Segnocinema: la fine di una rivista e il silenzio della critica
Segnocinema è una rivista di studi cinematografici, all’inizio trimestrale, poi bimestrale, nata nel 1981, e chiusa nel 2023, dopo 240 numeri esatti.
Chi scrive è entrato tra i collaboratori nel 1990. Spedii un commento sul film Un lupo mannaro americano a Londra: la lettera fu pubblicata, e qualche tempo dopo il caporedattore, Mario Calderale, mi telefonò. Con elegante spirito investigativo, durante la conversazione, egli raccolse le necessarie informazioni: cosa ne pensassi in generale del cinema, quali film mi piacevano, che studi gradissi coltivare. Iniziò così un rapporto, culturale e umano, durato fino al 2023. Come ripete volentieri Gianni Canova, altra firma della rivista, Calderale ha tenuto a battesimo un’intera generazione di critici, che proprio su Segnocinema ha iniziato a scrivere. Da Alberto Pezzotta a Paolo Cherchi Usai, da Roy Menarini a Roberto Chiesi, da Marcello Garofalo a Aldo Fittante, da Enrico Terrone a Domenico Monetti, e mi scuso con chi per mancanza di spazio non viene menzionato.
Mario telefonava a ciascuno di noi, il sabato pomeriggio o la domenica mattina, e insieme si tesseva il filo che ci legava alla rivista. Mario Calderale, infatti, era la rivista. Ben presto, gli altri due cofondatori, Massimo Manduzio e Paolo Madron, optarono per ulteriori destinazioni, che nulla avevano a che fare col cinema. Mario rimase unico timoniere e capitano del battello. E il ruolo gli si addiceva perfettamente.
La rivista, materialmente, si faceva a Vicenza, utilizzando le risorse del locale Cineforum, che consentivano a volte anche un piccolo rimborso spese per chi collaborava. Anche se a Bergamo già si stampava Cineforum, che dall'ispirazione cattolica degli inizi aveva virato a sinistra nel corso degli anni '70, io amavo comunque chiamare Mario il “Kubrick del Triveneto”, per l’instancabile dedizione alle sorti della rivista, impegno che non conosceva pause o soste, né estati né inverni: quando trovai il coraggio di dirglielo, egli tradì una pacata passeggera soddisfazione.
La parola chiave, oltre a cinema, naturalmente, è segno. Sono gli anni della consacrazione della semiotica: Francesco Casetti è stato lo studioso che più e meglio di altri è riuscito a estenderne i principi al cinema. Il numero 1 della rivista, autunno 1981, presentava un dossier dal titolo inequivocabile, Critica e critica: prova di identità, con interventi, fra gli altri, di Enrico Ghezzi, Morando Morandini e dello stesso Casetti.
L’ambizione era chiara: coniugare critica e teoria, metodo e interpretazione, senza tuttavia pesantezze accademiche, fardelli ideologici o crucci scientifici. Su Segnocinema, uno dei compiti attribuiti alla critica era quello di liberare la teoria dall’ossessione di fare sistema a tutti i costi. La critica cinematografica poteva accogliere così gli spunti della teoria, sganciandoli dalla pura speculazione, per lanciarli nel campo aperto del giudizio critico sul singolo film. Anche per questo, la rivista era obbligata, molto volentieri, a rimanere al di fuori delle lobby universitarie e delle congreghe ultracinefile.
Mario in questo era bravissimo. Fiutava subito, al telefono, se chi si offriva di collaborare fosse animato da secondi fini: per esempio strumentalizzare la collaborazione, celare obiettivi e scopi che nulla avevano a che fare con la rivista, il solo e unico riferimento per l’attività di ciascuno. Segnocinema pagò caro tale atteggiamento: tutti la leggevano, ma pochissimi la citavano. Non facendo parte degli “ambienti”, gli ambienti si attrezzavano di conseguenza.
Il modello di Segnocinema era evidentemente una pubblicazione francese, che ancora oggi gode di ottima salute: Positif, dalla struttura molto simile, gli avversari degli storici Cahiers du Cinéma, la celeberrima testata dove Truffaut e Godard iniziarono la loro storia in veste di critici.
In Italia, il ruolo dei Cahiers era virtualmente occupato da Filmcritica, governata da Edoardo Bruno, rivista di ispirazione rosselliniana, covo dei cinefili più intransigenti e agguerriti. Tra le altre testate, Cinemasessanta, diretta da Mino Argentieri, era vicina alle posizioni del PCI, mentre Cinema nuovo, al cui comando risiedeva uno dei padri storici degli studi cinematografici italiani, Guido Aristarco, si poneva alla sinistra di tutto e di tutti.
