Luigi Zoja: il mare dell’inconscio

20 Novembre 2023

Curiosamente questa è un'epoca in cui la psicanalisi non gode di buona reputazione sebbene ogni nuova rilevanza neuroscientifica non faccia che confermare le intuizioni che, fin dalla fine dell’800 e dai primi del 900, essa ha prodotto ed elaborato. Gli studi di neuroimaging hanno dimostrato che la psicoanalisi modifica le funzioni neurali (Kandel,1998) e riorganizza l’assetto delle connessioni che governano l’amigdala (LeDoux, 1994). 

Non stupisca questa premessa, utile nel nostro tempo dominato da un neo positivismo riduzionista, in cui il potere dell’immagine impera marchiando ciò che non si vede di inesistenza. Dunque, della famosa metafora dell’iceberg evocata da Freud per descrivere la psiche – che indica la proporzione tra coscienza emersa (un decimo) e inconscio sommerso (nove decimi) –, ciò di cui non si vuole sapere è precisamente quest’ultimo, cioè la parte immersa, quella che davvero conta, cioè il fondamento che regge e rende possibile l’esistenza della parte emersa dall’acqua. Se non vuole sprofondare.

Dire che la coscienza è fondata sull'inconscio è oggi tabù, sebbene anche gli studi sul funzionamento del cervello mostrino come gran parte delle nostre attività mentali avvenga al di fuori del dominio della coscienza. La parte limbica del nostro cervello è sottostante alla corteccia ed è il vero motore di tutto: qui funzionano le reti neurali dell’ippocampo (memoria), amigdala (emozione), talamo (sensazione) e ipotalamo (regolazioni di base), per dirla in breve. Inoltre, la stessa corteccia, la parte esterna del cervello, la punta dell’iceberg, è visibile solo per un terzo mentre il resto è sepolto nei solchi e nelle circonvoluzioni.
Freud, da bravo neurologo, sapeva che un giorno la strumentazione avrebbe mostrato ciò che lui aveva ipotizzato essere il funzionamento cerebrale. E non si sbagliava. 

Dunque, l’iceberg non è solo una metafora approssimativa, ma un’immagine che ci descrive, mettendo sotto scacco la vocazione imperialista dell’Io. 

Il libro di Luigi Zoia, di cui parliamo in questo articolo, si intitola appunto Sotto l’iceberg. Presenze inconsce nella società e nella storia (Bollati Boringhieri, 2023), ed è una sorta di benvenuto a quel lettore che di immagini ha fatto indigestione e che vuole ritornare a pensare a ciò che non si vede ma che ci domina, sia come singoli che come collettività che si crede razionalmente organizzata. Infatti, ancorché della psicoanalisi non se ne voglia sapere, essa continua a render conto del funzionamento dell’uomo, dei suoi rapporti e delle sue strutture sociali, esattamente come fa l’inconscio sulla coscienza, mentre guida i processi della superficie dalla sua posizione sommersa. Se si vuole comprendere qualcosa di chi siamo, intimamente e socialmente, abbiamo bisogno della psicoanalisi. Nessuna teoria scientifica è durata tanto, e ha tanto profondamente marcato gli stili di pensiero in vari campi umani, quanto la teoria di Freud.

La psicoanalisi infatti, ricorda Zoja, è stata la grande rivoluzione del ventesimo secolo: l’unica irreversibile e senza spargimento di sangue. Essa non si riduce a un sapere specialistico che agilmente si vorrebbe superare con tecnicismi più aggiornati (test, scale e statistiche), ma la psicoanalisi è qualcosa di più vasto, un contenitore di tutto ciò che sono l’uomo e la sua civilizzazione: insiste sul nostro modo di percepire e, quando va bene, di pensare, anche se non ne siamo, appunto, coscienti. Come diceva Freud, e Zoja lo sottolinea, l’uso terapeutico è soltanto uno degli usi della psicanalisi e forse in avvenire non il suo più importante. 

