La nobile arte di Pippo Civati
C'è un modo di dire che si sente ogni tanto riguardo Pippo Civati e che spiega parecchio del personaggio, anche se non in termini del tutto positivi: "Stare dalla parte di Civati ti fa sentire bene ed è senza conseguenze". Nel senso che Civati rappresenta l'anima più nobile, meno compromessa e meno passatista, della sinistra del Pd. Allo stesso tempo, però, vista la radicalità del suo essere outsider, ci sono ben poche speranze che in tempi brevi Civati debba rendere conto di quanto promette. E questa sensazione rincorre il lettore, ormai disilluso quasi per obbligo, lungo tutte le nobili pagine del suo Qualcuno ci giudicherà (Einaudi, Stile Libero, 2014) libro-manifesto di una possibile politica civatiana uscito per Einaudi: tutto bello, tutto giusto, ma tutto troppo facile detto da chi al momento sembra stare ai margini della discussione politica.
In verità, Pippo Civati è stato avvistato in televisione nei giorni scorsi, in un collegamento con La7 per commentare, ovviamente, lo straordinario 40% ottenuto alle europee dal Pd, partito in cui lui si colloca come "ribelle"; meglio: come battitore libero. E proprio quella percentuale così elevata ha portato alla fatidica domanda: "E adesso come farà a criticare il Partito Democratico di Renzi?".
Il problema non sta tanto nella risposta di Civati (che era all'insegna di qualcosa del tipo "mi riservo comunque il mio diritto di criticare"), ma nella stessa domanda. Per l'ex partner di Renzi ai tempi della prima rottamazione, la questione non è mai stata quali obiettivi perseguire per arrivare al 40%, ma semmai come arrivare al 40% perseguendo determinati obiettivi. Una posizione, quindi, diametralmente opposta rispetto a quella del segretario Pd, che ha sempre puntato tutto sul consenso elettorale non importa come.
Un nobile ideale che Pippo Civati sostiene lungo tutto il suo libro, un pamphlet-manifesto – forse un po' troppo caotico e poco strutturato, ma che alla fine restituisce un'idea di insieme – di quella che dovrebbe essere la politica della sinistra, lontana dalla rincorsa del consenso a tutti i costi, coerente, alta e in grado di lasciarsi alle spalle quella che Civati chiama "la politica dell'occhiolino". Di che si tratta? Il modo migliore per riassumere il concetto è attraverso un esempio: Enrico Letta assume l'incarico di premier e afferma con sicurezza che il suo governo "durerà fino al 2018". Tutti sanno che non è vero, lui per primo, mentre lo dice sta già facendo l'occhiolino. E lo stesso potrebbe dirsi di un Matteo Renzi che afferma prima di non avere “nessuna intenzione di diventare segretario del Pd”, poi di non avere “nessuna intenzione di diventare premier senza passare dal voto” e anche di non avere nessuna intenzione di fare le scarpe a Enrico Letta.
Ecco, questo lato della politica, per cui si fanno promesse in malafede come se nulla fosse, è uno dei principali aspetti messi nel mirino di Civati. Che però, volendo essere malfidenti, sembra fare l'occhiolino al lettore già nella prima riga del libro: "Ogni tanto immagino di vedermi tra vent'anni, quando di certo non sarò più in politica".
Una promessa difficile da mantenere, stando agli innumerevoli esempi di politici di passaggio che non sono mai più usciti dal tunnel, ma una promessa quasi d'obbligo vista la retorica che vuole "il politico di professione" come orco nero dei nostri tempi. E va detto che Civati sembra però essere un politico completamente diverso sia dalla vecchia leva un po' troppo in stile burocrate, sia dalla nuova leva un po' troppo uomo (e donna) immagine. Una originalità che è contemporaneamente la sua forza e la sua debolezza. Forza, perché gli permette di ricavarsi facilmente un suo ruolo; debolezza, perché non gli consente, al momento, di entrare in un giro che gli offra maggiori chance di scalare il partito.
