Ex manicomio, Voghera / Dove vanno i nostri matti?
Quando, da piccolo, abitavo in campagna, in un piccolo paese della Lomellina dove sono nato, i matti sparivano. Quando qualcuno cominciava a uscire di brutto dalla consueta routine di gesti e di pensieri – e pareva essere entrato in un mondo dove le regole erano capovolte, e le sue parole non corrispondevano più a quelle degli altri, e le sue azioni sembravano mosse dai fili di un burattinaio capriccioso e minaccioso, nascosto e tenebroso – arrivava il momento di portarlo via.
Dove? A Voghera.
Per indicare dove i nostri matti finivano non era necessario usare termini difficili e che non avevano neanche traduzione nel dialetto.
I nostri, infatti, erano quasi sempre matti di antica e semplice follia: donne cadute in depressione attraversando la menopausa o perché si facevano troppe domande intelligenti sull'inadeguatezza della loro vita; vecchi attesi al varco della demenza senile; lunatici che sin da piccoli si erano isolati dalla comunità e si erano messi a seguire le loro fissazioni come camminando sonnambuli su un filo che vedevano solo loro. E poi c'era qualcuno, da sempre un po' ai bordi del vivere comune, che all'improvviso veniva afferrato da uno scatto di violenza, una ribellione improvvisa, come un tuono di urla e un bagliore di sangue. Quasi sempre era la risposta inaspettata e fulminea a ingiustizie durature subite, a dolori indicibili, a una sorte sventurata covata da troppo tempo in silenzio, in solitudine, perché poi non dovesse esplodere col fragore di un lampo, il luccicare di una lama.
E quando dico questo so di cosa parlo. Perché, anche se guardati con gli occhi di un bambino, mi vedo ancora davanti i volti, certi loro ultimi gesti, di quelli che, sgranati lungo gli anni della mia infanzia, sparivano dal paese, da un giorno all'altro. Portati via. Finiti a Voghera, appunto.
Non era necessario chiamarlo manicomio, ovvero, dice l'etimologia, "il luogo di ricovero e di cura dei matti". Un termine che entra in uso verso la metà dell'Ottocento, lasciando dietro di sé altre denominazioni, "asilo per alienati", "ricovero per pazzi", che senza preoccuparsi troppo della gentilezza del linguaggio andavano, con ruvida concretezza, a descrivere in tempi precedenti la realtà delle cose. Come stavano davvero, senza abbellimenti.
Ma per noi, in paese, manicomio era un termine estraneo e difficile (nessuno sapeva il greco), e la definizione che qualcuno, almeno in città, già cominciava ad utilizzare – clinica psichiatrica, clinica per malattie mentali – ci risultava ancora più evanescente. Per capire dove andavano a finire i nostri matti quando la loro follia diventava conclamata, a volte persino un po' pericolosa (spesso più per loro stessi che per gli altri), bastava una parola sola: Voghera.
A Voghera, ad esempio, era finito Gramion, un contadino taciturno che viveva da solo in una casina abbarbicata alla costa. Coltivava i suoi campi, viveva del suo raccolto, non comprava nulla di nulla nell'unico negozio del paese, inalberando così un'ulteriore orgogliosa pretesa di autosufficienza che risultava stonata persino in quei tempi sparagnini. Soprattutto quel vecchio uomo non voleva parlare. Né intendeva avere a che fare con nessuno.
Me n'ero accorto quando, chierichetto, avevo accompagnato il parroco nella benedizione delle case. Arrivati davanti al sentiero che portava alla abitazione di Gramion, lui, che ci aveva intravisti dalla finestra, era sceso verso di noi, vestito tutto di nero. Quando anni dopo, al cinema, ho visto in azione nei western all'italiana Lee van Cleef, sempre nerovestito, il cappellaccio in testa, e l'aria minacciosa del cattivo, mi sono ricordato del suo scendere verso di noi, a passi lenti, e ho pensato che Gramion e Lee van Cleef si assomigliavano – nei tratti, nei movimenti – in modo strabiliante.
