento fatto di abbracci intimi che obbediscono a una eccitabilità intrinseca al bambino, quella che i genitori confondono con slanci d’amore. Il punto indicibile, a cui però non si può non accennare, è che dormire con un bambino, in un adulto, può chiamare in causa un godimento, non strettamente sessuale, ma che afferisce all’erogeneità della pelle. È una considerazione che normalmente i genitori non vogliono ascoltare, che li turba profondamente. Sappiamo, però, che più il turbamento è profondo, più si è vicini a un punto di verità.

Che fare? Alle donne non serve attaccarsi alla biologia, che le rende schiave, ma il fare rete con altre donne, rete con i propri partner, rete con altre madri. Non solo per essere aiutate, ma per non impazzire dietro a modelli materni impossibili e tossici. Tossici per i figli, per loro stesse, per i padri e per compagni/e.

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