E pensare che solo qualche anno fa le cose erano completamente diverse e Civati un alleato forte ce l'aveva eccome: niente meno che Matteo Renzi. I due, nel 2010, avevano dato vita alla Leopolda, la prima fase della rottamazione, e sembravano destinati a mettere a soqquadro insieme l'ordine costituito del Pd. Che cos'è successo? Perché tutto si è interrotto così bruscamente? "In pochi mesi abbiamo avviato quel progetto, dopo pochi mesi non ci parlavamo più o quasi. [...] È stato un peccato non confrontarci su episodi vissuti con leggerezza: non solo la celebre visita ad Arcore, ma anche la questione di Marchionne con cui stare 'senza se e senza ma', alcune considerazioni sul sindacato, le opinioni sui referendum e altro ancora".
Eccola, quindi, la risposta alla domanda sul perché Renzi e Civati si siano divisi. I due, semplicemente, condividevano la volontà di rinnovare il partito, di creare qualcosa che facesse ripartire la condivisione e la partecipazione in politica attraverso nuovi meccanismi (è lo stesso Civati a paragonare il partito che ha in mente a un social network), che guardasse al futuro invece che ripiegarsi su ciò che è stato e ormai non funziona più. Questo era ciò che li accomunava, le posizioni politiche li hanno invece divisi (senza contare che è difficile immaginare Renzi che divide la gloria con qualcun altro).
Niente di cui stupirsi, se si pensa alla provenienza politica di Matteo Renzi (Dc/Margherita) e a quella di Pippo Civati (Pci/Ds). Provenienze che hanno portato – non che fosse obbligatorio – a due approdi diametralmente opposti, che vengono così riassunti nel libro: "[Il mio obiettivo è] tenere uniti due elementi che considero fondamentali: la sinistra e l'idea di andare al governo. Che per me devono stare insieme, necessariamente. Mentre da qualche tempo c'è molto governo e poca, pochissima sinistra".
Da una parte un governo che si dovrà formare a partire dalla sinistra, dall'altra una sinistra disposta a tutto pur di andare al governo. È evidente che le due anime sono inconciliabili, e che dopo la strabordante vittoria del Pd alle elezioni europee diventa molto più difficile pensare che in tempi brevi si possa "cambiare verso" al partito guidato da Matteo Renzi.
Ma qual è, con maggiore precisione, il "verso" di Pippo Civati? Quale sarebbe la direzione che imprimerebbe al partito? Per capirlo si può fare un passo indietro, alle primarie per la segreteria del 2013 a cui hanno partecipato Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e, appunto, Pippo Civati. In quelle primarie è parso che per il Pd ci fosse una sola alternativa, tra un'idea di partito tutta ripiegata verso il passato, anche in termini di politiche da attuare, e un'idea di partito proiettata verso il futuro, anche e visibilmente in termini di marketing e comunicazione. Una posizione di sinistra ortodossa e un'altra che invece di sinistra aveva ben poco (almeno secondo i canoni tradizionali)
In pochi, forse, si sono accorti che in quelle stesse primarie esisteva anche la sintesi delle due diverse correnti, rappresentata da Pippo Civati. In cui è possibile trovare una sinistra che non cede il passo al centrismo, ma che guarda al futuro, sia in termini di comunicazione e marketing politico, sia in termini di valori politici. Una sinistra non più grigia, anzi, e che però allo stesso tempo tenga fede al suo essere di sinistra. Vista così sembra essere la ricetta del successo, e invece Pippo Civati riuscì a farsi superare persino da Gianni Cuperlo, che era l'unico dirigente del partito disposto a farsi immolare sull'altare della sicura vittoria di Matteo Renzi.
Com'è possibile? Da un certo punto di vista, è lo stesso Civati a spiegarlo: "Noi non vogliamo rappresentare la minoranza che guarda al passato. A me, e credo anche a chi mi ha votato alle primarie, piace il futuro. Non chiediamo meno innovazione, ne chiediamo di più. [...] I giornalisti continuavamo a chiedermi chi ci fosse dietro la mia candidatura, come se non fosse possibile, in questo Paese, candidarsi e basta, sulla base delle proprie idee, senza sponsor. [...] I grandi giornali hanno spesso rappresentato la sfida come quella tra un sicuro vincitore, un altrettanto sicuro perdente e il terzo escluso, cioè io: la battuta che ripetevo in quei giorni era che sui giornali la pagina destra era per Renzi, quella sinistra per Cuperlo, poi si girava la pagina e c'era la pubblicità".
