Les rendez-vous de Paris

19 Ottobre 2013

Uno dei luoghi comuni più in voga tra gli italiani a Parigi – forse, anche tra gli stessi abitanti della città, che (r)accoglie un po' tutti – è quello riguardante la poca urbanità dei parigini; la loro poca socievolezza, la scortesia diffusa e generalizzata, il modo secco di tranciare un discorso e la capacità, forse ereditata da qualche salotto di balzacchiana memoria, di mandare a quel paese con il sorriso sulle labbra e, per di più, con una formula corretta e polie, educata, lontana da qualsiasi forma di spontaneo e ruspante turpiloquio. Come tutti i luoghi comuni, qualcosa di vero ci deve essere.

 

Eppure, le conversazioni meno banali che mai mi sia capitato di intrattenere con degli sconosciuti le ho avute proprio a Parigi. Di solito si scambiano banalità con qualcuno che non si conosce nelle sale d'attesa, in una coda; qui, con qualcuno che non conosco, di rado mi è capitato di parlare del tempo. A distanza di anni ricordo ancora frammenti di discorsi interrotti e mi stupisco ancora di quelli più recenti.

 

 

Mi capita soprattutto andando in bici; al mattino, quando magari ho dimenticato gli auricolari, o quando sono così pigra da lasciare l'ipod nella borsa, incastrata nel cestino davanti a me. Da quando, nel 2007, Parigi si è dotata di biciclette pubbliche, in affitto e prelevabili in stazioni sparse un po' in ogni angolo della città, la circolazione delle biciclette in città è aumentata al punto da obbligare la mairie a ridisegnare il traffico urbano a tutela dei ciclisti, introducendo il limite di velocità di 30km/h (poco rispettato, ma è un inizio) in un gran numero di zone della città, di piste ciclabili e di centri di informazione non privi di un certo glam très parigino, come i vari blog del velib', la bici pubblica, o le pubblicazioni sull'uso e gli usi delle bici parigine. Vélo in gloria, dunque; e un traffico autentico, di biciclette, sulle piste ciclabili e per strada.


Capita, ai semafori, di vedere assembramenti di bici, di persone che vanno in direzioni diverse, che ascoltano musica, che guardano nel vuoto e che, a volte scambiano una parola. Differentemente dal traffico umano che popola il métro, di norma un esercito silenzioso o, al più, stizzito e in lotta con il tempo, capita di rivolgersi la parola a un semaforo e di allontanarsi dal sentiero tracciato dei luoghi comuni. Come il pomeriggio che, uscita, o meglio, scappata da un seminario incomprensibile tenuto in un francese ancora più incomprensibile da un professore tedesco, arrivata alla rue des Écoles ho trovato la strada bloccata dalla polizia. Accanto a me, una donna sulla cinquantina, in bici anche lei, in velib' anche lei. Mi spiega, senza che glielo chieda, che il traffico è stato deviato per motivi di sicurezza: un corteo di studenti sta attraversando le strade del quartiere latino per commemorare l'amico e collega Clément Méric, "assassinato ieri sera. Pensi, era ancora uno studente".

 

 

Ho letto di Méric, e rispetto al clamore e alle consuete parole di indignazione della carta stampata, mi piace che metta l'accento sul fatto che fosse ancora uno studente, senza fare nessun riferimento al suo orientamento politico. Forse è un poco materna, ma in quel pomeriggio di confusione, tra i fischietti della polizia e i clacson delle macchine, mi piace. Mi dice:"Parcheggiamo e andiamo anche noi". Resto senza parole... voglio tornare a casa, sono stanca e poi non amo i cortei e la folla. Però la accompagno per un pezzo, questa sconosciuta indignata; camminiamo un po' insieme in silenzio, fino a che non trova un posto per il suo velib'. Voglio vedere il corteo. Mi racconta il fatto di cronaca, che titola ogni giornale.

