La visione del futuro nasce tra i profughi
Mi trovo a Beit Sahour, un villaggio vicino a Bethlehem, in Palestina. Il viaggio per arrivare è avvenuto in modo inaspettatamente ricco. Questa volta ho deciso di arrivare dalla Giordania, via Istanbul. Da Amman, superato il ponte King Hussein, sono arrivato a Jericho dove ha luogo la prassi di confine per l’identificazione e la selezione degli ingressi. Il bagaglio, il corpo, la psiche ai raggi X.
Ad accogliermi, Sandi Hilal e Alessandro Petti, i progettisti e agitatori culturali che movimentano il fenomeno Decolonizing Architecture. Sono loro a curare e dirigere il progetto Campus in Camps, il motivo del mio stare, che a partire dal 16 febbraio offre a 15 giovani palestinesi un percorso formativo di due anni finalizzato a individuare nuovi modelli e processi da mettere in atto per rappresentare e raccontare un’altra visione nel futuro dei Refugee Camp. Nelle aspettative, una delle azioni in grado di portare un miglioramento progressivo della qualità della vita in questi luoghi.
Il sistema di partnership messo in piedi per la sua concretizzazione è composta da attori legittimati e con esperienza sul campo e, soprattutto, ha coinvolto operatori già presenti nel territorio ponendo le basi per un processo sostenibile. Il GIZ sostiene finanziariamente l’operazione, assieme a UNRWA che garantisce l’agenzia di riferimento per i movimenti/operazioni sul campo e la collaborazione tra Al-Quds University – Bard Honors College come piattaforma delle attività formative.
In sostanza si tratta della prima Università al mondo in un campo profughi e come pilota è stato scelto il Dheisheh Camp, uno dei due campi di Bethlehem (l’altro si chiama Aida Camp). I partecipanti, scelti tra i refugee della West Bank come persone dal potenziale emergente, non verranno portati in un luogo già preposto alle attività accademiche, un contesto altro e quindi parzialmente alieno alle dinamiche del campo, perché Campus in Camps sta prendendo vita al centro stesso del Dheisheh, tra le mura di uno spazio per l’infanzia disabitato e ristrutturato proprio in questi giorni.
Non mi dilungo ora a introdurre la nascita dei Refugee Camp palestinesi, sorti dopo la Nakba (il Disastro) del 1947-48. Una realtà che tuttavia andrebbe approfondita per capire appieno il progetto, qui in pochi fondamentali elementi:
- - la Risoluzione n° 194 del Consiglio Generale dell’ONU (1948), sancisce il Right of Return nelle case da cui sono stati cacciati;
- - per decenni i campi profughi sono rimasti tendopoli o baracche, in attesa del Ritorno, trasformatosi sempre più in un mito;
- - il fenomeno del Camp Improvement è recente, ossia l’urbanizzazione e il miglioramento delle condizioni ambientali, sostenuto dall’omonimo Dipartimento dell’UNRWA;
- - ad oggi i profughi registrati sono circa 5 milioni.
Il Dheisheh, qui e ora costituisce sicuramente un’anomalia in questo panorama ed è il motivo per cui è stato scelto, senza dimenticare la relazione e la fiducia che si sono nel tempo costruite tra gli attuali partner di progetto. Un percorso che ha avuto inizio 5 anni fa e che si è accelerato dopo la metà del 2011 con una brillante intuizione. Parte rilevante di questa particolarità deve molto ad un combattivo gruppo di residenti che ha dato vita al centro culturale Al-Feneiq (La Fenice) capace di risorgere dopo 3 demolizioni e rappresentare oggi un luogo di incontro, formazione, condivisione e convivialità non solo per il campo ma per la città di Bethlehem intera.
Un’insegna all’ingresso di Al-Feneiq.
Una conversazione tra gli studenti del corso in Urban Research all’Università Al-Quds cui ho avuto il piacere di assistere, ha sollevato alcuni elementi che vi possono essere utili almeno per meglio soppesare il contesto che si sta affrontando:
- - il miglioramento delle condizioni di vita influenza la percezione sul Diritto al Ritorno… come avvicinarsi al benessere senza normalizzare la propria condizione? Non si viene a perdere così la forza di lottare per il Ritorno facendo forse gli interessi dei sionisti? Questo è un nodo sociale e culturale molto rilevante;
- - eppure chi vuole vivere nella miseria? Non di certo i residenti. Sono casomai i fomentatori ideologici del conflitto a trarre beneficio nel mantenere lo status-quo, perché attraverso la rappresentazione della sofferenza è più semplice rivendicare uno status di vittima e di urgenza;
- - se domani vi fosse la possibilità di tornare, chi realmente compierebbe tale scelta? Quali differenze tra le vecchie e nuove generazioni del campo? E in quale nuovo contesto significherebbe approdare?
