La cella e il territorio

29 Marzo 2012

Da alcuni mesi ho avviato, alla Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano, un laboratorio di progettazione che affronta e cerca di sovrapporre due temi apparentemente distanti.

Si tratta di due delle tante emergenze del territorio italiano, due emergenze che individuano spazi e soggetti che più diversi non potrebbero essere.

Da un lato la questione delle carceri, del loro stato drammatico in termini di sovraffollamento e di grave degrado edilizio e, dall’altro, il tema dello spopolamento dei territori “marginali”, ovvero la presenza nel paesaggio italiano di una nuova figura della dismissione che è il borgo abbandonato e il conseguente degrado dei territori contigui.

I due insiemi sono ovviamente eterogenei: un arcipelago di circa duecento complessi carcerari distribuiti in tutta la penisola, generalmente fatiscenti, sovraffollati (68.000 detenuti con 44.000 posti di capienza), serviti da un organico sottodimensionato; un altro arcipelago, meno noto e appariscente, formato da oltre trecento borghi abbandonati dalla popolazione, al centro di territori spesso anch’essi abbandonati dal lavoro e dalle pratiche di cura, a causa di una dinamica che vede oggi una repentina accelerazione di un processo storico di “discesa a valle”. È l’Appennino il grande scenario di questo arcipelago, ma borghi abbandonati si trovano anche sulle Prealpi padane così come nel cuore della Sardegna o della Sicilia.

 

Sovrapporre problemi e risorse appare oggi una condizione obbligata per risolvere alcune questioni relative all’adeguamento dell’infrastruttura pubblica italiana. In questi giorni il governo ha avviato un programma di costruzione di nuove carceri – messo a punto dal ministro Alfano nello scorso governo – che prevede la costruzione di 11 nuove carceri e 20 padiglioni da aggiungere alle carceri esistenti, con un investimento di circa 700 milioni di euro. Il programma proroga in sostanza un modello di carcere che è quello costruito negli ultimi anni, grandi strutture ingombranti che impattano fortemente sulla città e il territorio.

“La cella e il territorio” è un tentativo di immaginare il carcere come un modello di intervento e di recupero ambientale, con almeno tre obiettivi.

Il primo è quello di immaginare un nuovo modello carcerario. Il carcere è, tra i manufatti urbani, quello che vede una più lenta evoluzione. Dai tempi della “Nascita della prigione” sono tre o quattro i modelli carcerari che si ripetono. Il modificarsi della città e della società attorno al carcere, non sembrano aver prodotto significative riflessioni attorno all’idea che l’edificio del carcere possa anch’esso mutare e adattarsi a nuove esigenze.

In secondo luogo, si tratta di una strategia che, oltre al recupero del patrimonio edilizio dismesso del borgo, ha come elemento di interesse pubblico quello di mettere in gioco la possibilità di un recupero ambientale e territoriale. Un borgo fantasma comporta l’abbandono della cura degli argini e dei terrazzamenti, del taglio del bosco, della coltivazione della terra. In altre parole della manutenzione ordinaria del capitale fisso sociale che ha disegnato e dato forma a uno dei paesaggi maggiormente antropizzati sulla terra. E questo abbandono lo sperimentiamo tutti, da vicino, quando l’equilibrio idrogeologico salta e le nostre città sono colpite improvvisamente, come è successo a Genova alcuni mesi fa.

In terzo luogo, un eventuale processo inverso di nuova urbanizzazione di un borgo abbandonato avrebbe un potenziale effetto positivo sulla rete dei borghi vicini, candidati prossimi all’abbandono e quindi a un avanzare del degrado del territorio. Il carcere è un’“economia”, le comunità di detenuti (da 100 a 120) che stiamo immaginando di collocare nei borghi porterebbero con sé un nucleo di agenti di polizia penitenziaria (da 40 a 50) e una serie di flussi indotti di altre figure (educatori, medici, volontari) che farebbe capo al nuovo borgo-carcere e potrebbe stimolare una nuova domanda abitativa nei borghi vicini.

 

Ma al di là di questi tre obiettivi, il lavoro intende esplorare soprattutto una scala di intervento architettonico che possa tornare a misurarsi con alcune grandi questioni a livello territoriale. E questo tentativo si sviluppa entro un quadro recente che vede la scarsità di risorse pubbliche come un orizzonte abbastanza certo dei prossimi anni.

Il fatto che “non ci sono i soldi”, paradossalmente, potrebbe essere un vantaggio. Se i soldi ci fossero, il Piano Carceri attualmente in discussione potrebbe essere realizzato molto velocemente e il giudizio sulle ultime realizzazioni carcerarie in Italia è spesso negativo sia dal punto di vista dell’abitabilità interna, sia dal punto di vista dell’impatto sul territorio, con rilevanti effetti di consumo di suolo. Inoltre, da più parti, si osserva come la riduzione dell’intervento sul sociale comporti una sempre maggiore pressione sulle carceri. Oggi in carcere ci sono persone che, in un diverso stato sociale, sarebbero seguite, curate, assistite attraverso altre reti di supporto. Avere più carceri tradizionali, in questa situazione, potrebbe voler dire avere anche più carcerati.

