Space of confidence

4 Aprile 2012

Devo ringraziare Rawan Sharaf, direttrice di Palestinian Art Court ad Al Quds (Gerusalemme), per avermi ispirato il titolo di questo dispaccio. Penso racchiuda buona parte della ricerca che sto compiendo individualmente come progettista-trasformatore e insieme al gruppo di Campus in Camps. Rawan parla di space of confidence riferendosi al lavoro di engagement (coinvolgimento) che sta compiendo con abitanti e commercianti della strada dove ha sede la Fondazione da lei diretta, nel tentativo di costruire possibilità relazionali nel quartiere per ri-acquistare una reciproca e costruttiva confidenza sociale, indebolita dall’occupazione in corso.

 

Senza dilungarmi oltre sui dettagli di tale iniziativa, ritorno velocemente al nostro spazio di confidenza. Un commento di Fiorenza Menni da Bologna mi fa ripensare al logo e agli arredi, appena realizzati e montati, come ad applicazioni del pensiero e non a un mero “prodotto”. Semplici, economici e rapidi da realizzare, gli elementi d’arredo organizzano l’ambiente in modo flessibile nell’uso e colorato nell’atmosfera. A dominare sono le cromie, distanti dalla formalità richiesta all’accademia e vicini alla “varietà intellettuale” di frequentatori che hanno da subito manipolato questa versatilità in mille modi. Usare buona parte della mazzetta dei colori è stato anche l’unico modo di trasformare anonime sedie di capitolato in oggetti simpatetici.

 

                                                                        

Space of confidence come ambiente attrattivo e ri-appropriabile

 

Munir Fasheh ha intrapreso con i partecipanti un percorso tremendamente interessante e importante. Fautore dell’anti-scuola, Munir provoca chiedendo “se siano i concetti a dar vita alle cose o se sia la vita a proporci cose su cui riflettere”, ovvero se abbia più importanza l’alta esperienza formativa (Accademia) o la possibilità di vivere esperienze in grado di produrre formazione utile (imparare facendo nella società). L’allargamento a macchia d’olio della Professional Education (Lauree specialistiche, Master e Post-Dottorati di vario genere) produce a suo avviso strutture per dare, riempire le menti e non per ricevere e trasformarsi in accordo con nuove e diversificate esigenze, producendo per effetto contrario un’altrettanto allargata convizione che si abbia poco da dare al mondo. “Abbiamo in qualche modo tutti adottato tali modelli di apprendimento, con il risultato che chi ha grande esperienza ma non è “educato” non viene ingaggiato per posizioni di rilievo e responsabilità… assistiamo alla produzione industriale di lauree e specializzazioni senza alcun nesso con la realtà della vita”.

 

Cosa significa “essere sparpagliati” in quanto palestinesi? Quali differenze tra le parole casa (legata all’esperienza) e nazione (legata all’adesione, appresa nel tempo)? Cosa significa mentire (scaltrezza o inganno)? Ci rendiamo conto di utilizzare vocaboli “avvelenati” in modo neutrale, come perdente e sorpassato? Lontanto dall’essere un invito a rifiutare le parole, è piuttosto un’esortazione a porre energia in esse per scoprirne il significato e renderle sensate, per ripensare alle nostre relazioni senza subire l’ansia della valutazione (evaluation analysis). “Cercate di porvi criticamente verso qualsiasi cosa, sfidate ciò che vi sembra che la cultura occidentale abbia prodotto per farvi sentire meglio… io vi sfido a dirmi cosa di buono ci abbia offerto…”. Brillante e sarcastico, uno dei partecipanti ha risposto: “la facilità con cui possiamo essere riempiti… ”. “La facilità nel separare dimensioni interconnesse”, aggiungo. “Siate creativi nel cercare nuove strade del Ritorno” dice Munir, seguito a ruota da un altro giovane che chiosa “… come Refugee non abbiamo ancora fatto nulla che possa essere descrito da una specifica parola…”. Lo spazio di confidenza generato da Munir accelera nei partecipanti, ogni giorno, balzi di livello energetico mentale e costituisce una grande fonte di ispirazione, anche seguendo differenti approcci.

 

A tal proposito, i relatori sono invitati a portare punti di vista piuttosto differenti, spesso con background talmente distanti da far riflettere su quale sensibilità adottare per presentarli a un pubblico aperto ma polarizzato: provenire da metodologie classificate pubblicamente come “risolutrici di conflitti”, per esempio, implica un mondo verbale e dialettico che è portatore di una visione esogena e di un vocabolario incompatibile (potenzialmente offensivo) con questo contesto geopolitico. La scelta di chiamare persone qualificate ma anche in disaccordo con noi va quindi protetta, purché si usi l’accortezza di spiegare la scelta e preparare il terreno a immancabili, auspicati, accesi confronti.

 

Lo spazio di confidenza ricercato anche all’interno del gruppo di coordinamento coinvolge persone capaci e motivate, lasciando loro spazio di manovra all’interno di una comune cornice contenutistica e di obbiettivi. Interessato al funzionamento delle intelligenze collettive, rifletto su quanto sia importante coinvolgere tanto figure “funzionali”, che svolgono un ruolo istituzionale all’interno della macchina burocratica, in grado di fornire struttura, quanto figure poliedriche e agili, abili a porsi in connessione al “magma sociale”, in grado di produrre movimento. Stabilire ruoli e responsabilità tuttavia non basta: il progetto viaggia più snello ed efficace nel momento in cui ciascuno lo rende proprio. In questo momento Campus in Camps sembra una dinamo in grado di coinvolgere facilmente, di generare adesioni entusiaste.

 

Firas Qaimary, uno dei massimi esperti di mappature georeferenziali e autore delle mappe pubblicate dall’OCHA (http://www.ochaopt.org/), è stato introdotto per aiutarci a guardare dall’alto l’occupazione e trasferire strumenti di lettura, analisi e implementazione. Componente tecnica preziosa e imprescindibile, le mappe su cui lavora sono conosciute in tutto il mondo, utili a rivelare all’osservatore l’intricato intarsio, la macchia di leopardo o l’estensione cancerosa della situazione prodottasi nei Territori Occupati.

 

Così come Munir Fesheh e Vivien Sansour stanno facendo all’interno di contesti naturali e legati alla produzione agricola, sto proponendo in questi giorni ai giovani Refugee alcune esperienze di esplorazione in cui loro stessi si fanno guide per tutto il gruppo, ognuno nei rispettivi campi di provenienza. Voglio capire il loro punto di partenza nell’osservazione di fenomeni collocati nella quotidianità, come spostarsi dai medesimi per rappresentare e narrare nuovi punti di vista sui campi profughi, mobilitando i loro immaginari personali. A cavallo tra la cifra estetico-esperienziale e quella tecnica, workshop e seminari vedranno coinvolti me e Firas in una staffetta sperimentale. La prima esplorazione al Dheisheh ha già offerto sostanziosi elementi su cui riflettere, concetti emersi dalla vita. Esperienze capaci, se coltivate, di portare, se non all’alta formazione, a quegli strumenti in grado di accompagnare i partecipanti alla costruzione dei loro progetti. E anche noi, alla ridefinizione dell’idea di formazione e degli strumenti di cui disponiamo.

 

Space of confidence come rappresentazione in divenire e sovvertibile.

 

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