Enzo Sellerio fotografo della durata
“Una Sicilia d’altri tempi”. Ecco il commento di un amico incontrato per caso alla mostra antologica di fotografie di Enzo Sellerio a 100 anni dalla nascita. L’esposizione, inaugurata alla Galleria di Arte Moderna di Palermo lo scorso 20 dicembre che rimarrà visibile fino al prossimo16 febbraio, contiene 150 fra immagini famose e inedite realizzate dal fotografo-editore palermitano fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso. C’è tanta vecchia Sicilia, è vero, almeno per chi è in grado di riconoscerla, ma personalmente non è questa la cosa che mi ha colpito di più. Quello che ho trovato più interessante è vedervi un’idea di fotografia d’altri tempi. Un’idea di cui credo ci sia anche un certo bisogno oggi che tutti andiamo in giro con una macchina fotografica, proprio come un tempo facevano solo i fotografi come Sellerio, senza tuttavia avere la stessa idea di cosa sia fotografare. Ecco allora, per dirla in brevissimo, l’Antologia di Sellerio racconta un’idea di fotografia in cui domina la durata anziché l’istante.
Provo a spiegarmi. L’idea che comunemente si ha di una fotografia è quella di un istante sottratto al fluire del tempo. Il prodotto dell’innaturale capacità di fissare, su pellicola in passato e su file oggi, un frammento di mondo e un morso di tempo, riproducendo in modo presunto esatto quanto si è parato davanti agli occhi di chi era lì in quel momento. Da qui una delle più comuni funzioni sociali della fotografia, ovvero quella del ricordo, della testimonianza e quindi della traccia più o meno indelebile di un passato che non c’è più. Per questo la solita questione della nostalgia.
In qualche caso, però, l’istante che si fissa non è come gli infiniti altri che vengono prima e dopo. Non si limita a mostrare la cosiddetta realtà ma, come amava dire Henry Cartier-Bresson, la significa. È insomma un istante fecondo che riesce a offrire qualcosa di più della visione di un frammento di mondo in cornice. L’esperienza che propone non è solo visiva ma intellettuale, e non soltanto perché offre uno specifico punto di vista, ma perché, imponendo dei confini alla visione cosiddetta naturale, togliendole la tridimensionalità e in qualche caso il colore, ci obbliga ripensare a ciò che normalmente vediamo senza di fatto guardarlo. La differenza è chiara: nel vedere non c’è intenzionalità, non c’è progetto e quindi non c’è desiderio, nel guardare invece sì, c’è sempre una ricerca, e quindi un ordine e una narrazione. Con tutto quello che ne consegue. Fin qui l’ovvio che distingue una fotografia di un fotografo vero da quella che chiunque di noi può aver fatto in vacanza al mare.
Ora, nelle immagini di Enzo Sellerio c’è evidentemente tutto questo – l’uomo decisamente sapeva fotografare – ma in questa mostra in particolare c’è anche qualcos’altro, e riguarda il fare del fotografo. Come sa chiunque abbia provato a fare delle fotografie non troppo banali, la realtà non è mai fotogenica; è soprattutto noia e già visto, con nulla di interessante. Perché lo diventi è necessario sorprenderla, isolarne alcune parti in modo che l’occhio vi scorga l’ammiccamento di un principio strutturale. Per farlo ci sono due modi: il primo è affidarsi al caso, il secondo è tenderle una trappola. Credo che Enzo Sellerio in quest’ultima pratica fosse particolarmente abile. Non solo perché sapeva immaginare con grande accuratezza dove si sarebbe materializzata una fotografia, ma perché non aveva alcun timore di costruire le condizioni affinché lo facesse. Sapeva bene che l’autenticità non è figlia della spontaneità ma dell’intelligenza. In questo, a voler trovare riferimenti, più Doisneau che Cartier-Bresson.
