L’ambigua intimità fotografica di Instagr.am
Pubblichiamo di seguito una conversazione/intervista tra Bertram Niessen e Stefano Mirti, architetto e designer, su Instagr.am, applicazione per i-Phone che permette una rapida condivisione di fotografie.
Instagr.am funziona grazie ad una propria piattaforma o attraverso vari altri social network come Twitter, Foursquare, Facebook e Tumblr. Le sue due principali caratteristiche sono la velocità e facilità di caricamento e condivisione delle immagini, e la peculiare estetica vintage dei filtri che si possono scegliere, che richiama espressamente i mondi della Polaroid e dell’Instamatic.
Bertram: L’idea per questo testo è emersa durante una conversazione a proposito dei social network, nella quale tu hai osservato come Instagr.am metta in connessione le intimità visive e fotografiche di perfetti sconosciuti.
Stefano: Sì, notavo come all’interno del vasto e ampio mondo dei social network, una famiglia con alcune specificità interessanti è quella delle comunità che interagiscono attraverso il medium fotografico. Instagr.am è un micromondo (micromondo per modo di dire, perché a oggi conta circa sei milioni di affiliati), ma ce ne sono diversi che lavorano su principi analoghi.
Quello che mi intriga è capire cosa comporta una comunicazione personale incentrata sulle immagini (prodotte dal singolo membro della comunità stessa).
Bertram: Questa considerazione ha fatto trillare diversi campanelli, perché mi pare che le riflessioni al proposito latitino ancora. In effetti, direi che tutto il mondo di Instagr.am sia in qualche modo definibile come post-privacy, nel senso che fornisce a ciclo continuo spiragli di visioni del mondo materiale intorno agli utenti. In questo senso, i social media come Twitter e Facebook - basati prevalentemente sul testo - sono tutto sommato più pudichi. O forse no?
Stefano: Forse sì (sono più pudichi). Su Facebook si postano contenuti che sono in genere triangolati attraverso produzioni di altri. Eccovi il link a quel videoclip trovato su YouTube, qui il link a questo articolo uscito oggi su xxx on-line e così via.
Su Instagram non c’è triangolazione. Ci sono io e il mio iPhone con il quale scatto una fotografia e la condivido con amici e sconosciuti. Il grado di intimacy connesso al medium è dunque abbastanza alto.
Forse non userei le categorie “pudico” / “lascivo”. Secondo me si tratta di un diverso grado di intimità. Instagr.am è uno strumento che permette di condividere intimità molto profonde. Intimità che possono essere molto pudiche e neutre, ancora si tratta di operazioni che possono facilmente diventare molto forti e coinvolgenti.
Bertram: Il successo di Instagr.am è dovuto a più fattori, come la facilità di utilizzo, l’integrazione con il mobile e con altri social network, che in qualche modo hanno ripreso e ampliato le caratteristiche che avevano fatto la fortuna di piattaforme come Fotolog, qualche anno fa. Ma quello che più mi incuriosisce è la definizione del mondo estetico che ne emerge. Instagr.am riprende le grane visive ultra-sature della fotografia Polaroid e Lomography, utilizzando filtri digitali per costruire delle finte imperfezioni analogiche. È un processo che ho visto spesso nell’arte elettronica, ma che qui assume dei connotati completamente diversi. Non trovi che questa rincorsa alla grana imperfetta degli anni 60 e 70 abbia qualcosa a che fare con l’intimità, ancora una volta? Ho come l’impressione che tutta questa ultra-saturazione aiuti a veicolare dei mondi emotivi che non potrebbero passare altrimenti.
Stefano: Io uso Instagr.am e mi diverte abbastanza. Chi si occupa (o chi si appassiona) di fotografia in genere non ama questo tipo di strumenti. Le osservazioni sono abbastanza ovvie. Instagr.am è uno strumento per reiterare per la centomiliardesima volta la stessa foto; i filtri sono ingannevoli perché mascherano le pecche tecniche; si tratta di un processo di macdonaldizzazione delle tecniche fotografiche più sofisticate e così via.
