Modi del sentire / Democrazia

28 Dicembre 2020

Ci sono condizioni per cui una democrazia può diventare una macchina totalitaria? Sì, diventando massa. È il passaggio da democrazia a massa che indagheremo, utilizzando i concetti della psicoanalisi che sono in grado di chiarire la struttura dei fenomeni collettivi perché, se è vero che non c’è inconscio collettivo, occorre però considerare che un fantasma inconscio può arrivare a collettivizzarsi. Freud pensava che lo studio dell’inconscio fosse indispensabile anche per l’analisi degli ordinamenti sociali. E Lacan è con lui quando scrive che l’inconscio è sociale.

 

Innanzitutto, ricordiamo che la barbarie non è un’apparizione subitanea di caratteristiche nuove, ma il venire alla luce di ciò che era sommerso, tenuto dormiente solo dalla rimozione di pulsioni arcaiche. Chi si lascia assorbire dal fascino della massa, dall’identità che regala, pur facendo ritorno a uno stadio evolutivo primitivo, non è un primitivo: egli s’immerge, ben bardato di orpelli civili, nel sonno di un mondo ancestrale. La pericolosità della fascinazione per la massa, infatti, può sorgere anche quando un popolo ha raggiunto un alto livello di sviluppo: la civilizzazione, da sola, potrebbe non essere un argine sufficiente alla barbarie, come ha dimostrato l’Austria Felix che, benché fosse allo zenit del progresso, ha potuto allo stesso tempo diventare la culla del nazismo. Barbaro, pensava Proust, non è chi non ha mai conosciuto una civiltà ma chi, pur avendola conosciuta, se ne dimentica e ne tradisce i valori. Lo scrittore austriaco Stefan Zweig ricorda che, prima della guerra, la sua terra aveva raggiunto «la forma e il grado più elevato di libertà intellettuale e in seguito il suo livello infimo». Era il Paese dei geni: Freud, Wittgenstein, Hofmannsthal, Roth, Schönberg, Mahler, Webern, Klimt, Schiele. Eppure, Zweig è stato il «testimone indifeso e impotente di questa inconcepibile ricaduta dell’umanità in una condizione di barbarie che, pur credendosi da tempo obliata, riappariva invece brandendo lucidamente quale suo programma d’azione il dogma dell’anti-umanità». La barbarie cancella l’uomo. Rendere superfluo l’uomo in quanto uomo non è forse qualcosa che sta riguardando anche alcune nostre pratiche sociali ed economiche? 


C’è un punto di non ritorno? E qual è l’amo a cui un popolo abbocca facendo di se stesso una massa?

L’ideologia della massa si diffonde grazie a un gadget formidabile: il regalo di un’identità a chi è privo di uno statuto personale consistente. In cambio chiede la cancellazione delle distinzioni tra i soggetti e delle loro singole variabilità: massa e identità sono sinonimi. Nell’identità tutti collassano su pochi punti comuni, mentre le zone più proprie del soggetto sono scarti, resti ininfluenti. La massa è l’Uno, sente come un sol uomo, si muove, parla, grida e reagisce in mono. Esprime la violenza dell’unisono. L’identificazione, al contrario, rappresenta la possibilità per ciascuno di identificarsi a parti dell’Altro, o meglio a parti di diversi Altri, costruendo un puzzle il cui disegno personale ha per collante le proprie inalienabili originalità, una melodia non perfettamente in tono ma ricca di variazioni. Olofonica, multispaziale, dissonante: l’identificazione è una polifonia di partiture Altre. La tolleranza a quote di stonatura è la musica della salute democratica. Fragile ma all’apparenza certa e forte, l’identità si sottrae al perturbante della mobilità, precaria ed enigmatica, delle identificazioni. L’identità è la messa a morte dell’identificazione. Essa è l’unisono dittatoriale, intollerante alle variazioni delle scale tonali: i discorsi dei dittatori suonano in monofonia.