Senza dire niente, guardando fisso il parroco, aveva chiuso in modo plateale davanti a noi il cancelletto cigolante e poi ci aveva girato le spalle. Evidentemente non voleva saperne della benedizione e non voleva sprecare una sola parola per spiegarlo.
A parlare a questo punto – visto che ormai Gramion si stava allontanando – era stato il parroco che, come riflettesse tra sé e sé, aveva detto: "Uscite da quella casa e scuotete la polvere dai vostri calzari". Era il Vangelo, Matteo 10, 7-15, ma io non lo sapevo e così, perplesso, avevo guardato prima i miei scarponcini e poi le scarpe scalcagnate, e quanto mai impolverate, del vecchio parroco.
Però di quell'uomo in nero ho un altro ricordo ancora, e lo sfondo questa volta non è di polvere ma di bianchissima neve. Inverno, dunque.
E lui, che non andava mai a casa di nessuno, si presenta davanti alla porta di casa nostra, dove c'è mia madre e ci sono io. Mio padre è al lavoro. Mamma Federica lo intravede, si asciuga le mani nel grembiule perché sta pulendo la verdura, mi dice di mettermi seduto e stare zitto, e – senza un attimo di incertezza – gli va incontro. Non gli parla. Non gli sorride. Lo guarda, in silenzio, con attenzione. Lui dice due sole parole: "Ho fame".
Aveva finito la farina con cui si faceva il pane e, forse da giorni, non mangiava. Federica, lo guarda. Gli mette una mano protettiva sulla spalla. "Aspetta qui..." gli dice, lasciandolo sulla soglia di casa.
Entra. Estrae dalla madia i due micconi di pane della nostra scorta (ne rimane uno, basterà) e poi, dopo averci pensato un attimo, prende il sacchetto di riso da un chilo. Mette tutto in una cesta, ci aggiunge un cartoccio di sale, una dozzina di patate e delle cipolle, e gliela porge. "Torna, quando hai bisogno". Niente altro.
È tornato. Qualche mese dopo quando stava arrivando l'estate ed io ero solo a casa. I miei nei campi a lavorare. È venuto a restituire la cesta. L'ho visto arrivare e mi sono preso paura ma lui, come intuendolo, si è fermato sulla soglia e ha lasciato lì la cesta, piena di mele bellissime, quelle dei suoi alberi. "Per tua madre", ha detto. "E per te..." ha aggiunto.
Pochi giorni dopo Gramion fu meno gentile con la guardia comunale che gli voleva consegnare il bollettino delle tasse. Per convincerlo ad andarsene gli aveva puntato il falcetto dritto verso il petto. Così, poche ore dopo, sono venuti a prenderlo e l'hanno portato a Voghera. Al manicomio, appunto, e non è più tornato.
Quando, anni dopo, ci sono andato io, a Voghera, perché ci era finito ricoverato mio fratello, più grande di me di sette anni, quel viale che portava al cancello imponente, minaccioso, mi è parso non finisse mai.
Nella vita sono proprio le domande che si vorrebbe non aver mai pensato che, alla fine, bussano alla nostra porta e portano la loro risposta.
Voghera era una di queste domande che mi si era messa dentro nel cuore, sin da bambino. Sin da quando stavo in paese e mi chiedevo cosa e come fosse quel posto dove sparivano quelli che diventavano matti. La domanda era rimasta lì, in sospeso. Accanto forse ad altri interrogativi venuti dopo: sulla malattia mentale, sulla sventura di chi ne viene colpito e sul terremoto che a quel punto scuote la sua casa, la sua famiglia, dove qualsiasi sforzo di sgombrare macerie e rimettere in sesto muri, dopo ogni crisi, deve fare i conti con la prossima scossa, la nuova paura, lo sfinimento di una fatica che non ha mai termine.
Ma forse tutto questo non lo sapevo ancora perché, per impararlo, bisogna stare accanto alla prova della follia per un po'. Qualche anno. Qualche decennio. Oltre mezzo secolo nel caso di mio fratello.
