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“Cerco un centro di gravità permanente” / Il virus, la negazione, Eros che resiste

27 Novembre 2020

“Cerco un centro di gravità permanente”, cantava Franco Battiato parecchi anni fa, con impagabile ironia, centrando una grande ambizione degli esseri umani: essere provvisti di un baricentro in grado di prevenire o azzerare le turbolenze che si incontrano nel cammino, le sfide ai vacillamenti e all’idea di essere, in fondo, padroni di se stessi. 

In questi tempi di assedio da parte di un nemico invisibile dagli effetti visibilissimi (45 milioni di infetti nel mondo, più di un milione di morti) questa ambizione è messa a dura prova, generando reazioni paradossali come quelle dei così detti negazionisti, per i quali il virus non esiste o non è poi così pericoloso.

 

Oppure di quelli come Trump che cercano il colpevole (la Cina, in questo caso) della fuoriuscita accidentale e sottaciuta del virus SARS-Co V-2  dai laboratori. O di quelli che azzardano l’idea che il virus, artificialmente costruito, sia stato messo in giro appositamente per fare “pulizia” non si sa bene di che o di chi, verosimilmente di quelli considerati le zavorre della società, i diseredati e i non produttivi. Idea che la dice lunga su quelli che l’hanno coniata. I meccanismi della proiezione e della negazione sono rudimentali quanto efficaci: “Non sono io un incapace, sei tu che me la tiri” oppure “Sei tu ad essere invidioso di me, non io che immagino quanto sarei invidioso al tuo posto”.

 

Individuare un colpevole e/o un motivo (possibilmente un intento dannoso) di un evento catastrofico non solo distoglie da noi stessi l’angoscia e la canalizza altrove, dunque la placa, ma aiuta a consolidare quella che lo psichiatra Cameron chiamava “comunità paranoide”, ossia una configurazione psicosociale per cui il male in tutte le sue forme si trova all’esterno del gruppo in questione, che sia di identitari, negazionisti, xenofobi, la scelta è ampia e la storia insegna. La negazione in quanto tale risolve il problema alla radice, è come il “no” infantile a quello che semplicemente non piace o intacca la considerazione del soggetto per se stesso. Basta vedere la reazione di Trump alla vittoria di Biden. Freud lo chiamava narcisismo e, non a caso, considerava l’incontro con l’Altro, dunque l’introduzione del reale nel mondo del soggetto, la prima minaccia a questa condizione di (illusorio) splendore cui l’essere umano aspira. 

 

Il fenomeno del negazionismo ha recentemente indotto The Lancet, forse la rivista più prestigiosa nell’ambito della comunità scientifica, a sollecitare l’intervento dell’APA (American Psychoanalytic Association) per arginare la dilagante non osservanza delle regole che, evidentemente, persino gli psicologi sperimentali considerano una forma di “difesa”.  A dispetto di chi continua a negare, l’evidenza a cui siamo messi di fronte – quella di essere provvisti di un corpo contaminabile, corruttibile – ha un carattere quasi osceno, tanto ci viene sbattuta in faccia. Lo sapevamo già, ma in fondo non volevamo saperne un granché perché, sempre freudianamente parlando, la psiche degli esseri umani funziona su un piano più strutturale-sincronico che evolutivo, che significa che anche le angosce più antiche sono sempre pronte a risvegliarsi. Il loro prototipo originario è quello legato al venire al mondo dotati di un corpo prematuro, inerme, totalmente bisognoso di cure, tanto da richiedere, perché il piccolo d’uomo riesca a sopravvivere e iniziare a strutturarsi, quell’esperienza del “rispecchiarsi” in un altro essere umano adulto, “perfetto”, come Lacan e Winnicott hanno straordinariamente descritto. 

 

Nonostante la guadagnata maturità e autonomia, non solo questa traccia resta, pronta a ripresentarsi, ma costituisce il modello delle possibili angosce future. L’esperienza scritta su quel piccolo corpo prematuro e scoordinato è il germe (che parola, di questi tempi) di tutte le forme che assume la precarietà che caratterizza l’animale umano: non solo il fatto che il nostro corpo è prodigioso e vulnerabile, ma che il tempo a nostra disposizione ha un limite, che siamo esseri sociali nel senso più forte, ossia siamo per definizione legati all’Altro per amare e desiderare, ossia per esistere, elemento che ridimensiona molto l’idea di libertà. Tutto questo non è che l’altra faccia di quella condizione vagheggiata come immacolata e autosufficiente che è il narcisismo.