 

Secondo Adorno, lo schema dei sobillatori e dei propagatori d’odio è talmente rigido e uniforme che basterebbe analizzare i discorsi di uno solo di loro per conoscerli tutti. Se si ascolta la prosodia dei discorsi registrati, cioè la musicalità interna alla frase, ci si accorge di quanto gli intervalli delle note di quei monologhi siano fissi, perlopiù in tonalità maggiore, con salti di terza (per esempio, l’intervallo do-mi) quando il discorso vuole agitare gli animi e chiamare l’ovazione. La dimensione sonora della perentorietà e dell’autoreferenzialità si esprime nel ritorno sulla tonica, cioè sulla nota di partenza: le variazioni consentite sono convenzionali e non permettono un vero cambiamento. Così, musicalmente, si resta nello stesso universo riconoscibile, ripetitivo, senza imprevisti, alieno da nomadismi espressivi.
L’orecchio democratico dovrebbe essere olofonico e polifonico.

Ora, la democrazia non è la massa, a meno che… non rinunci alla rappresentanza. E, oggi, siamo in un momento di odio per la rappresentanza. Scrive Roberto Calasso che quando «si nomina il carattere formale della democrazia, molti danno segnali di insofferenza e si affrettano a dire che la democrazia non è mai abbastanza democratica e che, per essere vera, la democrazia dovrebbe essere sostanziale, e che un giorno forse lo diventerà, e allora la democrazia sarà tutta un’altra cosa. A quel punto si potrà essere sicuri: chi parla è un nemico della democrazia. In fondo, ciò che univa Lenin e Hitler era in primo luogo l’avversione per la democrazia formale». Come scrive Canetti, in democrazia la forza dell’avversario è espressa in un numero (si contano i voti anziché le teste spiccate) ed è proprio il formalismo del numero a garantire il suo essere rappresentanza e non pancia.

 

Secondo Canetti, che ha impiegato 600 pagine per interrogarsi sulla nascita del totalitarismo, non c’è altra alternativa: o democrazia formale o assassinii. Da dove viene, dunque, il nostro odio per la distanza, la misura, il diaframma, in breve, per la separazione?

Le masse esistono da sempre e una comunità incerta diventa facilmente massa. Perché? Le Bon diceva che le masse vogliono essere illuse: «A illuderle si diventa facilmente il loro padrone; chi tenta di disilluderle è sempre la loro vittima». Quale bisogno profondo soddisfa, che ferita lenisce e, soprattutto, cosa c’è di rassicurante in quell’illusione? Nelle braccia della massa l’uomo cerca una protezione antica, la vuole anche a costo di perdere la libertà e soffrire di claustrofobia. È per questo che la democrazia è faticosissima da tenere, mentre scivolare nel totalitarismo, nel populismo, nella fiduciosa obbedienza dell’infante, sembra facile, senza sforzo. Effetto di una ripetizione arcaica che tutti può assoggettarci. Se non restiamo svegli.


Veniamo al cuore del problema: cosa genera la massa e la barbarie? Freud rifiuta la comoda annotazione di pulsione gregaria che non è per nulla «originaria e indecomponibile», anzi, è una definizione di comodo che nulla dice della sua origine. Secondo lui, a tenere insieme la massa è un vincolo libidico, il cui esordio coincide con il luogo in cui fa la sua prima apparizione: il focolare domestico. La pulsione a far massa affonda nella preistoria di ogni uomo: «Gli esordi del suo sviluppo sono rintracciabili in un ambito più ristretto: quello della famiglia», scrive Freud in Psicologia delle masse e analisi dell'Io. Nella massa la pulsionalità può rapidamente diventare senza freni e senza controllo, in una parola, fuorilegge: come convive questa caratteristica della massa con l’origine domestica del vincolo libidico che la tiene insieme? 

La suggestione è l’arma del tiranno sulla massa: essa agisce contro ogni interesse individuale del suggestionato e delle convinzioni del gruppo a cui appartiene. Chi gli dà questo potere? È il soggetto stesso che vi aderisce: la ragione sta, secondo Freud, nel fatto che tale suggestione non si basa «sulla percezione e sul ragionamento, bensì su un legame erotico».