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Di psicoanalisi, infatti, è permeata la letteratura che ha peso, quella che resta, da Joyce a Virginia Wolf, da Franz Kafka a Marcel Proust, mentre oggi – permettetemi questo affondo – una pseudo letteratura ci invade, come racconta anche il professore di letteratura Gianluigi Simonetti, autore del libro Caccia allo strega, intervistato di recente da Angelo Di Liberto per Billy il vizio di leggere, e che sostiene quanto i libri di successo oggi – e non solo quelli dichiaratamente di intrattenimento e svago, ma anche quelli con ambizioni culturali che aspirano ad una targa letteraria – raccontino di fatti e personaggi storici romanzati e tinti spesso di rosa. Se la letteratura del novecento era una letteratura dove lo spazio interiore dell’uomo aveva una sua predominanza, oggi una “terapia della cultura”, secondo una definizione usata da Zoja, appare assai infrequentata.

Anche se la cultura non si stende sul lettino, è molto vero che una civiltà presenta dei sintomi, esattamente come un soggetto, e dai sintomi di una società possiamo capirne la struttura, il grado inconscio di democraticità e di laicità che esprime o, al contrario, di autoritarismo e di propensione al pensiero unico, anche in seno ad un assetto superficialmente democratico.

Mentre, dice Zoja, un’infezione polmonare o una frattura al femore è sostanzialmente la stessa in ogni epoca, la nevrosi di un europeo moderno è sostanzialmente diversa da quella di un azteco perché le sofferenze psichiche sono diverse da una cultura all’altra e, in una grande misura, ne dipendono. I fenomeni sociali in cui siamo immersi costituiscono gli oggetti delle fantasie, dei sogni e dei racconti che ascoltiamo sul divano. Pensiamo solo alle rivoluzioni della struttura famigliare e alle sue connessioni con l’inconscio personale e, come direbbe Jung, collettivo. Tutta la psicologia individuale è anche psicologia sociale, ci ricorda Freud rielaborando la teoria del suo allievo Jung, con il quale continua un dialogo interiore anche dopo la loro rottura. Gli esseri umani sono come il loro tempo, dice Shakespeare, ci ricorda Zoja, secondo il quale ciò che si agita nell’inconscio della storia è più interessante della storia stessa.

Rivalutare la rivoluzione psicoanalitica come fa Zoja, è un essenziale antidoto all’attuale medicalizzazione dei mali psichici, tentativo oggi dilagante, già a partire dagli insegnamenti universitari. Si rimprovera alla psicoanalisi di occuparsi di patologia estendendone le riflessioni a tutta la popolazione. Un rimprovero che dimentica quanto il caso estremo getti luce sui casi particolari. Ad esempio il mito, sempre secondo Zoja, non è una forma di patologia ma è l’ossatura dell’anima e non una sua degenerazione. E sappiamo con quanta precisione psichica i miti – da Edipo in poi – abbiano raccontato le passioni umane. 

La psicoanalisi è stata la nuova forma di pensiero. Un pensiero non più lineare ma, in accordo coi fisici teorici quantistici come Wolfang Pauli, geniale paziente di Jung, con molte zone d’ombra che, proprio quelle, determinano il comportamento degli elettroni, esattamente come l’inconscio misterioso conduce i nostri comportamenti. Se è vero, come dice la fisica quantistica, che l’osservatore influisce sull’esperimento – ad esempio una particella si comporta come tale se c’è un osservatore, mentre se non c’è assume la forma di un’onda –, viene dimostrato quanto anche la scienza dei quanti, una delle più dure, sia governata da principi tutt’altro che univoci, come il famoso principio di indeterminazione di Heisenberg. Per la fisica dei quanti non esistono fenomeni senza un campo preciso ancorché indeterminato, così non esiste una coscienza che non sia sorretta dal campo dell’inconscio. Non appaia arduo questo scivolamento nella fisica quantistica, dal momento che Jung e Pauli, che scrissero un libro insieme, cercavano la connessione tra ciò che è materiale e immateriale. Jung non si faceva pagare le sedute da Pauli, chiedendo in cambio che gli spiegasse la fisica dei quanti. Jung aveva pensato che la particella alfa, la costante di struttura fine (1/137), poteva permettere quel punto di unificazione, non solo tra le teorie alla base della fisica quantistica della relatività generale e dell’elettromagnetismo, ma anche nella realtà immateriale. All’epoca erano molto interessati a trovare un punto di congiunzione tra tutte le arti e le scienze per superare il positivismo precedente: non dovremmo essere, a ben guardare, nello stesso punto di svolta? 

