Speciale
Goethe Institut Turin / La morte in piano sequenza
Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero riprende qui un articolo di Alessia Cervini per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.
Missive che arrivano da lontano a porci ancora una volta delle domande sulla violenza e sulla sua messa in immagine: è da qui che dobbiamo partire. Sono numerosissimi i video a firma IS che nelle ultime settimane hanno popolato il web. Fra di essi quelli che mostrano le decapitazioni dei giornalisti James Foley, Steven Sotloff e David Haines costituiscono un corpus unitario e compatto.
Su questi ultimi nello specifico soffermerò la mia attenzione, cercando anzitutto di considerarli parte di una storia che ha avuto inizio più di dieci anni fa, dopo l’attacco alle Torri Gemelle: la storia di una guerra che è passata anche attraverso raffinatissime strategie di comunicazione, di cui peraltro si ravvisano chiarissimi i segni nel corpus organico di video a cui faccio riferimento. In questo senso, una strada di interrogazione possibile è quella che tende a porre i video delle decapitazioni a opera dei terroristi dell’Isis, di volta in volta, in continuità o discontinuità con la lunga sequenza di video, che hanno puntellato regolarmente lo scorso decennio, in cui atroci violenze venivano perpetrate in diretta o invece semplicemente annunciate.
Quale posto occupano allora questi particolari oggetti audiovisivi nella storia del terrorismo mediatico a cui formazioni differenti hanno progressivamente abituato il nemico “occidentale”? Cosa li tiene uniti e cosa invece li distingue da tutti gli altri video dello stesso genere che abbiamo visto nel corso dell’ultimo decennio? A una prima analisi, quelle che emergono soprattutto sono le differenze. È cambiato, infatti, l’emissario del messaggio: non più Al Qaeda, ma il corpo militare dell’Isis. Sono cambiati luogo e location: non più l’Afghanistan, ma la Siria e l’Iraq; non più gli spazi pressoché chiusi nei quali Osama Bin Laden era solito registrare i suoi video, ma quelli senza confini di un non identificato deserto mediorientale.
È cambiato forse addirittura il destinatario di quel messaggio, se è vero, come è vero, che nei video circolati in queste ultime settimane, vittime e carnefici parlano la stessa lingua (un inglese che non ha bisogno di essere tradotto per risultare comprensibile in ogni angolo del mondo). E, d’altro canto, gli autori di questi ultimi video intendono chiarire, fuori da ogni possibile ambiguità, i destinatari dei messaggi registrati. “A message to America” è la scritta bianca che campeggia sullo sfondo nero che precede l’inizio vero e proprio del primo video, quello che mostra la decapitazione di James Foley. E poi ancora, nel video successivo: “A second message to America” e infine, nel terzo video: “A message to the allies of America”.
Se questi incipit sono esplicativi della strategia comunicativa a cui tutti i video realizzati risponderebbero, allora è chiaro che essi sono concepiti, nella volontà dei loro autori, come prodotti destinati a un pubblico “occidentale” e svincolati, almeno nelle intenzioni dichiarate, da usi propagandistici interni come l’arruolamento di nuove braccia armate, a meno che quelle braccia non vadano cercate in America, in Inghilterra e in generale in tutti quei paesi occidentali in cui sono aumentate, negli ultimi tempi, le adesioni alle formazioni terroristiche islamiche. Come che sia, si tratta con ogni evidenza di messaggi destinati a superare i confini già non definiti, né definibili, dello Stato Islamico, che non coincide territorialmente con nessuno degli Stati mediorientali. D’altro canto, tale scavalcamento di confini è reso possibile, quando non addirittura necessario, dal mezzo di comunicazione scelto per garantire diffusione ai messaggi stessi: non più la televisione (e in particolare l’emittente araba Al-Jazeera, che fungeva da mediatrice fra i paesi islamici e quelli occidentali), bensì la rete e tutte le piattaforme con essa compatibili (You Tube, Facebook e Twitter).
Dunque un punto mi pare si possa fissare: quelli che abbiamo di fronte sono prodotti audiovisivi a uso e consumo di spettatori occidentali (assumendo insieme all’aggettivo tutta l’aleatorietà e l’insufficienza del suo significato), senza che ciò ovviamente escluda un uso interno degli stessi prodotti, capaci di rinsaldare le fila dei miliziani islamici. Ci sono altri motivi, forse meno evidenti di quelli già ricordati, che fanno propendere per questa ipotesi; motivi che mettono in gioco il riferimento a un orizzonte iconologico e rappresentativo tutto occidentale, o più precisamente americano, usando il quale gli autori dei video di cui stiamo discutendo possono avere praticamente la certezza di far breccia presso un pubblico “occidentale” (o più precisamente americano).