 

 

Essa è il manifestarsi «di uno stato ipnotico, il quale risulta validamente fondato su una disposizione conservata nell’inconscio sin dalle origini preistoriche della famiglia umana». La psicoanalisi ha ampiamente dimostrato che il legame erotico preistorico è, per ogni soggetto, con la madre primitiva. È lo stesso Freud a sostenere che «il primo oggetto erotico del bambino è il seno della madre», verso il quale egli compie, metaforicamente, un atto di incorporazione cannibalica come primo legame emotivo con l’altro. La pulsione orale, che unisce il bambino al seno della madre, può essere pensata come il cuore del vincolo libidico che tiene insieme la massa: l’oralità è sia nel giuramento dei membri sia nella cannibalizzazione del nemico. Come rileva Adorno in La teoria freudiana e la struttura della propaganda fascista: «generalmente i capi appartengono al tipo del carattere orale, con un irrefrenabile bisogno di parlare incessantemente e di turlupinare gli altri. Il loro famoso potere sui gregari sembra fondarsi, sostanzialmente, su questa loro oralità: il linguaggio stesso, svuotato di significato razionale, assurge in essi a una funzione magica, alimentando le regressioni arcaiche».

 

Ora, come possiamo far convivere la tenerezza dell’immagine del bambino attaccato al seno della madre con il legame esistente nella massa fascista? Il fatto è che l’impoverimento psicologico del dominato, la sua dipendenza dal capo mettono un individuo in uno stato di minorità passiva non dissimile da quello di un neonato che viene tenuto in vita dall’altro da cui dipende la sua esistenza. La massa è bambina perché è in-separata dal suo capo: chi non si separa non diviene propriamente un soggetto ma resta un assoggettato. Scrive Freud alla sua stimata allieva Lou Salomé: «Quel che mi interessa è la separazione e l’articolazione di ciò che, altrimenti, finirebbe per confluire in un magma primario». Il magma primario è la Cosa, la madre onnipotente, il Caos primitivo.
Gli individui appartenenti alla massa «hanno bisogno dell’illusione di essere amati dal capo» come i bambini dalla madre, ma una clinica almeno centenaria illustra le drammatiche ambivalenze dell’amore materno. Il retaggio arcaico di ciascuno, che viene risvegliato nella massa fascista e che attiva la sete di sottomissione dell’uomo, non proviene forse dal padre furioso primigenio, il quale incuteva terrore ma non amore, bensì piuttosto dalla madre onnipotente primigenia che ispirava amore e terrore insieme, proprio come il capo della massa. 

 

«Ogni angelo è tremendo» scrive Rilke, un verso che ci ricorda quanto l’ambivalenza sta in ogni cosa – anche quella considerata più pura –, ed è lì pronta a far saltare i nostri idealismi. Se non ne teniamo conto, diventa rapido il salto nella barbarie: chi esprime la più radicale opposizione al riconoscimento dell’ambivalenza, che smaschera l’Uno, se non la massa?
Il fondo dell’uomo non ha una natura attiva e sadica, ma, ben più drammaticamente, è costituito da una pulsione distruttiva a carattere passivo. La pulsione di morte tende alla stasi, come ci ha insegnato Freud. Scivola passivamente verso il nulla fermo, verso il grembo da cui siamo venuti, verso l’origine senza futuro. La simbiosi è morte, la separazione è vita. Scrive lo psicoanalista James Hillman che «se non differenziamo il daimon della madre da quello del figlio allora bisogna dire chiaro che la madre è anche una creatrice di mostri, e che è il daimon della madre, demonio in questo caso, a realizzare la propria vita, fisicamente, nel figlio. Hitler, Mao, l’egiziano Nasser erano tutti profondamente attaccati alla madre [...] tua madre potrà essere un demonio, ma non è il tuo daimon e lo stesso vale per tuo figlio: non è il tuo daimon».