Provo a spiegarmi con un esempio. Monastero di clausura di Santa Caterina, naturalmente a Palermo. La fotografia è del 1967 e a quell’epoca c’erano ancora delle monache, pertanto il luogo era pressoché inaccessibile a chiunque. Specie a un uomo. Un pensiero fugace: come avrà fatto Sellerio a entrarvi? L’immagine mostra un’ampia porta a vetri che chiunque conosca i luoghi sa affacciarsi su un piccolo cortile interno. L’anta centrale è priva del vetro opaco che invece vediamo nelle altre e lascia intravedere il corridoio che vi sta dietro. Sulla parete è appeso un grande quadro che ritrae una sorella dello stesso ordine. Forse una madre superiora. Un ritratto classico, in cui lo sguardo della religiosa è rivolto dritto al pittore e, dunque, a tutti coloro che nei secoli successivi hanno osservato l’opera frontalmente. Lo scatto di Sellerio coglie l’attimo esatto in cui un’altra suora, vestita esattamente come quella ritratta, passa sotto al quadro e si volta verso l’obiettivo, in una posa che somiglia molto a quella dell’antenata. Al di là della mise en abyme, della magia della corrispondenza, del gioco di riquadri che l’immagine disegna con la struttura della porta, e quindi del modo di moltiplicare e rilanciare il problema della cornice, quella che viene messa in scena è la paradossalità dell’istante fotografico. Ciò che vediamo è infatti il proverbiale centoventicinquesimo di secondo, ma ciò di cui quel tempo così breve ci parla è innanzitutto una durata. L’attesa dell’istante. E naturalmente l’intuizione che l’ha preceduta, ponendola in essere. Nessuno saprà mai quanto a lungo Sellerio abbia cercato quello scatto, proteso verso un’idea che ha potuto solo sperare si realizzasse. Tutti i sensi all’erta per non farsi sfuggire il momento in cui, a Dio piacendo, il quadro e la vita al di fuori di esso si sarebbero allineati, scatenando il click dell’otturatore. Un suono che Roland Barthes definiva voluttuoso, intuendo la relazione che esso aveva con la tensione fisica che precede il momento dello scatto. Una tensione che risiede al contempo nel corpo, nei muscoli e nel fiato che resta sospeso, e nell’intelletto, in quanto prodotto di un’idea alla quale si spera il mondo abbia voglia di piegarsi. Ben sapendo che anche quando deciderà di farlo non sarà mai fino in fondo.
Ecco, è la tensione che precede l’istante fotografico che si respira nelle immagini di Sellerio e, con essa, il lavoro – e il piacere – del fotografare. E se qualche volta questo piacere si concretizza in un’ironia tutta sicula, c’è sempre la sapienza dei grandi maestri. Due immagini per esemplificare. La prima, datata 1955, mostra un fitto gruppo di persone, molte delle quali con un ombrello in mano, al centro di una strada sotto la pioggia. Dietro di loro si intravede una piazza, quella di Polizzi Generosa, un paese in provincia di Palermo. Sulle loro teste invece campeggia uno striscione lungo quanto l’intera strada che riporta la scritta “Democrazia cristiana” preceduta dal celebre scudo crociato. Inutile dire che erano gli anni in cui questo partito politico dominava incontrastato le elezioni, specie in Sicilia, e quel diluvio può quindi voler dire molte cose. Ancora una volta, probabilmente uno scatto atteso, desiderato, cercato. E tuttavia di nuovo reso ancor più interessante da quello che non ci si poteva aspettare: un ombrello che esce fuori dal coro, diretto dalla parte opposta. Al di sotto, a giudicare dai calzoncini corti, un bambino. Punctum bartesiano? Forse i calzoncini, il personaggio non direi proprio: è chiaro che è espressione, per dirla con le parole del semiologo francese, dei miti del fotografo.
