Le barzellette di Eco
Io Eco non lo conoscevo bene. Lo vedevo con regolarità, a tutti i congressi dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, puntuale ogni anno. Per la cronaca, non faceva la solita apparizione da star, veniva, rimaneva, ascoltava, partecipava. Il che forse potrebbe bastare a togliere i dubbi sul fatto che il suo rapporto con la disciplina cui ha contribuito grandemente a dar forma non fosse una parentesi, una digressione filosofica come un’altra, ma qualcosa in cui l’uomo (quello che prende treni, che sale scale, che apre porte, che aspetta del tempo, che alza la mano) credeva. A ogni modo, non posso certo dire di averlo conosciuto, in compenso però gli ho sentito raccontare diverse barzellette.
Chi, al contrario di me, lo conosceva bene me lo diceva: più passa il tempo più Eco racconta barzellette. Detta così fa pensare. Un intellettuale del calibro di Eco che racconta barzellette…La prima idea che mi è venuta in mente è che avesse a che fare con la questione dell’umorismo che affronta ne Il nome della rosa. Il potere della risata, l’esercizio intellettuale dell’ironia, insomma ancora una volta filosofia. Da par suo. Eppure le barzellette che Eco raccontava non erano per nulla intellettuali. Per carità, nel mucchio qualcuna lo sarà anche stata, ma fra queste molte non avevano nulla di profondo. Certe erano perfino un tantino sopra le righe. Ed ecco il secondo pensiero: il grande intellettuale che cerca il sottile piacere di sorprendere l’interlocutore con una storiella oscena. “Le signore mi scuseranno” esordiva, e giù scene articolate e particolari espliciti. Insomma, per dirla con Jannacci, “per vedere vedere vedere l’effetto che fa”. Lo snobismo dei grandi oppure l’autoreferenzialità? Sono talmente grande che se anche racconto storielle non cambia niente o lo faccio per compiacermi dei sorrisi imbarazzati di interlocutori spiazzati?
Nessuna delle due. Pensate, una mente così brillante, una conoscenza così ampia e varia praticamente di ogni cosa che valga la pena di conoscere che racconta storielle a spron battuto. Sarà un mio problema, ma a guardar bene, e a sentirle raccontare dal vivo queste storielle, io ci ho visto qualcos’altro. Perché quello che si dice meno in giro è che Eco le barzellette le raccontava bene. Si sa, perché una barzelletta funzioni non ha tanta importanza quello che si dice ma come lo si fa. Fa ridere il barzellettiere non la barzelletta. È fuorviante chiamarle storielle ora che ci penso. Una storia è una cosa che se anche la cambi un po’, se la ascolti da persone diverse, rimane la stessa. Per quante versioni di Cappuccetto rosso possiamo aver ascoltato nella vita in fondo sono tutte la stessa storia. Le storielle non sono mai la stessa storia. Per uno che ha teorizzato sulle narrazioni tutta la vita, che ne ha cercato le strutture fondamentali e che poi ha messo in atto ogni genere di tecnica per scrivere dei magnifici romanzi sembra quasi un paradosso. Quando racconti una barzelletta contano più le pause che ciò che le racchiude, le minime variazioni di timbro vocale che definiscono i personaggi, i piccoli gesti che, in un attimo, fanno capire a chi ascolta tutto della situazione in cui la battuta è ambientata.
Prendete Berlusconi. Anche lui raccontava tante barzellette. Anche lui ne raccontava di oscene. Chissà, forse anche le stesse. Ma tra le barzellette del Cavaliere e quelle del nostro non riesco a vedere punti di contatto. Berlusconi raccontava per stupire, per divertirsi, per essere simpatico, per caso; Eco stava lavorando. Divertendosi, come credo abbia sempre fatto, ma era lì che esplorava qualcosa. Entrava dentro quell’indicibile che è dell’ordine del fare, in cui la presenza è indispensabile e senza di essa tutto cade. La barzelletta è come una partitura d’orchestra, ogni volta che viene eseguita rinasce, e lo fa sempre in modo differente. Non è al teatro che il raccontare barzellette rimanda, ma alla musica, e al concetto di esecuzione. L’interpretazione non consiste nell’eseguire una nota piuttosto che un’altra ma nel modo in cui la si vibra o nella maniera di legarne più d’una. Sono le pause che contano. Proprio come accade nella poesia. Ecco, le barzellette di Eco sono questo, nella loro irripetibilità inverano ciò che il saggista e lo scrittore non può fare e che un uomo deve essere: irripetibile. Dopo che ha scritto, scriveva Eco, l’autore dovrebbe scomparire, lasciando all’opera la possibilità di significare senza intromissioni, senza “versione autentica”. Ecco, nelle barzellette è l’opposto. Quando chi le racconta muore, muoiono anche loro. E non c’è modo di riportarle in vita, ma solo di ricordarle con nostalgia e un ineliminabile senso di imperfezione. E così, alla fine, tutto si tiene.