La mia estate con Knausgård e Ernaux

8 Luglio 2015

L’estate un tempo era lo spazio dedicato della lettura. Liberi dagli impegni scolastici, o da quelli lavorativi, durante i mesi estivi ci si dedicava, almeno da ragazzi, alla lettura di volumoni. Era il tempo per i classici o per quei libri che durante il resto dell’anno si mettevano via con il buon proposito: Questo lo leggo d’estate! Cosa leggono oggi le scrittrici e gli scrittori in vacanza? Lo abbiamo chiesto ad alcuni di loro: un diario in anticipo delle letture che riempiranno i prossimi due mesi. O promesse di lettura. Come e perché. E persino dove. Leggere come una passione intramontabile. Non tutti gli scrittori scrivono d’estate. Alcuni leggono.

 

 

 

Sarà la mia estate con Karl Ove Knausgård, l’autore norvegese che ha fatto a brandelli la propria esistenza in sei volumi di confessioni intime. È un inno alla prima persona singolare e alla mercificazione del privato. Ecco la potenza e allo stesso tempo il sospetto: Knausgård scrive di sé, così di sé, perché non ha storie. È un Io da spulciare con diffidenza e desiderio: può essere infinitamente noioso, può essere infinitamente avvincente. C’è una terza via: la noia avvincente. È un miracolo narrativo che riesce a talenti obliqui che impastano l’ovvio e sfornano lo straordinario. L’estate è la stagione migliore per questi funambolismi di lettore: la testa è più sgombra, e rifiorisce un senso di possibilità nel farsi stupire. In estate come lettore giudico meno, sarà che sono riminese e i riminesi l’estate coltivano l’avventura. Ma mai lo sbadiglio.

 

Di Knausgård avevo letto alcune critiche ottime sui giornali esteri, sono andato in libreria per spulciare il primo volume, La morte del padre: mi ha convinto il passo in cui l’autore scrive della sua situazione di scrittore. È notte, i tre figli dormono e anche la moglie dorme, lui dichiara che quel giorno è il 27 di febbraio 2008 e mentre scrive sente che l’impegno famigliare gli sta mangiando quello letterario. Riordinare casa, preparare la cena ai figli, portarli a scuola, affannarsi con le bollette, mantenere un grado di accudimento decente, come può, tutto questo, non ledere l’assalto narrativo? Ecco la domanda a tratti patetica, totalmente convincente se letta sotto l’ombrellone o in montagna o in una città estera quando il cervello è pronto a rivoluzioni assolute. Quando, sotto sotto, ogni ammutinamento risulta profondamente liberatorio: la bella stagione regge questa promessa di indipendenza.

 

Così mi sono comprato La morte del padre e Un uomo innamorato, circa mille pagine in due. Un po’ scomodo da portare, geniale nel caso risultasse un bel libro per la monogamia a cui costringerebbe (sono fedele, sì): verrà con me in Giappone, il tratto nordico di Knausgård potrebbe legarsi bene con la misura del Sol Levante e con il mio misero spazio in valigia (viaggio leggero). Quest’ultima condizione alza il rischio: se la noia prevaricherà la confessione norvegese, sono pressoché spacciato: mi rifiuto di avere un Kindle per ovviare a scelte narrative sbagliate, ma ho con me un piano di scorta. Scegliere libri timidi che annullino l’ego di Knausgård: Il posto e Gli anni, entrambi di Annie Ernaux. Anche qui due opere di uno stesso autore, questa volta francese e sussurrato: la storia di un padre senza artifici. Per come è stata, per come si è depositata in una figlia. L’esperienza mi ha fatto capire che i libri timidi premiano anche nella noia, come un compagno di vacanza che non è esaltante, ma che non impone ritmi, orari, preferenze despote. Non risplende, ma non oscura. Se invece colpisce nella pacatezza, avvera il miglior sodalizio: qualsiasi estate sia, la ricorderemo per quel libro cheto e profondamente compagno.

 

Mi era accaduto con Stoner, di John Williams, ero in Grecia e oltre al mare ricordo il silenzio incastonato in questo libro muto e dirompente. Era successo lo stesso miracolo a sedici anni, quando mi sentivo ancora un non-lettore convinto: quell’anno la professoressa Bagli aveva imposto due libri per le vacanze, Il deserto dei Tartari e Fontamara. Pensai di arrangiarmi come sempre, facendomeli raccontare da qualche mio compagno di scuola e leggendo solo i capitoli decisivi. Oppure guardandomi i film, se li avevano tratti. Invece quell’anno presi una broncopolmonite e rimasi a letto un mese. Alla televisione davano film di Ciccio Ingrassia e Franco Franchi e io una sera aprii questo libro con il dipinto di un macchiaiolo in copertina. Conobbi così Giovanni Drogo e la sua inettitudine. E l’indignazione dei fontamaresi. Ricordo che mentre leggevo ascoltavo lo schiamazzo allegro dei riminesi in strada, dal ritorno dal mare, o dopo cena, quando si ritrovavano per le vie dell’Ina Casa a mangiare il cocomero e a giocare. Li sentivo e quello non fu più richiamo e mancanza, quello diventò, per la prima volta, schiamazzo.

 

Giovanni Drogo era la mia nuova villeggiatura. Come Fontamara. Come Stoner. Ora confido in Knausgård. E nella Ernaux. Nel caso di delusione mi affido comunque alle parole che un grande scrittore confidò a suo nipote: “Un libro interrotto è un libro letto, o qualcosa di simile”. Lo disse Somerset Maugham. Che dalle sue letture noiose riuscì sempre a spremere stelle filanti. Da quanto ne so, non era riminese.

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