 

 

Ogni giorno gli analisti vedono soggetti lacerati dal desiderio e dall’angoscia uguale e contraria di amare per non vacillare troppo, per non smarrire nell’Altro un equilibrio conquistato a fatica, oppure che rinviano indefinitamente il gioco della loro partita perché aspettano il momento “ideale” per farlo e scongiurare ogni possibilità di fallimento, o impegnati nell’investire su un corpo (o, per meglio dire, su un’immagine di corpo) depurato da ogni “difetto”. Tutti modi dolorosi e ingombranti che vorrebbero scongiurare il rischio di esporsi al sapere della dipendenza dall’Altro, alle ferite della hybris, a tutto ciò che, insomma, riecheggia lo stato derelitto in cui nasciamo. Perché hai voglia a essere moderni (o contemporanei, che dir si voglia), a essere edotti della mancanza, del limite costitutivo attorno a cui gli umani si costituiscono, la sua assunzione è un lavoro che costantemente ci ingaggia e cerca un aggiustamento con il suo altro versante.

 

L’arrivo del virus ha messo a nudo questa travagliata negoziazione tra narcisismo e necessità di esporsi al reale, svegliando brutalmente l’angoscia. E allora la soluzione più rapida e – illusoriamente – indolore è quella di dire no: non esiste il virus; esiste ma che ci vuole a sconfiggerlo (il macho Trump che, appena uscito dall’ospedale, si toglie arrogantemente e proditoriamente la mascherina); io non mi piego agli ordini di nessuno (le manifestazioni in alcune città italiane all’insegna del grido: libertà!), come se quelli che rispettano le regole fossero tutti fessi, e via dicendo.  L’aspirazione al “centro di gravità permanente”, nei tempi in cui il virus ha sollecitato le angosce più basiche, assume, talvolta, forme talmente grossolane da ispirare compassione, se non fossero così pericolose. 

Poi ci sono quelli, e mi piace pensare che siano una maggioranza, che semplicemente resistono, fronteggiando lockdown e quarantene, astenendosi da ciò che non è il superfluo, come si sente dire spesso, perché magari è la possibilità di incontrare l’altro amato e di farci l’amore, di frequentare quei luoghi che esistono perché non fummo fatti a viver come bruti, di bere un bicchiere in compagnia perché Eros deve circolare. 

 

Il rituale dei disinfettanti e delle mascherine, delle file distanziate, dopo lo shock iniziale, diventa quasi un antidoto all’angoscia che, come diceva Lacan, non è affatto senza oggetto. In questo caso l’oggetto ha a che fare direttamente con quell’estremo avamposto che è il corpo, con ciò che lo penetra, lo ammala (peraltro in modi ancora piuttosto misteriosi), a volte lo fa morire. Il reale del virus, contrariamente a quello di noi umani, ha le sue leggi, che prevedono l’insediamento e la moltiplicazione (o la sua estinzione, se l’ospite ha la meglio) in un organismo che lo possa alimentare e quello umano sembra particolarmente adatto. 

I resilienti vivono un po’ alla giornata, spaventati dal virus e dalle sue conseguenze, storditi da una miriade di notizie contraddittorie, cercando una riconfigurazione del modo di stare al mondo. 

La provvisorietà non è più un’eccezione, ne risente la spinta a progettare mentre si vive immersi in un tempo dilatato al presente. Il senso della parola vulnerabilità perde quella patina simbolica che aiuta a mantenere una certa distanza, diventa più rovente, meno addomesticato. Eppure, se la tentazione depressiva non ha la meglio, la pressione generata da questa contingenza può, per esempio, sospendere l’attesa beckettiana di un desiderio indefinitamente rinviato. Risolversi ad assumere il sapere, non disincarnato, della propria vulnerabilità, può diventare un sollievo e persino una forma di libertà che avvicina alla vita, alleggerendola di qualche orpello.

 

Nelle stanze di analisi vediamo l’angoscia, certo, ma anche la precipitazione (nel modo in cui la chimica utilizza questo termine) di eventi e decisioni sospese: coppie incerte che consolidano il loro legame o si slegano definitivamente, o che magari decidono di avere un figlio; legami che nascono e pareva impossibile che nascessero proprio per quei soggetti, proprio adesso; passioni che spuntano o rispuntano e altre che vengono meno, desideri che improvvisamente trovano un varco. 

 

Come se le circostanze forzassero l’attraversamento di quell’angoscia che sempre accompagna il desiderio, che emerge in modo più netto, urgente, liberato da una quota di narcisismo e dalle sue declinazioni immaginarie (necessarie, entro certi termini, alla vita). Non è un discorso di ottimismo, è il constatare quanto il lavoro tenace di Eros, nelle forme che prende, riesca sempre ad essere sorprendente.  

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