Non l'ho mai detto ma sapevo, intanto che percorrevo quel viale che portava al massiccio edificio del manicomio di Voghera, che ci sono dolori che spezzano il cuore. Se i nostri cuori fossero, fossero stati, interi, forse non solo la nostra vita sarebbe stata diversa ma anche noi saremmo stati diversi. Ma forse i cuori si devono spezzare per far sì che arrivi, sino a noi, sino al cuore del cuore, il senso del tutto. Perché tutto, nella vita, alla fine ha un senso. Anche quell'ingresso del vecchio manicomio di Voghera che sapeva di disinfettante, di cibo e di aria stantia. E il girare delle chiavi, e i rumori e le voci acute che sentivo venire dai reparti.
In realtà il manicomio stava allora cambiando pelle. Era arrivata una nuova équipe di medici, nuove impostazioni di cura e la palazzina, accanto al vecchio edificio, dove stava mio fratello, assomigliava un po' a tutti gli ospedali. Solo che c'erano le chiavi e gli infermieri controllavano nella borsa cosa stavi portando ai ricoverati. I medici erano gentili e gli psicofarmaci che cominciavano ad essere usati al posto delle vecchie terapie sembravano poter contribuire ad addomesticare la durezza della malattia.
Però, nonostante quei mutamenti in atto, i luoghi dove la follia è venuta ad abitare, a farsi curare, rimangono posti intrisi di dolore. Non ne sono pervase solo le persone. Sembra quasi che anche le pareti, i muri, le porte, gli infissi e i mobili essenziali che arredano le camere, partecipino al dolore infinito, irriducibile, incancellabile, di chi è passato lì dentro. E spesso vi ha chiuso i suoi giorni.
Tutte quelle vite che sono trascorse lì dentro, in giorni interminabili, in pene che nessuno saprà mai, in violenze silenziose e sofferenze che non hanno mai più voce, rimangono. Sono dentro queste mura e abitano in questo edifico che Marcella Milani ha avuto il coraggio di affrontare, da sola, in una ricognizione che non avrei mai avuto cuore di fare. Lei lo ha fatto e questo compie un destino: consente di dare un senso a tutto quanto vi è accaduto. Di spiegarlo e di renderlo evidente. Di far parlare i silenzi e di dissipare le amnesie sulle esistenze che qui si sono compiute.
Il senso da trovare è che tutto, nella vita, cerca consolazione.
Non solo le persone che ci vivono accanto, o che stanno al mondo. Cercano consolazione anche coloro che sono spariti per sempre. Cercano consolazione anche i luoghi, gli edifici, le case. Marcella Milani ha avuto forza e cuore impavido. Ha saputo stare, da sola, tra queste mura, ad aspettare il momento giusto per fermare immagini che rendono tutta la tristezza, il dolore, la sofferenza che vi hanno avuto dimora.
Queste immagini ora ci interpellano.
Chiedono che destino vogliano dare a questo edificio, alla storia che vi è raccolta, alle vite che vi sono passate. Chiedono in che modo pensiamo di consolare la tristezza che vi è stata deposta. Una prima risposta è proprio in queste foto: perché il linguaggio della bellezza e la sfida del suo sguardo affidato ad ogni scatto sono già raggi di luce. Espandono gli spazi dell'intelligenza del comprendere che, letteralmente, è sempre, non dimentichiamolo, un "prendere con sé". Queste foto aprono le finestre dell'attenzione, scaldano di tenerezza l'ascolto che andrà dedicato a queste storie di vite che si sono dissolte come pulviscolo nel crepuscolo.
Chiedono di non dimenticare ciò che è passato qua dentro perché, appunto, tutto ha senso. Tutto cerca consolazione. Tutto ci riguarda.
Testo tratto dal catalogo per della mostra «MENTE CAPTUS - spazi e silenzi dell'ex manicomio di Voghera», progetto ideato e realizzato dalla fotografa Marcella Milani. Dal 15 settembre al 1 ottobre 2017, Spazio per le Arti contemporanee del Broletto di Pavia.