 

 

Le due “emergenze” che il nostro lavoro sta provando a sovrapporre, appaiono per altri versi come due sensori del cambiamento in atto.

Da un lato l’inerzia del settore pubblico, che sta portando a un diffuso degrado delle nostre infrastrutture collettive (le scuole, gli ospedali, le carceri, per arrivare alla gestione e alla manutenzione degli spazi pubblici).

Dall’altro, il contrarsi del territorio in una nuova forma centripeta, che vede il ritorno di una forte attrattiva dei centri urbani medi e grandi, una stasi della crescita dei centri sotto i 30.000 abitanti e che ha, nei borghi abbandonati, un segnale chiaro ed estremo, una forma caricaturale di un fenomeno più generale che troppo spesso viene sottovalutato.

Attualmente infatti, il recupero dei borghi ha stimolato pochi e sparuti interventi di natura privata, orientati alla trasformazione del borgo in luogo suggestivo e turistico, sede di eventi e di folklore, in una rappresentazione del tutto illusoria e artefatta che mira a un recupero edilizio-immobiliare ma non ha nessuna capacità né ambizione di ricostituire il senso del borgo all’interno di un territorio ampio, quello di nucleo da cui irradiava la cura e il lavoro che quel territorio manteneva e disegnava continuamente. Inoltre, se pure alcuni di questi borghi trasformati rappresentano un parziale e apprezzabile successo, quello della trasformazione turistica non sembra un modello a misura del problema: i 300 borghi attualmente abbandonati raddoppieranno nei prossimi anni (“Rapporto sull’Italia del disagio insediativo 1996-2016. Eccellenze e Ghost Town nell’Italia dei piccoli comuni” a cura di Serrico/Gruppo Cresme, promosso da Confcommercio e Legambiente, 2008).

“La cella e il territorio” è un’ipotesi estrema ma non irrealistica, o piuttosto, è la situazione generale che rende credibile soluzioni inventive.

 

Non tutti i borghi si prestano ovviamente. L’elemento di una chiara e facile accessibilità rimane un aspetto da verificare con attenzione. I borghi carcere sono satelliti di un sistema territoriale (di solito di scala provinciale) che vede nei presidi del tribunale e delle carceri tradizionali gli elementi di riferimento. È su questa triangolazione che bisogna verificare la loro accessibilità.

Il lavoro che stiamo compiendo attorno ai borghi mira a massimizzare il recupero delle strutture esistenti ridefinendo il borgo secondo areali successivi che, dal centro verso l’esterno, ospitano le celle e i servizi carcerari, le strutture di servizio miste (aperte al carcere e al territorio) come il presidio sanitario o i luoghi per l’accoglienza e, infine, un settore più esterno dove coinvolgere risorse private per strutture imprenditoriali di servizio.

La natura circoscrizionale del carcere può essere perseguita esaltando alcuni caratteri del borgo (presenza di mura, localizzazione sui rilievi) e può essere integrata dalla sperimentazione del braccialetto elettronico che, nelle carceri italiane, non è ancora utilizzato (ho discusso queste ipotesi con l’Ing. Sergio Minotti del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Milano. L’attenzione del Provveditorato Regionale è stata fondamentale nel definire l’ambito del lavoro che stiamo svolgendo).

L’edilizia del borgo è solitamente un’edilizia premoderna, difficilmente si trovano strutture in acciaio o in cemento armato. Prevale la costruzione in pietra, che è in genere in buone condizioni.

Avremmo carceri in classe A a costo zero.

 

Attorno, il territorio abbandonato sarà il campo dell’attività quotidiana – volontaria, il borgo carcere è un patto tra il detenuto, la magistratura e l’amministrazione penitenziaria – dei reclusi, il luogo dove il senso di un lavoro sociale potrà essere riconosciuto come un grande progetto di recupero del territorio abbandonato.

L’ipotesi che stiamo perseguendo è che la dimensione urbana e ambientale del borgo possano essere una esplicita e radicale alternativa a una pena che, oggi, vede i detenuti costretti anche 22 ore al giorno in una cella sovraffollata.

L’innovazione, nel territorio italiano, può darsi solo a partire dal riconoscimento di alcune matrici storiche che devono essere reimmesse nel flusso del valore e dell’interesse pubblico. Il carcere è, più di quanto siamo disposti a credere, un progetto che ci riguarda, dove un’idea di società e di collettività prende forma e si delinea.

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