Il terremoto è un’istantanea

22 Maggio 2012

Bastano quarantotto ore e il terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna scivola dalle prime pagine dei quotidiani a quelle interne. Poi, al terzo giorno dopo le scosse che hanno provocato sette morti, decine di feriti, cinquemila sfollati, il terremoto si assesta: prende posto tra la pagina 22 e la 25. Al terzo posto dopo i risultati delle elezioni amministrative, che tengono le prime pagine, e l’inchiesta sull’attentato alla scuola di Brindisi.

 

I giornali, nel tempo in cui le notizie giungono subito sulla rete, traboccando da Facebook e da Twitter senza aspettare di arrivare in Tv né attendendo l’apertura delle edicole, sono in primis dei sismografi informativi. Proprio per questo non hanno tempo da perdere con il terremoto.

 

Il ruolo per cui vengono ancora tenuti in vita è quello di monitorare, ad uso degli abitanti del Palazzo, i sussulti nei rapporti di forza tra schieramenti, correnti, movimenti. Li riassumono a delizia e dannazione di coloro che un tempo consultavano, sin dall’alba, i “mattinali” redatti dagli uffici riservati e ora, un po’ smarriti, scrutano le prime pagine dei giornali come fossero lo specchio della mamma di Biancaneve: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame…”. Gli abitanti del Palazzo leggono tra le righe delle cronache politiche esattamente come il lettore comune s’affida all’oroscopo quotidiano: per capire come butta la giornata negli equilibri del potere e da che parte soffia la fortuna separando vincenti e soccombenti.

 

 

Il terremoto è al di fuori di questi sguardi. È una frontiera: delinea nuove geografie, non solo quelle recintate, inaccessibili anche a chi vi risiedeva sino a qualche ora prima, segnate dalle barriere e vigilate dalla Protezione civile o dalle forze dell’ordine. È un nuovo paesaggio delineato da macerie dove il passato non c’è più e il futuro è ancora difficile da scorgere. In questo nuovo panorama, con questo nuovo scenario scandito delle macerie, ci si deve convivere. E il prezzo è altissimo: non solo per il disagio materiale, le difficoltà di accomodamento, le abitudini infrante. È anche la nuova “estetica” imposta dal terremoto a risultare intollerabile: “chiunque non li abbia osservati con i suoi occhi sarebbe tratto istintivamente a supporre che il terremoto, rompendo la simmetria delle finestre, delle porte, delle sole case squadrate e dei viali allineati, debba creare un disordine affiggente ma stupendamente fantastico e straricco di sorprese: invece solo nell’ordine è la varietà e il caos è eguale a se stesso ovunque”. Vale ancora oggi quanto scriveva, più di un secolo fa, Giuseppe Antonio Borgese arrivando come inviato speciale de La Stampa nella Messina distrutta dal terremoto del 1908. Nei suoi reportage intuisce come il terremoto scomponga la realtà per poi ricostruirla con spiazzante procedere: quel procedere “cubista” che di lì a pochi mesi verrà sancito nel famoso manifesto che apre la stagione artistica di Braque e Picasso.

 

Il terremoto scivola via rapidamente dalle pagine dei giornali. D’altra parte, il ruolo attuale dei giornali è l’essere delle fabbriche di commozione. L’attentato alla scuola di Brindisi, la caccia al colpevole, i funerali in diretta TV, i litigi irrinunciabili tra magistrati, sono buoni ingredienti emotivi: la fabbrica della commozione è alimentata a dovere. Tiene la scena più del terremoto. Commozioni e terremoto hanno in comune, nell’etimologia da cui derivano, il “movere”: ci si commuove - ovvero ci si muove assieme - nelle comunità umane. Si muove anche, con forza pari alla sua stazza, la terra. Il “terremoto” appunto. Le conseguenze delle scosse sismiche però, e non da oggi, sono assai diverse da quelle emotive. Disegnano altre geometrie di incontro sociale. Prefigurano soggetti comunitari di altro spessore, durata e rilevanza.

 

 

La ricostruzione dei terremoti passati, come ho cercato di fare nelle oltre quattrocento pagine de La terra trema. 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l’Italia, non gli italiani, pubblicato nel 2004 da Mondadori, serve – almeno in questo nostro Paese ad alto rischio sismico – non solo a ricordare che risiediamo in una “terra che si muove” e dunque chiede saggezza e di conviverci “abitando il terremoto”: con le precauzioni, e le prevenzioni, del caso.