Il primo di questi elementi è, con ogni evidenza, la tuta arancione indossata dalle vittime in attesa della loro esecuzione che non può non richiamare alla memoria quelle dei detenuti nei penitenziari americani di Abu Ghraib e Guantanamo. Il preciso riferimento semantico, che stabilisce la sovrapponibilità, anzi l’assoluta uguaglianza, dei capi di vestiario utilizzati nelle due diverse situazioni, consente l’apertura di un orizzonte di simbolicità facilmente decifrabile: coloro che erano aguzzini sono diventati, in un gioco di rimandi e rovesciamenti, le vittime in questa recentissima, nuova pagina di una ormai lunga guerra che vede contrapposti il mondo occidentale e quello islamico. Come in ogni “messa in scena” che si rispetti (rientra ovviamente nel lavoro complesso della messa in scena la costruzione del set, la disposizione delle figure nelle spazio e l’individuazione di un punto di ripresa, cose che tutte insieme costituiscono un’inquadratura), la contrapposizione di cui si parla è resa rappresentativamente mediante l’opposizione di due figure, la cui caratterizzazione più evidente è affidata al costume che indossano: un cappello da boia nero la prima, una tuta arancione la seconda, elementi capaci di ergersi a simbolo di dieci anni di conflitti, solo in virtù del processo di mediatizzazione che ne ha permesso l’elaborazione in termini spesso spettacolari.
Già a questo livello, i video di cui parliamo dimostrano dunque di volersi porre in dialogo diretto con una storia che, da politica e militare, si è tinta dei colori una guerra di immagini, perpetrata con le armi di un racconto che gli americani (da quei grandi narratori che sono sempre stati) hanno strutturato, per esempio, nelle forme cinematografiche più classiche e in quelle più recenti e innovative della serialità televisiva (sull'argomento si rimanda ai contributi di W. J. T. Mitchell, Cloning Terror. The war of images. 9/11 to the present, Christian Uva, Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle BR a Al Qaeda e Pierandrea Amato, In posa. Abu Ghraib 10 anni dopo. e alla voce di Pietro Montani).
Basterà far riferimento a una serie di grande successo come Homeland per rendersi conto, fra l’altro, di quanto profetico sia stato quel racconto, dal momento che esso ha saputo per certi versi addirittura anticipare scenari divenuti negli ultimi tempi di estrema attualità: nello specifico i casi numerosi di cittadini occidentali che decidono di abbracciare la causa islamica e di arruolarsi fra le fila di formazioni armate come quella dell’Isis. In linea con tutte quelle posizioni teoriche che, negli ultimi decenni, hanno parlato di progressiva sparizione o virtualizzazione del mondo, in favore di una realtà sempre meno tangibile e afferrabile (come intangibile e inafferrabile è lo spazio del web), l’esempio qui riportato (solo uno fra tutti i possibili) non fa altro che confermare almeno una certa predominanza del racconto che ha lavorato, in molti casi, come mezzo di vero e proprio occultamento di una violenza “reale”, quella che gli Stati Uniti hanno combattuto lontano dai propri confini.
Della potenza di quel racconto gli autori dei video in esame sembrano essere assolutamente consapevoli, tanto da arrivare a costruire la sequenza dei tre documenti secondo lo schema riconoscibile di una narrazione seriale, in cui la fine della prima micro-narrazione funge da anticipazione a quella che segue, mostrando agli spettatori il volto della seconda (poi della terza) vittima designata. Ma se tutto questo è vero, e i video di cui parliamo avanzano con ogni evidenza la pretesa di inserirsi all’interno del sistema comunicativo e mediatico occidentale, di cui dimostrano di conoscere regole e funzionamento (in questo senso non è indifferente che le vittime dell’azione terroristica messa in atto siano giornalisti), è allo stesso modo vero che il meccanismo stesso di quel sistema è invertito di segno, per il tramite della riattivazione di un commercio fra immagini e realtà, che sembra essere – al di là di ogni altra possibile considerazione – il tratto distintivo e connotante di questi video.
Così, fuoriuscendo dal regime di messa in scena su cui pure si reggono, i video in questione tornano a far riferimento, in maniera indiscutibile, a un piano di realtà pressoché incontrovertibile. La tuta arancione della vittima sacrificale, dopo essere diventata quintessenza di quel circolo mediatico che ne ha consentito la simbolizzazione, torna a essere semplicemente segno delle atrocità commesse dai militari americani nei penitenziari di Abu Ghraib e Guantanamo, e la violenza mostrata, lungi dal poter essere considerata semplicemente come “rappresentazione della violenza”, ricomincia a essere violenza “reale”.
Ancora assolutamente padroni del mezzo che utilizzano, gli autori di questi video sanno che c’è un solo modo per rendere incrollabile, e dunque indubitabile, il rapporto fra un’immagine audiovisiva e lo spicchio di mondo a cui essa si riferisce, quando ha l’ambizione di elevarsi a “immagine fatto” (l’espressione è di André Bazin , così come baziniano è il problema in discussione): non interrompere con tagli di montaggio quel rapporto e fare in modo che la porzione di “realtà” da restituire dimori tutta in una stessa inquadratura. Perché non si dubiti che quelle teste siano cadute davvero vittima e carnefice devono essere mostrati uno accanto all’altro: uno con la tuta arancione, l’altro con il cappuccio nero; uno con il volto terrorizzato, l’altro con il coltello in mano. È per questo che ciò che ricorderemo di questi video non saranno le parole pronunciate dai due, ma le loro sagome riprese in figura intera, una accanto all’altra, sullo sfondo in un paesaggio senza nome. Quelle sagome sono lo scampolo di realtà che è ancora capace di resistere a ogni possibile tentativo di messa in scena.