È vero, è abbastanza così. Ma come suggerivo prima, secondo me il punto è un altro.
Se tu metti a punto uno strumento tecnico (nel nostro caso venti filtri simpatici e carini) grazie al quale chiunque è in grado di fare delle foto carucce, stai traslando la conversazione e le possibili relazioni. Se pratichi la fotografia tradizionale (o, per rimanere nel digitale quella che trovi su Flickr), molto del discorso gira attorno al layer tecnico/muscolare. Io ho questa macchina fotografica pazzesca, sto usando un obiettivo incredibile taldeitali. Su Instagr.am non puoi fare la gara (perdonate il termine ma secondo me è abbastanza appropriato) del “chi ce l’ha più lungo”. Su Instagr.am si usano degli altri paradigmi comunicativi. Le dimensioni della foto sono minuscole, i filtri definiscono in maniera ancora più precisa il campo d’azione, da cui a grandi linee se vuoi comunicare qualche cosa di vagamente significativo devi giocare di sensibilità personale, direzionandoti verso i tuoi mondi più personali e intimi. Se Instagr.am è un vettore di macdonaldizzazione, questo non è espresso sul terreno della tecnica fotografica (diventiamo tutti bravi fotografi), quanto piuttosto sul terreno dell’introspezione personale (diventiamo - forse, potenzialmente - tutti quanti dei poeti visivi).
Bertram: I filtri di Instagr.am stanno avendo una conseguenza piuttosto strana sulla definizione dei campi estetici della Rete di questi anni. Quel sapore vintage e nostalgico in qualche modo sembra riuscire sempre a tirar fuori una foto che ha qualcosa di evocativo, indipendentemente dall’occhio e dalla bravura del fotografo. Lo trovo affascinante e spaventoso al tempo stesso.
Stefano: Ovviamente è in tutto e per tutto spaventoso. Però questa è la storia della tecnologia. Ogni giro abbassi la soglia di difficoltà (democratizzando l’esperienza) a scapito della qualità. Cinquant’anni fa volare in aereo era una roba incredibile, che ti trattavano come fossi la regina d’Inghilterra. Adesso tutti volano, però ti fanno volare trattandoti come un animale. Cent’anni fa se volevi spostarti in macchina dovevi avere (oltre all’auto) un autista personale, un meccanico dedicato, etc. Adesso chiunque può guidare. Immagino che se tu avessi detto a Ettore Bugatti che un giorno avresti avuto un’automobile chiamata Tata Nano a 2500 dollari americani, che chiunque avrebbe potuto guidarla dopo un’ora di spiegazioni assortite, lui avrebbe trovato questo fatto ripugnante. Che dire? La tecnologia incrociata alla razza umana nel mondo della modernità (solida o liquida, indifferente) spinge verso questa direzione. Il fotografo provetto che mi sfinisce perché Instagr.am è peggio della suo Nikon digitale, si dimentica del disprezzo che manifestava il fotografo con la Laika rispetto a quello che iniziava a usare il digitale. Così via risalendo indietro.
Bertram: Quindi, secondo te Instagr.am svolge un ruolo simile ad Ikea, Muji o Decathlon? Democratizzare l’accesso, appiattendo l’espressione?
Stefano: Si, è così. Non potrebbe essere altrimenti. Secondo me il paradigma è ragionevole. Perché si inizia da un processo dato di democratizzazione, lasciando alcuni spiragli per arrivare ad avere espressioni non appiattite. Non facile, ma non impossibile.
