Oggetti e economia moderna / La parola alle cose

18 Febbraio 2018

Chiunque abbia dimestichezza con i disegni animati non si stupirà più di tanto, si sa nel mondo dei cartoni le cose (e gli animali) parlano da sempre. Maggiordomi-candelabro, statue animate, ma anche macchine, aerei e naturalmente giocattoli stanno lì a interagire nel più naturale dei modi, attraverso la lingua appunto. Ma è roba di fantasia, per bambini, perché le cose non parlano, cosa avrebbero da dire poi? È questo il punto: troppo. Fortunatamente qualcuno ogni tanto decide di dargli la parola, gettando su di loro il più incredibile degli incantesimi: una domanda. Anzi tante. È quello che fa Tim Harford, economista e giornalista del Financial Times, con il suo 50 cose che hanno fatto l’economia moderna, edito da Egea. Obiettivo di Harford non è parlarci dei 50 maggiori successi commerciali di tutti i tempi, non si parte dal denaro ma dalla vita e dal modo in cui certe invenzioni l’hanno cambiata rendendola ciò che è. C’è l’aratro ovviamente, ma anche il filo spinato, l’iPhone, il passaporto, la libreria Billy (sì, proprio quella di Ikea), i registri catastali, la lampadina e molto altro.

 

Prendete il filo spinato. Prima della sua invenzione, spiega l’autore, non si era riusciti a colonizzare adeguatamente il West americano. Con l’Homestead Act del 1862 il presidente Lincoln aveva garantito a ogni cittadino onesto un appezzamento in quelle terre ancora inesplorate e tuttavia, data la scarsezza di legname e le condizioni del terreno, era talmente difficile delimitare la proprietà che i potenziali coloni rinunciavano in partenza. Non si trattava solo di tracciare i confini per ragioni amministrative, ma di impedire al bestiame di muoversi liberamente, disperdendosi o distruggendo i campi coltivati. Anche lo US Department of Agriculture nel 1870 arrivò alla conclusione che senza una qualche forma di tecnologia, la volontà di espansione sarebbe stata fortemente limitata. Per quanto elementare possa sembrare, il filo spinato fu quella tecnologia. Economico, facile da stendere, ma soprattutto efficace deterrente tanto nei confronti delle persone quanto degli animali, riusciva a tenere i primi fuori e i secondi dentro. Grazie a esso non soltanto il concetto di proprietà diveniva finalmente percepibile, con tutte le conseguenze che questo aveva, ma si riusciva anche a renderlo operativo nei confronti di quelle creature, umane e non, che doveva riguardare. Un problema, quello della percezione della proprietà, che continua a riguardarci da vicino, come dimostra l’enorme e irrisolta questione della diffusione della musica nell’epoca di Internet. 

 


Inutile dire che quando si fanno elenchi – le 50 cose, i 100 modi di cucinare le uova, e su su fino ai 10 comandamenti – il problema non è avere la certezza che non si possa aggiungere un ennesimo punto, ma quanto la collezione possa dirsi coerente rispetto a un criterio. È quello a costituire il primo motivo di interesse. Non le 50 cose in sé ma la possibilità di pensare un gruppo in cui ce ne sono solo 50. Ma si sa, il valore di un gruppo è dato soprattutto da ciò che esclude, è questo che agli occhi di uno studioso lo rende un corpus. Nel nostro caso si tratta di assenze davvero rilevanti, una fra tutte il computer. È possibile pensare l’economia moderna senza il computer? Ovviamente no, eppure questa voce manca. La giustificazione per così dire ufficiale, quella cioè addotta dallo stesso autore nella sua introduzione, si sviluppa in due punti: perché ci sono altre storie da raccontare (leggi: di quello parlano tutti), e perché si vuole mettere in luce l’“evoluzione” cui il computer ha dato vita. Questo secondo punto credo sia, forse anche al di là delle intenzioni dell’autore, il principale motivo di interesse di questo libro. Esso più che vertere sulle innovazioni, su un elenco più o meno esaustivo che spieghi l’economia moderna, ha a che fare con l’innovazione in sé e con ciò in cui consiste. Dove risiede l’innovazione e come si produce? Leggendo le pagine di Harford la riposta che si ricava è quasi sempre la stessa: da un’altra parte. Come la natura per Eraclito, anche l’innovazione si nasconde.

