The Killer. Il postmoderno spiegato ai bambini
Il nuovo film di David Fincher, The Killer, interpretato da Michael Fassbender, tratto da un noto fumetto francese, è la quintessenza, pura e semplice, ossia spiegata ai bambini, dell’estetica del postmoderno. Riassumibile nella formula, “Tutto metodo, nessun esperimento”.
La modernità, ossia l’età degli esperimenti, delle scoperte e dei viaggi, è ormai alle spalle. Oggi, nella cosiddetta post-modernità, tutti i percorsi e gli itinerari sono previsti e prevedibili: ciò che conta è soltanto la modalità di spostamento, il metodo di transito da un sito all’altro. In breve, il turismo.
Secondo una dichiarazione dello stesso Fincher, l’ossessione per i mezzi e gli strumenti nasconde un profondo disprezzo per se stessi. Tale sarebbe il nucleo ispiratore del carattere del protagonista, il quale all’inizio del film manca infatti il proprio bersaglio, sbaglia centro, inadempienza che fa scattare automaticamente una procedura di eliminazione fisica nei suoi confronti. Procedura che, anche in questo caso, va a vuoto, provocando solo il ferimento grave di colei che parrebbe essere la sua donna. Altrettanto automaticamente, il killer intraprende una procedura di eliminazione fisica di coloro che hanno tentato, invano, di eliminare lui colpendo invece lei. Un doppio errore che non intacca però la resa del circuito, che si mantiene fermamente attivo.
Ragionando su Fincher, viene subito in mente il cinema di Stanley Kubrick. In particolare 2001: odissea nello spazio, la parte del film in cui si narra dell’errore del computer Hal 9000, falla del sistema che rischia di compromettere la missione degli astronauti verso il pianeta Giove. In Kubrick, siamo ancora al confine tra moderno e postmoderno: l’errore di Hal compromette sì la missione sperimentale verso le sorgenti della vita aliena localizzate su un satellite di Giove, ma al tempo stesso rilancia la missione stessa “oltre l’infinito”, là dove deve manifestarsi un ulteriore momento del circuito, salto evolutivo riguardante la specie umana. Metodo e esperimento, così, interfacciano l’uno con l’altro: nel finale del film si ri-presenta il monolite nero, che avvia all’evoluzione dell’essere umano terrestre in Bambino delle Stelle. Tutto il film, in breve, ha integralmente messo in scena il motore, ossia il metodo, dell’evoluzione umana, cioè l’esperimento.
In The Killer, l’esperimento è invece assorbito nel metodo, fino a mimetizzarsi se non a scomparire. Lungo tutto il film, il protagonista enuncia in monologo interiore i passaggi base del metodo stesso, tipo non guardarsi indietro, niente empatia che compromette l’esito dell’azione, non improvvisare mai.
Egli affronta tutto il circuito (di vendetta sentimentale? di risarcimento professionale?) eliminando chiunque sia in qualche modo coinvolto nel meccanismo. Il meccanismo prevede al suo interno un altrettanto meccanico arco narrativo. Nell’ultima parte del film, Il protagonista incontra infatti il suo doppio, che è ovviamente una donna. Il segnale che il personaggio interpretato da Tilda Swinton sia il doppio di Fassbender è sia l’informazione che viene data su di lui, uno “smilzo”, sia quella su di lei, un “bastoncino”. Sono due fuscelli flessibili. Il postmoderno infatti abbandona la durezza dell’hardware, la macchina ancora novecentesca, per la liquidità del software.
Inoltre, che la donna non sia un bersaglio come gli altri, lo dimostra il fatto che il killer accetti di bere con lei un bicchierino di whisky. Come non bastasse, la sequenza è girata in un locale notturno, illuminato esattamente come il Sonata Cafè nel kubrickiano Eyes Wide Shut, ossia con le sfere luminose sui tavolini a fare luce dal basso sui volti dei personaggi. In quella scena il pianista (Todd Field, il futuro regista di Tar) è l’evidente doppio diabolico del dottor Harford (Tom Cruise).
Ancora kubrickiano è l’attore Arliss Howard, interprete del soldato “Cowboy” in Full Metal Jacket, qui nei panni del “cliente”, ossia del miliardario che aveva inizialmente ordinato l’eliminazione di quel bersaglio che il protagonista stesso avrebbe poi mancato. Di fronte alla pistola spianata del killer, costui spiega di non aver mai ordinato davvero la sua uccisione, ma di aver soltanto acconsentito alla procedura secondo la quale chi fallisce una missione deve essere eliminato a propria volta.
Dopo minacce generiche, il killer abbassa la pistola e si allontana. Circuito chiuso? Non sembrerebbe. Mai guardarsi indietro, ripete il monologo interiore, in una sequenza finale in cui il protagonista, in primo piano, tradisce un riflesso automatico del volto: anche lui, in fondo, è un uomo-massa, come tutti, che vuole illudersi di essere se non migliore, almeno non peggiore degli altri. Il meccanismo, infatti, come i numeri che il protagonista snocciola all’inizio nell’ossessione di calcolare in percentuale tutto l’esistente, è infinito, e non conosce sbocchi. Nemmeno comprende se stesso, altrimenti presupporrebbe un passaggio dialettico oltre l’infinito.
The Killer, forse il film più teorico di David Fincher (il capolavoro rimane Zodiac, altra rivisitazione della serialità criminale), è composto di immagini dentro cui si ha l’ambizione di addensare tutto l’infinito del cinema. Immagini lucide, levigate, più tattili che visive (sarebbe piaciuto a Walter Benjamin?), che se le tocchi le sporchi, e devi quindi soltanto sfiorarle. Come un qualsiasi touch-screen, palpeggiato appena, apre quindi finestre infinite. Affiorano non solo Kubrick, ma Elia Kazan (il locale simil Sonata Café si chiama Waterfront, ossia Fronte del porto, chissà forse per il tema del tradimento), il cinema coreano, Kurosawa e Mizoguchi, ovviamente Orson Welles, e poi tutto James Bond (citato da un personaggio), il cinema Marvel ma imploso e compresso, l’esistenza come mondo parallelo di David Lynch, il Coppola di Apocalypse Now citato nel primo piano sdraiato a testa in giù del protagonista, e si potrebbe ininterrottamente continuare.
Più che il celebre tutti i film sono stati fatti, il postmoderno di Fincher sembra riguardare piuttosto tutto il cinema è stato finalmente compreso. Parafrasando Guy Debord, verrebbe allora da dire, il cinema ha raggiunto un tale grado di accumulazione da diventare immagine. Finalmente, allora. Il cinema è infine arrivato a comprendere se stesso, e diventare ciò che è, ossia immagine. Ma la dialettica gli è parimenti preclusa, e oltre non può andare.
Turismo automatico dunque, attraverso tutti i film e gli autori che vengono compresi e compressi perché, come recita il metodo infinito, la citazione va bene, ma mai guardarsi indietro; perché la suspence piace, ma non l’empatia che ostacola l’azione; perché non deve darsi alcuna improvvisazione sperimentale ma soltanto il cinema che è stato, che è e sempre sarà. All’infinito, ma non oltre l’infinito.
Capito, bambini? Se nella cultura della modernità vige per esempio ancora l’eroe, che fa della propria esistenza un esperimento basato sul coraggio, nella post-modernità, invece, non si trovano mai, gli eroi, soltanto elementi più o meno capaci, turisti automatici del circuito infinito del mondo/cinema, ligi e grigi ai principi base di un metodo, che non è quello dell’esistere, ma del sopravvivere. Come tutti.