Bertram: L’altro giorno mi dicevi che tu le salvi in piena qualità, e successivamente applichi il filtro e uploadi. Un punto fondamentale delle pratiche estetiche attorno a Instagr.am è che la maggior parte degli utenti, invece, salva le foto con il filtro già applicato, costruendo degli archivi di fotografie irrimediabilmente connotate. Fra qualche anno milioni di utenti si ritroveranno con intere memorie visive personali indelebilmente marcate dal segno di Instagr.am. Non trovi che ci sia qualcosa di molto strano in tutto questo?
Stefano: In verità io appartengo a quella categoria di persone che da per scontato che tutte le nostre memorie digitali a un certo punto schianteranno. Da cui non starei troppo a preoccuparmi del fatto che tra qualche anno ci saranno milioni di persone con fotografie irrimediabilmente connotate semplicemente perché c’è un’elevatissima probabilità che tra qualche anno queste persone non riusciranno più ad accedere alle loro fotografie. Sul perché io sdoppio i file (salvandone uno in piena qualità e uno con il filtro Instagr.am) è perché distinguo le operazioni che faccio. Da un lato scatto una fotografia che mi piace e che entra nel mio archivio. Ma questa foto è per me, è per il mio archivio. Dall’altro partecipo al gioco della comunità e ne accetto le varie regole (filtri, cuoricini, like, commenti stupidi, didascalie un po’ cretinette).
Bertram: Ok, questo punto lo capisco bene. Ma credo che il nocciolo del discorso non sia tanto, e solo, la perdita dell’informazione fotografica, quanto il fatto che un intero mondo di memorie visive sarà prevalentemente omogeneo.
Stefano: Si, certo. Ma questo è già così prima di Instagr.am. Se siamo preoccupati del fatto che un intero mondo di memorie visive sia troppo omogeneo, il problema va fatto risalire all’invenzione della macchina fotografica (e del cinema), e ancora prima a Gutenberg. La storia della tecnologia applicata è affascinante perché è una storia di corsi e ricorsi. Cento anni fa Edison inventa il fonografo e tutti si stracciano le vesti perché questo strumento fara scomparire i libri stampati e i giornali su carta. Grazie alla stampa a basso costo, riempi l’universo tutto di riproduzioni della Gioconda e così via. Ogni generazione si trova davanti a una serie di forze del male che spingono verso l’omogeneizzazione, dopodiché, ogni generazione produce una serie di persone ingegnose e brillanti che si inventano soluzioni inaspettate e spostano il baricentro tre spanne più in là...
Bertram: Tornando a te che usi Instagr.am...
Stefano: In effetti, dopo circa sei mesi di utilizzo del sistema, ho fatto dei passi avanti ulteriori. Da un lato mi sono costruito dei filtri analogici (banalmente delle striscioline di silicone di spessore diversificato) che mi consento di dare un effetto “blur” che mi piace molto.
Bertram:A quanto ne so, un approccio di questo tipo è abbastanza raro nelle comunità come Instagr.am.
Stefano: Poni una questione interessante. Credo che questo dipenda dal tipo di strumento tecnico che utilizzo. Se io uso una Vespa (o una Fiat Panda degli anni Ottanta), se si rompe qualche cosa, mi viene spontaneo aprire il motore, pasticciare, aggeggiare. Se io uso un’Audi (o una Fiat attuale) se si rompe qualche cosa, so che non devo e non posso fare nulla (che non sia andare dal meccanico autorizzato).
Se le persone comunicano usando una radio CB, sono (concettualmente) pronte a fare ogni sorta di manipolazione, aggiunta, smanettamento. Se le persone comunicano con un iPhone tendono a immaginarselo come universo finito e se ci fosse stato qualcosa di buono da fare zio Steve ci avrebbe già pensato lui.