Pauli e Jung erano affascinati dai numeri e Jung cercava, proprio come Pauli, dei numeri che spiegassero gli effetti sottostanti la realtà. Questa era anche la ricerca di Newton, ma non usciamo troppo dal seminato parlando di quest’ultimo. 

Pur se questa discussione su fisica quantistica e psicoanalisi junghiana esula dal testo che stiamo esaminando, ricordo un’ultima curiosità: Jung scrisse il suo primo trattato sulla sincronicità – due eventi indipendenti che si verificano contemporaneamente senza alcuna relazione di causalità – dopo che Pauli gli raccontò del famoso effetto Pauli, famoso tra i fisici, quello per il quale gli strumenti di misurazione dei laboratori sperimentali entravano in tilt quando Pauli era nei pressi. Interessante sapere che Pauli era un fisico teorico e tra i fisici teorici e fisici sperimentali non corre buon sangue dato che i primi considerano i secondi poco più che dei manovali della scienza. Benché non ne sapessero dare spiegazione alcuna, tutti i fisici concordavano sulla stranezza dell’effetto Pauli, concordando però sulla sua reale effettività.
Dal canto suo, Jung aveva usato per la prima volta il termine sincronicità quando, durante una seduta, una paziente parlò di uno scarabeo, in relazione a una circostanza importante per la sua infanzia, e in quel momento uno scarabeo entrò nella finestra dello studio dove paziente e analista ne stavano parlando.

Il breve accenno storico su psicoanalisi e fisica quantistica ci serve per rafforzare quanto sostenuto da Zoja nel suo libro. Ciò che non è visibile e misurabile precisamente come l’inconscio – e la fisica quantistica è, in fondo, la scienza dell’invisibile e dell’indeterminato – può ciò non di meno costituire l’ossatura del mondo. Un punto di partenza indispensabile per ogni psicanalista, ma che oggi rischia di diventare un punto di arrivo, un’acquisizione da ripescare, rimossa dalla storia e che va recuperata se non vogliamo rischiare l’estinzione come esseri umani. su un punto possiamo concordare: l’intelligenza artificiale non ha l’inconscio freudiano né junghiano. Ed è proprio l’inconscio che fa l’umanità dell’uomo.

L’inconscio è il sottofondo, la quinta di scena che permette di rappresentare l’opera umana. 

Scrive Zoja al termine del saggio: “l’uomo moderno teme il senso del tragico e lo ha sostituito con termini asettici, che fanno meno paura”. Dovrebbero invece essere proprio i termini asettici e rassicuranti, che ci tolgono la nostra umanità, che dovrebbero farci davvero paura! 

La psicanalisi è oggi derisa, ricorda Zoja, e svalutata da una parte del mondo accademico e scientifico che la vedono come una terapia dall’influenza limitata. Dovremmo sorridere di questa valutazione perché essa ha influito su tutto il XX secolo e, che lo vogliamo o no, continua a farlo. Potremmo, tra un secolo, dire lo stesso dello scientismo statistico, fatto di punteggi e di scale, di risibili formule matematiche, con cui stiamo infarcendo gli studenti delle università di tutto il mondo?

Freud e Jung, entrambi i medici, hanno tagliato i ponti con la medicina precedente e hanno dato all’idea di psiche una potenza che forse si può ritrovare solo nell’antica cultura greca. Il XX secolo e i suoi progressi devono molto a questo passaggio epocale portato dalla psicoanalisi, passaggio che, come scrisse Thomas Mann, segnerà per sempre tutti i passaggi successivi del pensiero. Crediamolo con lui, almeno per superare l’attuale caduta dei nessi logici e l’imperante schizofrenia delle immagini giustapposte con cui stiamo educando i giovani, anche attraverso le slide universitarie al posto dei libri.

Guardiamoci sotto questo iceberg, prima che l’iceberg ci colpisca come fossimo un Titanic che ha perso la rotta.

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