Dove la forza di espansione di un dettaglio insignificante è ben chiara, e con essa quindi la capacità della fotografia di pungere, è nella seconda immagine, scattata nel 1958 in occasione dell’incoronazione di Giovanni XXIII a piazza San Pietro a Roma. Al centro, i bambini che il papa buono amava tanto. In alto, le celebri colonne che rimano visivamente con altrettante persone che svettano sulla folla. Infine, in basso, il piede allungato di uno dei due bambini indica l’esatto centro dell’immagine, con la sua gamba tesa e la scarpetta a punta che fa risaltare il calzino un po’ scivolato. Una volta che lo si nota è impossibile distogliere lo sguardo, ben sapendo che non ha nessun ruolo rispetto a ciò che il fotografo ha voluto dire. Ancora una volta una durata quindi che, al contrario di prima, non precede lo scatto ma lo segue: è il tempo che prende lo sguardo per esplorare l’immagine, i cui dettagli godono di una “forza di espansione”, per citare ancora Barthes.
È proprio la durata che credo sia sempre meno presente nelle fotografie contemporanee, come se l’avventura dello sguardo avesse ceduto terreno a un campionario di meraviglie tutte di rapido e intenso godimento. Chissà, forse perché le fotografie si sono moltiplicate a dismisura, e con esse naturalmente i fotografi, o forse perché il tempo che intercorreva fra lo scatto e la visione è venuto meno. Annullato dalla onnipotente elaborazione digitale che, lungi dal minare la referenzialità della fotografia, ha invece stravolto il modo di pensare l’atto fotografico. Non il prodotto insomma ma la produzione. È come se lo scatto si fosse trasformato da momento finale di una pratica di osservazione partecipante, come era per Sellerio, in momento iniziale di contatto con il mondo. Un momento grazie al quale speriamo forse di poter vedere su un monitor qualcosa di più vero di ciò che abbiamo davanti al naso. Non è un caso che la fotografia analogica sia ritornata di moda, con le sue pellicole e le sue stampe, magari proprio per riattualizzare quello sguardo e i piaceri di cui esso si fa portatore. Primo fra tutti l’attesa, di cui la verità non sa fare a meno.
Un’ultima nota riguarda le fotografie in posa, in particolare le tante che ritraggono bambini e ragazzi. È chiaro che la spontaneità in fotografia è un mito per dilettanti, un valore solo per i fotografi della domenica che non sanno costruire un naturale interesse per l’artificio. Quello su cui si riflette meno è che per costruire una posa efficace bisogna interagire con il soggetto. Farsi vedere, parlarci, convincerlo che la lente di un obiettivo è uno specchio con cui giocare. Ancora una volta un tempo, ma soprattutto delle relazioni, non visive questa volta ma umane. Non ho mai visto lavorare Sellerio, ma ho visto abbastanza il lavoro dei fotografi per sapere che alcune delle sue fotografie presuppongono proprio questa capacità di interazione. Magari era proprio questo lo spazio in cui esprimeva la sua altra passione, quella per le parole. A ogni modo, trovo difficile non vedere in queste immagini tanti tratti in comune con quelle di Letizia Battaglia. Come dicevo, non è soltanto una questione estetica (lo sguardo in macchina dei bambini per esempio), tematica (i giochi con le pistole), o compositiva (la moltiplicazione dei piani visivi e narrativi) ma estesica, legata cioè al modo in cui ci si rapporta al mondo prima ancora di fotografarlo. Chissà che non sia stato proprio il lavoro di Sellerio a ispirare questa grande fotografa, di segni mi sembra ce ne siano.
In definitiva allora, l’Antologia di Enzo Sellerio, al di là delle singole opere, della bellezza che esprimono, della curiosità che può suscitare vedere Leonardo Sciascia in un momento di intimità o una Palermo che non c’è più, mette in mostra soprattutto il piacere di fotografare. Un piacere intellettuale che sta tutto nella capacità di guardarsi intorno e vedere immagini grazie all’aiuto di una macchina.
Enzo Sellerio Antologia, Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo”, Palermo
Dal 20 dicembre 2024 al 16 febbraio 2025
In copertina: Elezioni politiche del 1955. Polizzi Generosa. Fotografia di Enzo Sellerio - copyright eredi di Enzo Sellerio