Segnocinema fu l’ultima arrivata, già fuori dai posizionamenti ideologici. Con una punta di disprezzo, subì l’etichetta di pubblicazione evidentemente postmoderna, ovvero non impegnata, priva di una linea politico-culturale definita. Mi capitò una volta, conversando con amici e colleghi, di ammettere come «il numero successivo della rivista si facesse come se il precedente non fosse mai esistito». Il che era vero: ma ciò costituiva la forza, non il limite.
Segnocinema infatti non lasciava il minimo spazio ai solletichi o compiacimenti dei suoi collaboratori. La pagina non rilanciava l’immagine ideologica del critico, se mai la connetteva indissolubilmente al testo scritto e pubblicato, escludendo qualsiasi involucro identitario preesistente. il pezzo appena scritto era così integralmente consegnato al proprio destino: il prossimo pezzo avrebbe dovuto essere pensato e vergato come se il precedente non fosse mai esistito. Niente linee o traiettorie editoriali, piuttosto isole di critica nel bacino della teoria.
Rispetto alle testate storiche precedentemente citate, noi di Segno eravamo sciolti da qualsiasi giuramento. Eravamo una sorta di trait d’union fra le ideologie politiche e cinefile del passato, le nascenti fanzines che esaltavano i generi cinematografici bassi fino a celebrare l’estetica del trash, e infine la critica in video di Enrico Ghezzi, un flusso fuori sincrono e fuori orario che riscriveva il cinema prima ancora che il cinema potesse davvero mostrarsi. Come tutte le strutture di passaggio, collegavamo il di qua con il di là, ma non eravamo davvero né di qua né di là. Un limite? Al contrario, questo essere tra costituiva il nostro orizzonte, la nostra libertà, la nostra forza.
Come Positif, la griglia di Segnocinema, dal numero 1 al 240, rimase quasi intatta: sezione Saggi e interventi, ossia scritti di un certo peso e lunghezza di critica e teoria del cinema; un dossier, chiamato volentieri Speciale, in mano a un curatore diverso, in cui sviscerare un tema specifico attraverso punti di vista vari e articolati; la rubrica Segnofilm, ossia le schede critiche dei film in sala; Festival e rassegne, panoramica sulle manifestazioni festivaliere più importanti, e infine la sezione chiamata Rubriche, dove trovavano posto, a cura di chi intendeva farsene carico, informazioni e riflessioni sulla musica per film, la televisione, i new media, i libri e le pubblicazioni di cinema. Fino al gran finale, Star Wars, la pagina che veniva letta prima di tutte le altre, ossia le stellette assegnate ai film da parte di tutti i collaboratori.
Nel numero di novembre-dicembre 1990, nella sezione Saggi e interventi, pezzo d’apertura, Gianni Canova pubblica Contro la cinefilia. Liberi dalla critica. È il primo di una serie di interventi sulla questione della critica cinematografica: certamente l’ultimo grande dibattito riguardante la critica del cinema avvenuto in Italia. Canova, in particolare, metteva in guardia contro quei critici che esaltavano la cocciuta apologia dei metodi, la regola ferrea dei percorsi obbligati, smarrendo così l’oggetto base del discorso, ovvero il cinema e il film.
Marcello Walter Bruno, purtroppo recentemente scomparso, aveva appena lanciato proprio su Segnocinema un concetto che avrebbe conosciuto una certa fortuna: il metacinema. Già Franca Angelini aveva proposto di sostituire negli studi pirandelliani la celebre formula del teatro nel teatro con quella secondo lei più pregnante di metateatro.
Se il metateatro di Pirandello era la presa d’atto dell’estensione dei meccanismi teatrali alle strutture antropologiche e sociali tipiche della crisi della borghesia, il metacinema di Bruno era quel cinema che non si accontenta di costruire un mondo, ma aspira senza mediazioni ad essere il mondo. Il cinema come linguaggio per un mondo ormai votato a soffocare nelle spirali della simulazione (Baudrillard), posta in gioco del senso e del destino, che non lascia nulla e nessuno al di fuori dei propri confini.
Canova ribatteva difendendo invece un cinema che continuasse ad essere «emozione nel vissuto di chi l’ha visto, e sogna di rivederlo, o ripudia il fatto di averlo visto, ricominciando a separare il cinema dal mondo. Per vedere meglio nell’uno e nell’altro».
Il confronto così oscillava tra un cinema che distinguesse il mondo dai propri specchi, e un cinema che accettasse la sfida e facesse tutt’uno con lo specchio.
Molti altri, compreso chi scrive, intervennero e contribuirono al dibattito. Vista da oggi, la disputa fu l’ultimo momento in cui ancora fu possibile lavorare su una coppia di concetti che ormai godono di scarsa fortuna. I concetti del cinema e del film. Che fanno tutt’uno con la coppia precedentemente citata, la critica e la teoria.