- - perché dovrebbero avere questo diritto solo i profughi e non tutti i palestinesi?
- - perché insistere sul diritto al ritorno semplicemente tra le mura domestiche, convivendo con un’evidente negazione anche della libera mobilità, della vita sociale. O semplicemente di andare al mare?
- - perché avere diritto solo a stare in un luogo quindi e non in due contemporaneamente, ad esempio sia a Gerusalemme che al Dheisheh Camp?
È evidente che la questione dei Refugee anima le dinamiche sociali, politiche e culturali di queste terre contese in modo rilevante. Non meno importante il fatto che la popolazione dei campi sia in aumento e se li pensiamo distribuiti tra Gaza, Giordania, Libano e Siria significa che, diventando un aspetto sempre meno gestibile dai governi locali e nazionali, non sorprende siano considerati uno dei nodi cruciali nel futuro del Medio-Oriente.
Rimanere vittime o prendere in mano il proprio futuro. Questo è il problema.
L’iniziativa e la caparbietà hanno preso progressivamente piede, in piena autonomia dalle influenze politico-rappresentative. Questo non accade per caso, ma per una precisa presa di coscienza. Attraverso una scelta.
Campus in Camps intende accompagnare tale scelta mettendo a disposizione un team portatore di know-how locale e internazionale, attraverso un approcio multi-disciplinare e sistemico “sulla questione della rappresentazione visiva e culturale e la sua narrazione. L’obbiettivo è implementare nei giovani palestinesi conoscenze teoriche, capacità intellettuali e abilità pratiche per facilitare simili dibattiti e tradurli in progetti concreti e orientati alla comunità, incarnando le pratiche della rappresentazione e rendendole visibili nei campi”.
Sottolineo che i partecipanti selezionati saranno pagati per lavorare alla propria idea, trovandosi alla fine dei due anni con la possibilità economica di realizzarla, con la possibiltià di scegliere.
Una combinazione di esperti e insegnanti locali e internazionali fornirà, in sintesi, una preparazione su materie come Camps and Community Participation, Conflict Transformation and Facilitation, Cultural Translation, Spatial Interventions and Representations, English Courses, Film, Video, Photography, International Law and Human Rights. Scandite dalla produzione di un work in progress mensile per arrivare ad una Tesi finale.
Il mio ruolo sarà, per tre mesi, quello di Project Activator: una figura chiamata a supportare le attività di coordinamento, stimolare le attività di gruppo e generare occasioni di scambio con la comunità del campo. Ogni tre mesi una persona differente ricoprirà questa posizione e il mio tempo, essendo la prima residenza, si sta concentrando sullo start-up. Una fase delicata quanto entusiasmante, come ogni inizio richiede. Infatti è tutto da costruire: gli spazi vanno arredati e “insaporiti” con elementi ad hoc su misura, va elaborata un’immagine identificativa e aperta al tempo stesso, va lanciato un sito web con strumenti di social network, va accompagnato il gruppo dei partecipanti in una coesione possibile, aperte relazioni tra questo, il Dheisheh e Al-Quds/Bard. Design visivo, industriale e facilitazione, la mia scatola degli arnesi.
Scribing svolto durante la prima lezione introduttiva a cura di A. Petti.
Vi contatto come intelligenza di rete. È evidente che l’esperienza che sto svolgendo qui dipende da un mio diretto coinvolgimento, difficilmente condivisibile se non attraverso i racconti del mio punto di vista e che le soluzioni che saranno adottate dipenderanno per lo più dai soggetti qui coinvolti… ma il percorso fatto assieme finora come gruppo mi ha dimostrato che Re:Habitat può essere capace di molte vite, di estendere il suo pensiero oltre la distanza e, quindi, crescere ulteriormente muovendo le proprie preziose conoscenze e talenti, curiosità e spirito di condivisione in un contesto dove non può misurarne la tangibilità. Ma in fondo… quanti sforzi stiamo facendo per proporre quel grado di visionarietà culturale, creativa e politica anche a Bologna, Italia, dove superare la sfiducia nel futuro e il radicamento nel passato è un’avventura quotidiana? Sfidare l’esistente è dunque un tema a noi comune.
La mia moneta di scambio con voi, per il tempo che mi dedicherete per migliorare le scelte o il confronto, sarà prestarmi interamente alle vostre richieste: dalle curiosità da soddisfare su tematiche e luoghi, agli approfondimenti stimolati dalla scrittura… insomma, approfittate della mia presenza qui, se lo desiderate, per indurmi a delle osservazioni.
Costruiamo assieme tratti di questo percorso per arricchire il nostro immaginario, il nostro pensiero.