Le basi di un soggetto, così come le basi di una comunità, si fondano su una separazione che deve giungere fino alla divergenza, alla disobbedienza. Come riteneva Hannah Arendt, se si guarda alla disobbedienza civile come «espressione di un’azione politica, essa diventa una valvola di sicurezza nei momenti in cui le stesse istituzioni fanno naufragio». La disobbedienza civile è la riattivazione del contratto sociale istituito tra gli uomini, quando esso si sta smarrendo. 

Se la democrazia diretta è tipica del narcisismo infantile, dell’Io, quella rappresentativa riconosce il funzionamento dell’Alterità che ne argina le pretese antisociali (difficilmente l’Io da solo è democratico). La rappresentatività è un principio strutturante che mette un freno al pensiero di pancia, all’immediatezza bestiale, alla miseria culturale di un popolo. La disintermediazione è l’anticamera della barbarie. Democrazia significa tollerare di essere rappresentati, è accettare di perdere qualcosa, è abbandonare la logica del tutto. Il partecipare sempre, l’essere ogni volta presenti non è democrazia, è paranoia, è non accettare alcuna delega. E chi è che non accetta di delegare? Il dittatore. 

 

Elias Canetti, in Massa e potere, parla di democrazia in sole quattro delle quasi seicento pagine che compongono un libro scritto nell’arco di una vita e dedicato agli interrogativi suscitati in lui dalla figura di Hitler, anche se il Führer è citato soltanto in sette pagine. Massa e potere è un lungo ragionamento sulla possibilità delle dittature. Per Canetti, la democrazia è la sostituzione della guerra in cui ci si uccide fisicamente con una guerra rituale, una guerra in cui non si muore: «La solennità delle operazioni di voto deriva dalla rinuncia alla morte come strumento di decisione. Con ogni singola scheda la morte è spazzata via». Chiunque metta in pericolo la democrazia mette in scacco la vita di tutti, non di un singolo, come accade nel corpo a corpo di una classica battaglia. La democrazia è rito e nel rito c’è una forma che tiene una sostanza: senza forma la sostanza si fa Cosa, Caos, sangue. Il tiranno e il populista, al contrario, non lavorano sul rito bensì sul mito, su una narrazione immaginaria semplificata che serve a farsi eleggere. Furio Jesi ha parlato della macchina mitologica di destra come macchina linguistica costruita da una «fitta trama di luoghi comuni, stereotipi, frasi fatte, formule che paiono chiare ma che non richiedono di essere capite, che anzi sembrano chiare proprio perché non devono essere capite: riducendo le parole tramite ciò che sarebbe già in noi prima di tutte le parole», cioè il sangue, il bios, la Terra.


C’è un elemento dello psichismo che ritorna tra gli effetti del plusmaterno, del populismo, del totalitarismo, del terrorismo dell’Uno e della democrazia diretta: in tutti questi sistemi c’è l’immediatezza, che sia della richiesta o del comando, c’è l’orrore della perdita, la paranoia verso la delega e la dittatura della semplificazione. Il sistema del plusmaterno – che nasce come postura familiare ma ha effetti sociali di passivazione agli eventi – è, nella mia lettura, il modo in cui oggi si organizzano la pulsione di morte e la conseguente possibile perdita della civiltà democratica.
Freud, nel 1929, cioè in un altro momento critico della storia, oggi molto citato per le analogie economiche con il nostro tempo, scrive Il disagio della civiltà, che così si conclude: «Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini». Poi, nel 1931, quando gli eventi andavano prendendo una piega minacciosa, aggiunse: «E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?».
Il nostro compito è di attivare le forze erotiche vitali che sono nella disponibilità di ciascuno. Non sapere come andrà a finire non giustifica l’abbandono della lotta: combattere è già un modo per legare, a un fine civile, l’energia della pulsione aggressiva. Ognuno come può, con un libro, un film, un articolo, un’opera d’arte, una lezione a scuola.

 

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