Ecco, questo estratto dal lungo capitolo dedicato alle primarie è una sorta di condensato di quelli che sono i punti di forza, i punti nobili ma deboli e i punti da rivedere di Civati, se davvero nel futuro intende riprovare a essere lui l'uomo nuovo del Pd, in grado di riunire attorno a sé l'anima di sinistra del Pd; un'anima che ancora esiste ma che non avrà alcun futuro se continuerà a guardare a Cuperlo e Fassina (tra l'altro quest'ultimo si è fatto tranquillamente immortalare nella foto di gruppo dei vincitori delle europee, tra Maria Elena Boschi e Davide Faraone, incurante del "Fassina chi?" con cui Renzi l'aveva liquidato). Il punto di forza di Civati sta proprio nel fatto che la sua è una sinistra nuova, innovativa, con idee forti ma non novecentesche. Il punto nobile ma debole è il fatto che Civati non ha sponsor, non ha grossi giornali che sostengono la sua corsa, non ha grandi disponibilità economiche, è un vero outsider; e in politica è quasi impossibile farcela partendo da una posizione del genere. Un punto da rivedere è questo suo continuo understatement: che piace, fa sorridere, rende simpatico, ma difficilmente crea l'immagine di un leader. Il massimo di ironia a cui Matteo Renzi si sia mai spinto, per dire, è stata la famosa battuta dopo la sconfitta alle primarie con Bersani: "Finalmente ho fatto una cosa di sinistra, ho perso".
L'insistenza con cui si contrappone Civati a Renzi può risultare fastidiosa, ma non è solo inevitabile, è anche molto presente in "Qualcuno ci giudicherà", a volte esplicitamente, altre in modo implicito. D'altra parte i due, partiti come alleati, sono ormai in totale antitesi: il simpatico e nobile perdente, l'arrogante e spregiudicato vincente. Peccato, perché assieme avrebbero potuto davvero dare vita a qualcosa di importante e innovativo, unendo la leadership del premier alla capacità di portare la sinistra oltre il recinto del passato del secondo. Che sulla questione ha le idee molto chiare e le esprime nella parte più interessante del suo libro, quella che inizia dal capitolo “Guerra o pace” e mette in scena la policy civatiana, la parte che veramente fa capire perché mai si potrebbe volere, in futuro, appoggiare la corsa alla leadership di un candidato così fuori dagli schemi.
E questo non tanto per l'insistenza sulla legalità, la trasparenza, il "dire le cose come stanno", l'educazione e la correttezza – valori fondamentali a cui Civati si rifà ma che ogni politico (almeno di sinistra) inserisce nei suoi libri – quanto per le proposte più specifiche che mette, magari un po' vagamente, nero su bianco: trasformare l'Italia, anche sfruttando l'Expo, in una superpotenza dell'alimentazione; dare la giusta e rivoluzionaria attenzione al paesaggio e alla bellezza, in contrapposizione alla dispersione urbana; fare investimenti che vadano nella direzione dell'educazione, puntare su una miriade di piccole opere invece che su poche grandi opere. Più in generale, una politica che la smetta con un tatticismo esasperato che porta a continui ribaltamenti di posizione, una politica che ricominci a guardare al lungo termine e che non legga i sondaggi prima di decidere il da farsi, una politica che sappia, come scrive Civati, “giocare d'anticipo” e costruire il futuro, invece di subirlo. In questo modo, quando qualcuno ci giudicherà, le generazioni future a cui il politico dovrebbe sempre guardare, “valuterà quello che abbiamo fatto, ne osserverà le conseguenze”, e magari ci ringrazierà per aver saputo rimettere a posto un paese in cui troppe cose sono ribaltate, in cui “è Anchise a portare sulle spalle Enea mentre la città brucia”, in cui sono i vecchi a garantire la sopravvivenza dei giovani
Alcune di queste cose le ha dette anche Matteo Renzi, alcune delle cose che Matteo Renzi sta facendo (come l'abbassamento degli stipendi ai manager pubblici o l'attenzione all'educazione) le scrive anche Pippo Civati. I due, forse, dovrebbero ricominciare a parlarsi.