Se la critica riguarda il film, allora la teoria pertiene al cinema. Su Segnocinema si lavorava in tale direzione: concepire l’analisi critica del film, allo scopo di individuare al suo interno il nucleo teorico del cinema. L’oggetto dell’analisi, un puro costrutto culturale, era così il film teorico. Quel film che conteneva nella propria struttura un grumo di teoria del cinema capace di vibrare gli specchi, scuotere le simulazioni, riconsegnare un po’ di mondo al mondo.
Come ha chiarito Pietro Bianchi qui su Doppiozero, oggi non esiste alcun dibattito che riguardi la struttura e le funzioni delle immagini. Le immagini sono accettate e accolte e non fanno problema. Non ci sono allora cinema e film, ma solo audiovisivi. Senza cinema e film, però, nessuna teoria o critica. Senza teoria e critica, soltanto esperienze, o meglio empatie, sulle quali inanellare impressioni e narrazioni. Nel regno delle empatie, le riviste o sono accademiche, oppure bollettini che prima informano, e poi raccontano la storia di quella informazione.
Eppure, le occasioni non mancherebbero. Film teorici, ce ne sono ancora. Oppenheimer, di Christopher Nolan, è tra questi, tanto che l’autore intende subito porci sull’avviso. Il film si compone infatti del montaggio parallelo di due macrosequenze, una a colori e l’altra in bianco e nero. All’inizio di quella a colori, compare la scritta Fissione, e all’inizio di quella in bianco e nero, appare la scritta Fusione. La prima racconta il Manhattan Project, la costruzione dell’atomica da sganciare sul Giappone, la seconda il processo a Oppenheimer per spionaggio e l’intenzione di procedere con la sperimentazione della bomba all’idrogeno. Come spiega anche un personaggio nel film, per far detonare la potentissima bomba all’idrogeno è necessario un piccolo innesco nucleare. Per produrre la fusione, così, ci vuole la fissione. La forma filmica riproduce il dato scientifico. La macrosequenza a colori, il racconto della fissione nucleare, innesca la macrosequenza in bianco e nero, la fusione all’idrogeno, e il relativo processo-bomba contro Oppenheimer. Il nucleo teorico cinematografico della forma filmica è così reso esplicito. Il film fornisce le istruzioni per l’uso. Bisogna leggerle e applicarle. Cinema e film sono la stessa cosa.
Nel caso di Killers of the Flower Moon, invece, non ci sono istruzioni per l’uso. Il nucleo teorico del film risiede nella sequenza finale in cui sviluppo e esito della vicenda sono affidati a una seduta radiofonica dove si mette in scena con voci e suoni ciò che accadde dopo la conclusione del film stesso. In precedenza, intere sequenze di cinema muto, siamo negli anni ’10 e ’20 del Novecento, hanno punteggiato il racconto. Scorsese ribadisce pertanto come l’America concepisca la Storia esclusivamente in termini di Spettacolo. E ciò che non fa Spettacolo, per gli americani, diventa ciò che non è mai accaduto. L’artista ha allora il compito di nutrire la memoria della verità storica, fondendola sempre con i trucchi dello spettacolo. Lo spettatore è dunque chiamato a muoversi nell’intercapedine, densa e sottile, tra la realtà e la sua riproduzione. Cinema e film non sono la stessa cosa.
Nolan, cineasta postmoderno, presenta allo spettatore un progetto, con tanto di manuale d’uso annesso al film. Scorsese, regista ancorato alla modernità, propone invece un esperimento, una riproduzione meticolosa delle strutture cinematografiche nel contesto di un film che le mette continuamente alla prova.
Nolan e Scorsese, ciascuno a proprio modo, lavorano comunque su purissimi segni-cinema, dove la critica può incontrare quella teoria, che solo attraverso la critica stessa può sostenere il proprio peso. Oggi, si aspira soltanto alla leggerezza: l’empatia del racconto audiovisivo, monoblocco o seriale, che può e deve solo essere riferita. L’unico discorso critico possibile adesso è proprio quello dei riferimenti, ripetuti e continuati, come tanti link formicolanti, dati puramente narrativi che si rincorrono l’un l’altro. L’unica autorità riconosciuta è infatti quella dello storytelling, al di qua di ogni critica o possibile teoria.
Agli inizi del 2023, la fine della rivista chiamata Segnocinema coincide con la improvvisa e dolorosa scomparsa del suo timoniere, Mario Calderale. La creatura, giustamente, non ha saputo, o voluto, resistere all’assenza del suo creatore. Alla morte della rivista, noi, qui e ora, abbiamo inteso aggiungere solo una coda, ossia la sua trasfigurazione, almeno, nel ricordo, critico, di chi un poco l’ha vissuta.