Questo è uno degli effetti collaterali del mondo digitale. Se faccio un collage analogico sono pronto a inventarmi centomila cose incredibili. Se faccio un collage digitale tendo a immaginare che l’universo di possibilità si esaurisca nel menu di Photoshop o Illustrator. Ma forse la risposta è più banale. A me piace molto costruirmi le cosiddette “pin-hole camera” (le macchine fotografiche che uno si costruisce da solo, facendo un buchino nella scatola da scarpe). Da cui mi viene naturale - e mi piace molto - fare una serie di operazioni un po’ inaspettate. Se io voglio fare le foto con effetto blur e zio Steve non ci ha pensato non è che allora mi arrendo cosi’ facilmente. In più, io sono sempre intrigato da quei momenti in cui il mondo digitale entra in corto circuito con quello analogico. Ecco, forse si tratta di una passione personale che non è condivisa da così tante persone.
Bertram: Quindi tu usi Instagr.am per il valore relazionale e non per quello fotografico/visivo.
Stefano: All’inizio (per circa sei mesi) è stato così. Poi, a un certo punto mi sono un po’ stufato del gioco relazionale comunitario, e allora ho smesso di postare, mi sono fatto un nuovo account e continuo a fare le mie fotine per me e per una manciata di altre persone che non mi chiedono una relazione sociale sofisticata (che sul medio-lungo periodo mi affatica non poco).
Bertram: Credo che la pervasività del mezzo imponga una riflessione strutturale sul rapporto tra intimità, privacy, fotografia e formazione. Ti sei già trovato ad affrontare questo nodo come docente? Pensi che sia necessario?
Stefano: Qui è l’inferno. Nel mondo tradizionale il docente lo vedi a lezione o nell’ora di ricevimento. Non ti verrebbe mai in mente di passare da casa sua o di telefonargli sul fisso. Nel mondo digitale invece viene naturale scrivergli una mail (se io do la mia mail pubblicamente, se poi lo studente mi scrive, mi sento in dovere di rispondergli). E già qui diventa un gioco a volte sul filo, perché la mail ha dei confini comunicativi labili. Se poi entri nell’arena del social media, diventa realmente difficile. A grandi linee perché dovrei negare l’amicizia a uno studente su Facebook? Però nel contempo io non voglio (e non devo) diventare suo amico. Io sono un suo docente. Se poi, passiamo a una roba tipo Instagr.am siamo abbastanza nei pasticci. Come dicevo prima, secondo me Instagr.am è un sistema dove apparentemente scambi delle foto con appassionati. Per davvero è una sorta di lounge virtuale dove la gente passa il tempo a flirtare in maniera più o meno dichiarata. Ecco. Condividere le foto su Instagr.am tra docenti e studenti è quel tipo di relazione che mi spinge ad abbandonare il gioco (perché poi diventa un sistema troppo delicato e ingestibile), farmi un nuovo account che nessuno conosce e continuare per conto mio a flirtare con me stesso. Un po’ solipsistico, ma almeno non mi caccio nei guai.
Il passaggio complicato è quello in cui lo studente (che è cognitivamente tarato su Facebook) vive in un mondo in cui siamo tutti amici. E dunque, in assoluta buona fede ti chiede l’amicizia. Ma io (che sono il tuo docente) non voglio diventare tuo amico. Io voglio (cioé, io devo) trasferirti delle informazioni, verificare che tu le abbia apprese e valutare con un numero da uno a trenta quanto sei stato bravo nell’apprendere (in maniera verticale, da me verso di te) le informazioni che ho stabilito essere rilevanti. Tutto il resto (in un ambiente scolastico) non esiste e se esiste è una truffa. Ok, viviamo in un mondo dove siamo (apparentemente) tutti amici. Ancora, se tu sei mio studente la relazione deve essere diversa. Voglio poterti bocciare senza sensi di colpa. Sennò non funziona più nulla. Peraltro, un corso dura un semestre, un anno. Se proprio vogliamo diventare amici (per davvero o per finta) abbiamo tutta la vita (dopo la cerimonia rituale dell’esame) per farlo. Non c’è nessun buon motivo per essere amici prima.
Potete seguire i pensieri di Stefano Mirti su twitter : @stefi_idlab
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