Margherita Manzelli, "Luminale", 2010

11 Maggio 2023
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Le adolescenti della Manzelli sono le adolescenti di oggi. In Luminale lei ti guarda con gli occhi grandi come quelli di una bambina che deve ancora crescere. Solo che lei è già cresciuta, ha i piedi da donna e le mani lunghe. Eppure sembra proprio che non crescerà più di così: è stesa su un tavolo, un altare, una bara, un luogo dove si consuma il sacrificio e il pasto sacrificale sarà lei stessa. Con le ossa del costato sporgenti, con una luce negli occhi che ci guardano, come quella che hanno i bambini che sempre, qualunque cosa gli si faccia, ci chiamano. Gli occhi guardano, forse con un’ultima speranza, l’adulto che l’ha stesa su un tavolo – o su un letto, poco importa – ma da cui, in ogni caso, dipende la sopravvivenza della ragazza. Occhi che un po’ credono, non possono che farlo per tenersi stretto un barlume di vita, fino alla fine. Una fine dal sapore still life, natura morta con bambina, quasi sorridente. Un sorriso timido che sembra sperare ma non sa bene cosa aspettarsi davvero, oppure che – orrore! – pur dalla condizione di morta vivente, ammicca al carnefice.

I piedi già da donna, il corpo ancora acerbo che non tenta ma resta come un resto, che non si offre ma è docile. Il corpo anestetizzato, freddo, l’alone blu delle vene. Le mani lunghe nascoste sotto le cosce: avrà freddo? 

Luminale è il titolo del quadro ma è anche il nome di un barbiturico, di un ipnotico. Un sedativo. 

Dunque è sedata: è decisamente un’adolescente di oggi, sedata come le altre ma ammiccante come tutte, lì a dare parvenze di vita. Come le sue compagne, acquiescente e ubbidiente: benché morta rassicura l’adulto con i grandi occhi e un sorriso – non proprio fiducioso – ma che può bastare a tranquillizzare i suoi (inconsci?) aguzzini sul suo restare lì come un resto, sacrificata a loro, a consentire di farsi loro banchetto, anche se ormai quasi del tutto spolpato. 

Still life, ancora viva, non del tutto viva, non completamente morta, figura del mondo di mezzo, non però evanescente. E quello sguardo addirittura crede di appartenere alla conduttrice del gioco, alla serva che diventa padrona, al suo sapere quanto l’altro ha bisogno del suo essere viva e tombale insieme. È davvero lei la conduttrice? O è piuttosto la pulsione di morte che organizza l’ultimo godimento di tutti?

Still life, al confine tra il vivere e il morire, un’astenia che è mood dell’epoca, diabolico refrain, astensione dalla vita proprio nell’età in cui la vita – la vera vita, quella che inizia quando si esce dalla protezione famigliare – sta per cominciare. Ma per la ragazza stesa sul freddo tavolo non inizierà mai perché lei starà lì nelle mani dell’Altro e che sia il primo o l’ultimo poco importa.
Sta lì, lei è lo stare lì stesso, apparentemente priva di quell’angoscia che la sua condizione di impotente al servizio del desiderio dell’Altro dovrebbe invece sconvolgerle il viso. Stesa sul tavolo operatorio attende qualcuno, le mani di chi la manipolerà mentre lei crede di controllare il gioco. 

I piedi già da donna, il corpo ancora acerbo che non tenta ma resta come un resto, che non si offre ma è docile. Il corpo anestetizzato, freddo, l’alone blu delle vene. Le mani lunghe nascoste sotto le cosce: avrà freddo?

Still life: ancora viva, ma per quanto? E poi lo vuole davvero o la sua vita si consuma nel gioco in cui chiama con gli occhi l’altro che la frugherà senza darle nulla, che si ciberà di lei, che la lascerà mezza morta, mezza viva ad aspettare il prossimo round che si ripeterà uguale? 

Una adolescente di oggi: sfida con se stessa per non confliggere con l’adulto, preferisce farsi suo cibo passivo: dai, mangiami pure che tanto io non mangio e sono già mezza morta, ma non morirò mai perché tu possa sempre cibarti di me. 

Lei è un resto, un nuovo tipo di oggetto del desiderio che non si sposta come gli altri sempre un po’ più in là per sfuggire alla presa. No, lei che resta è anche imprendibile. Anzi, è la più imprendibile. Quello sguardo dice: non sarò mai tua, fino in fondo. 

È a questo che serve lo still life, a restare in vita anche se si è morti perché è alla morte che si appartiene davvero. 

Lo sguardo cerca te, sì proprio te: non è rivolto a tutti, cerca proprio quell’altro che sta al gioco. Crede alla dimensione del Due, l’operatore e l’operata, come una dimensione abissale che farà morire e risorgere all’infinito. Lei è l’apparecchiatura del tavolo, lei è l’oggetto del desiderio che ti lascia volentieri le vestigia del corpo per starsene dentro la forza di quello sguardo che chiama, che quasi pretende. C’è un vantaggio in questo: normalmente non sappiamo mai che oggetto siamo per l’altro, lei invece lo sa: è il suo pasto e non importa quanta poca carne ci sia perché il carnefice si ciba del fatto che lei sia lì, a disposizione, ma imprendibile. Morta alla vita, viva nella morte.

Non ha ancora dato delle vere dimissioni dalla vita: sta lì in balia dell’Altro per ottenere una vita eterna e luminosa nel godimento dell’Altro, nel godimento di Dio in cui ogni mistico vuole cadere.

La vita da morta è la vita che non dissipa energie e desideri, che sta sull’altare del desiderio. Anzi, che è l’altare stesso del desiderio.

I piedi già da donna, il corpo ancora acerbo che non tenta ma resta come un resto, che non si offre ma è docile. Il corpo anestetizzato, freddo, l’alone blu delle vene. Le mani lunghe nascoste sotto le cosce: avrà freddo?

Nella foto un dettaglio dell'opera "Luminale" di Margherita Manzelli, 2010, Ph. Carlo Vannini.

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