 

Le ricostruzioni consentono anche di comprendere come il sisma sia anche un’istantanea scattata sulla società. Le scosse non si limitano a far crollare case e monumenti, a deformare strade e ponti. Sono fessure offerte allo sguardo che può cogliere nuove dinamiche interpersonali, impreviste cristallizzazioni comunitarie spuntate sopra le macerie come un nuovo paesaggio. Sono le enigmatiche, essenziali architetture sociali che sorgono dalla sciagura sismica e prendono, per un tratto, visibilità. Almeno fino a quando la fine dell’emergenza, o l’adattarsi alla routine, non li renderà ancora opachi. Indistinguibili.

 

Nel terremoto del 1908, sullo stretto di Messina. il protrarsi dell’intervallo trascorso tra le scosse distruttrici e l’arrivo organizzato dei soccorsi è direttamente proporzionale al rapido regredire della comunità dei sopravvissuti indietro nel tempo: gli individui, organizzati in improvvisati clan, adottano brutali e arcaiche modalità di accesso ai bisogni primari (acqua, cibo, tetto). Si torna al baratto non solo delle cose ma anche delle abilità professionalità. Si fa generalizzato il ricorso alla violenza fisica. Saltano molti tabù sessuali. Si impongono nuove leadership che – nel sospetto, forse nella convinzione, che il mondo civile possa essersi estinto in una catastrofe generalizzata – per brevissimo tempo esercitano un potere sovrano. Poi arrivano i soccorsi: “Ora venite? Ora che il terremoto è finito? Una donna ferita tende i pugni contro la prima pattuglia sbarcata dalle navi italiane. Dopo i marinai della squadra del Baltico, dopo gli equipaggi della flotta inglese, arrivano, finalmente, i nostri…”  (La terra trema, pag. 93).

 

 

Tutti i terremoti hanno in comune delle costanti, anche sociali, e, al tempo stesso, ogni terremoto fa storia a sé. La situazione determinata dal sisma in Emilia-Romagna non è certo paragonabile, né per le perdite né per le ferite al territorio, a quella del terremoto siculo-calabrese del 1908. Né di quelli di Avezzano, del Belice o dell’Irpinia. Neppure con la situazione determinata in Friuli dopo la catastrofe del 1976, con un capitolo anomalo, almeno rispetto alle costanti italiani, soprattutto sul fronte della ricostruzione.

 

Eppure un elemento, in tutti questi eventi, perdura. Consiste nel fatto che il primo obiettivo di ogni intervento dello Stato nelle zone terremotate è, da sempre, quello di manifestare in modo palese ed eclatante il ristabilimento della propria sovranità. È una finalità che può essere accompagnata e temperata dalla conclamata volontà di apportare solidarietà. Con la necessità di monitorare i bisogni. Tuttavia l’accorrere delle massime autorità sul luogo del disastro è sempre finalizzato a un primo e fondamentale scopo: quello di ribadire chi comanda dove.

 

Le comunità provvisorie sorte dal terremoto sono deboli, disorientate, stentano a trovare risorse e punti di riferimento. La terra ballerina su cui posano è meno fraterna di quanto sembrasse appena prima dell’inizio del disastro. I vertici delle istituzioni, per quante promesse facciano, diventano più distanti da una popolazione fattasi migrante nel proprio territorio, incerta sul futuro, bisognosa di risorse erogate da altri per riprendere il cammino.

 

È un capitolo che, per quanto buone siano le intenzioni di tutti, esige uno sguardo capace di afferrare il nuovo ancora indistinto che affiora, gli incerti equilibri messi alla prova nella provvisoria quotidianità, le voci sommesse di chi smarrito vuol solo sostare, ovunque venga posato, e si frappone a ogni possibile evoluzione e cammino. La sosta – a volte mai davvero conclusa – delle comunità provvisorie sorte dal sisma può essere più devastante del sisma stesso. E, più delle macerie stesse, può seppellire una comunità, dandola in ostaggio a un presente incerto, a un passato irriducibilmente perduto e che, tuttavia, vuole continuare a esserci.

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