 

 

Clément Méric è uno studente, ma anche un militante in un gruppo antifascista: è morto in seguito alle percosse ricevute dai militanti di un gruppo di estrema destra, incontrati in un'occasione banale, una vendita privata di vestiti nel nono arrondissement parigino. Il corteo di studenti sembra quello che è, un corteo funebre, senza bandiere e senza insegne. C'è silenzio. Lascio la donna in bicicletta con un sorriso, non riesco a dirle altro, e torno a casa risalendo il boulevard saint-Germain, di nuovo in mezzo ai clacson e ad un flusso anonimo di macchine arrabbiate, perché è l'ora di rientrare a casa. Mi vengono in mente i versi che due volte chiudono due Horae canonicae di Auden: parlano entrambi di un giorno che volge al termine, e di una morte senza senso.

 

Oltre alle decine di ciclisti che giornalmente mi segnalano che ho la borsa aperta, che sto perdendo un libro, che sto andando nel senso di marcia sbagliato e che è pericoloso, mi capita anche di scambiare parole inaspettate con "motorini" e conducenti d'auto. Qualche giorno fa, a Place de Chatelet, mentre aspetto il verde guardo i manifesti del Festival d'Automne. Ci sarà Bob Wilson, sono mesi che cerco di ricordarmi di acquistare i biglietti per il suo; guardo il manifesto pensando a un metodo per ricordarmi di ricordarlo. Accanto a me, in un furgoncino dal finestrino aperto, due uomini mi guardano. Devono essere arabi, li associo subito alla popolazione di Belleville, che conosco e riconosco un po' da anni. Non ho la musica. Sono un poco prevenuta, mi aspetto qualsiasi commento.

 

Bob Wilson, The old woman

 

Invece, uno di loro deve aver notato che stavo fissando Wilson, perché mi dice "E' bellissimo quello spettacolo, sa? L'ho visto in Italia quest'estate, non aspetti a prendere i biglietti!". Gli rispondo che lo so, Wilson era in programma al Festival dei Due Mondi di Spoleto, dove abita la mia famiglia, e anche mia madre mi ha raccomandato di andarci. Sente che sono italiana, ma invece di fare commenti sulla bellezza del bel paese, mi fa i complimenti per il francese e aggiunge "Se potessi, io andrei a teatro tutte le sere sa?". Gli rispondo che io andrei al cinema tutte le sere, è questione di gusti, e ridiamo. Scatta il verde e lo sorpasso, visto che mi dà la precedenza; ci salutiamo rapidissimi, gli dico che prenderò i biglietti, e li faccio per davvero, quella sera stessa.

 

Qualche giorno fa, ho dato prova della mia poca urbanità. Arrivando in prossimità di un semaforo, sono quasi andata addosso a un'altra bicicletta di fronte a me, un po' per distrazione e un po' perché andavo spedita. Accanto a me, un ciclista sorride e mi dice: "Forse dovrebbe bere un po' di meno!". In un altro momento forse ci avrei riso su, invece lì per lì mi dà fastidio. "Ma come si permette?" Non lo guardo più, mi pento un po' della risposta acida e scatto al verde, più veloce di prima. Mi segue. Ad un nuovo rosso, mi fa segno di fermarmi, si scusa. "Sono solo contento perché sto tornando a casa e ho finito di lavorare, forse pensavo proprio per questo di andare a bere un bicchiere, ma non volevo certo offenderla. Anzi, se mi permette, le va se la invito?" Resto interdetta. Mi scuso anche io; ho un appuntamento ma lo ringrazio, per pentirmi dopo cinque minuti per l'aperitivo mancato e per la conversazione interrotta.

 

 

Non credo che sia la città sullo sfondo a generare conversazioni speciali, o incontri speciali; certo, conosco a memoria Les rendez-vous de Paris di Rohmer, ma anche lì, sono i dialoghi tra i personaggi a rendere speciale il film. La possibilità di uscire per un attimo dalla solitudine della città, grande, e di cui a volte si ignorano la vita e gli accadimenti, è semplice e rassicurante, non mediata, e non raccontata da luogo comune alcuno.

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