 

Prendiamo un altro dei casi esaminati, quello di Billy, la libreria di Ikea campione di vendite in tutto il mondo. Progettata nel 1978 è rimasta sulla cresta dell’onda per ben quarant’anni, rimanendo apparentemente sempre uguale. Come avrebbe detto M.me Chanel, la moda è cambiata molte volte ma lo stile della Billy è rimasto, senza perdere il suo fascino. Il motivo? Il suo essere un oggetto “neutro”, volutamente gregario. Se da un lato il design ha percorso la via dello stupore, del gioco, dell’ardimento stilistico e formale, per definizione difficile da abbinare all’interno di una casa, Ikea ha seguito un'altra via, cercare la “base”, quel sottofondo di cui il primo tipo di design ha bisogno. E così, avuta l’idea, il design diventa re-design, continuo e incessante. Perché, come spiega Harford, non è affatto vero che Billy sia identica a quarant’anni fa. Ha subito migliaia di piccole modifiche, dettagli invisibili che hanno riguardato la costruzione, il trasporto e naturalmente i sistemi di assemblaggio. D’altronde, sappiamo tutti che una delle idee geniali di Ingvar Kamprad per abbattere il prezzo sia stata proprio quella di aver fatto in modo che fosse il cliente finale ad assemblare da sé ciò che acquistava.

 

E se i tanti piccoli cambiamenti hanno avuto come obiettivo quello di aumentare i margini di guadagno collegati al prodotto, questione alla quale un economista non può che essere sensibile, lo hanno fatto agendo tanto su variabili tradizionali (costo del materiale e della manodopera, trasporti ecc.) quanto su altre che lo sono meno. Pensiamo appunto alle relazioni che intrattiene con gli altri arredi di una casa, ma anche a quelle che produce con le persone che l’acquistano e che dovranno montarla. Oppure smontarla. Come viene ricordato infatti ci sono ormai moltissimi siti web che suggeriscono soluzioni per trasformare i prodotti Ikea, in modo che, con un po’ di buona volontà, da una Billy possiamo costruire un fasciatoio, diventando anche noi un po’ designer. 

 

A ben pensare allora ciò che Harford fa è seguire un doppio binario. Da un lato racconta in maniera esplicita le storie che hanno a che fare con gli oggetti – da quelle della loro invenzione a quelle che riguardano il loro uso – secondo un modo di fare che sembra oggi la panacea di ogni male comunicativo, ovvero il famigerato storytelling. Un approccio che potremmo considerare genetico, che suscita curiosità e diverte. Dall’altro lato però, percorrendo le diverse schede dei singoli oggetti e provando a leggerne ciascuna con attenzione, emerge un’altra prospettiva, che diremmo invece generativa. In questo caso il focus non è più sulle storie che ruotano intorno all’oggetto, ma su quest’ultimo inteso come una storia.

L’esempio del filo spinato dovrebbe aiutarci a chiarire questa differenza. Esso, come abbiamo visto, non si limita a segnare la proprietà privata, la produce nel momento in cui la rende percepibile, e lo fa tanto rispetto agli esseri umani quanto, in modo altrettanto importante, nei confronti degli animali. Se la colonizzazione avviene, insomma, non è solo perché le persone trovano una casa, ma anche perché lo fanno le mandrie, che si sono costituite tanto grazie all’azione dei recinti quanto a quella dei cowboy. Ne viene fuori una prospettiva in cui le relazioni fra oggetti, soggetti e animali si intrecciano indissolubilmente, generando appunto una configurazione che è al contempo umana e non umana, tecnologica e sociale. Qualcosa di molto simile a quanto è accaduto con la Billy in fondo. Ecco allora dove sta l’innovazione: non è un’entità unica, un oggetto, ma una configurazione e dunque risiede nella trasformazione di un insieme di relazioni. 

 

A questo punto bisogna chiedersi in cosa consista la modernità di cui parla Harford nel suo titolo. Perché questa parola presuppone una frattura nello scorrere del tempo, un prima e un dopo, ma soprattutto dei vincitori e dei vinti. Senza premoderni non esistono i moderni. Ora, se pensiamo agli oggetti elencati nel libro come ad altrettanti insiemi di relazioni che coinvolgono un insieme più o meno ampio e articolato di soggetti e oggetti, ci rendiamo presto conto di quanto sia difficile porre tali confini. È a questo punto che, come scriveva Bruno Latour, smettiamo di essere moderni (il libro si intitola Non siamo mai stati moderni): non pensiamo più in termini di oggetti ma di reti, ma soprattutto non teniamo più separati oggetti, umani, animali, piante ecc. Per inciso, quando un libro è interessante manda sempre biglietti di invito ad altri libri. Ed ecco allora il paradosso: nel momento in cui parliamo degli oggetti che ci hanno resi moderni smettiamo di esserlo. Ecco una domanda da fare all’autore. In alternativa si può leggere il suo libro e provare a trovare da sé la risposta, in fondo anche un libro è un oggetto, e l’incantesimo della domanda può perfettamente essere scagliato anche su di lui.

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