Jim Jarmusch. Only lovers left alive
Only lovers left alive (2013) è un film in cui non succede granché: questo il commento più frequente dei suoi detrattori. A distanza di quattro anni dall’ultimo film di Jim Jarmusch (The limits of control, 2009), la poca azione che vediamo sullo schermo è probabilmente anche la causa che ha ritardato la realizzazione di questo film, da lungo tempo tra i progetti del regista americano.
In un’intervista al quotidiano francese Libération, Jarmusch racconta infatti con una certa ironia della difficoltà di trovare dei finanziamenti nonostante i vampiri siano da sempre materia cinematografica di sicuro richiamo, in particolare di recente, dopo l’invasione di tv series americane sui vampiri, libri e films per adolescenti a tinte – pacatamente – dark. In questi films, ironizza Jarmusch, c’è “troppo”, too much. Troppa azione, troppi personaggi – vampiri, lupi mannari, zombies – ad animare storie naturalmente romantiche ma anche triangolari (chi abbia conoscenza dei fatti di Twilight, saprà certo che Bella Swan, l’umana innamorata del vampiro Edward, è anche attratta da un lupo mannaro; nella serie americana The Vampire Diaries due fratelli vampiri, il buono e il cattivo, si contendono i favori della non troppo umana protagonista; per non parlare delle avventure erotiche di Susie Stakehouse di True Blood, una vera mattatrice di vampiri, licantropi e quant’altro).
L’azione, le lotte, le guerre che condiscono queste saghe possiedono inevitabilmente il sapore della continuity di una serie tv. A questo sembra alludere Jarmusch, che propone invece un racconto più semplice, in cui il vampiro è, per sé, degno di interesse. Al punto che al centro della storia non c’è quasi alcun motivo tipico delle storie di vampiri, come le difficoltà insorgenti dall’amore tra un essere umano e un vampiro, o quelle legate al suo nutrimento.
Il film di Jarmusch, in cui per quasi due ore "non succede niente", è soprattutto una storia d’amore. Tra due creature immortali, ma immortali come lo sono gli scrittori, i musicisti e i poeti che popolano l’immaginario del regista: Lou Reed, Edgar Allan Poe, Oscar Wilde, Byron, Joe Strummer, Schubert, Baudelaire. Questi “immortali” fanno parte del sancta sanctorum di Jarmusch e di quello del vampiro musicista Adam: nella casa in cui si è rinchiuso in un esilio notturno da rocker in declino (popolarissimo, in realtà, e ricercatissimo dai suoi fans, forse proprio a causa di questo isolamento) a Detroit, Adam vive nel passato e al riparo da qualsiasi contatto con il mondo esterno.
Dalle pareti, i ritratti dei suoi immortali vegliano su di lui e rimandano a un passato non vagheggiato perché migliore del presente, ma perché passato all’interno di una vita, quella di Adam, stanco e appesantito dagli anni e da se stesso. Lo animano l’amore per la musica, che soddisfa suonando “soprattutto musica funebre” e comprando chitarre e strumenti d’epoca grazie alla mediazione di un umano fedele e suo “fan”, e l’amore per la vampira Eva/Tilda Swinton.
Eva vive a Tangeri, in una mecca notturna fatta di scale e di vicoli bianchi che attraversa, evanescente e bellissima, per incontrare l’amico e poeta vampiro Christopher Marlowe, al café Les milles et une nuit. Eva, si intuisce, è più vecchia di Adam, e forse anche più saggia; l’amicizia che la lega al poeta Marlowe (John Hurt) la arricchisce, come anche le infinite letture, i libri che legge velocissima, scorrendo appena il dito sulle pagine e, non da ultimo, l’amore per Adam, che raggiunge a Detroit dopo averne percepito al telefono la malinconia.
Gli amanti ricongiunti sono le metà speculari che strutturano la narrazione cinematografica: tanto è malinconico lui, disgustato dalla contemporaneità, che lo saccheggia della musica che compone (non si capisce come, piratata su youtube e suonata nei locali di Detroit), tanto è luminosa lei. La musica di Adam è notturna, nei pezzi composti dallo stesso Jarmusch, dilatati e quasi minimalisti (bellissima The taste of blood, di Jarmusch e Van Wissem, che sembra di ascoltare continuamente e in più declinazioni lungo tutta la durata del film); la musica evocata o fatta suonare da Eva su un giradischi, un invito alla danza che omaggia i Seventies americani, Wanda Jackson, il blues di Denise LaSalle.
Tra i vezzi che accompagnano i vampiri secondo Jarmusch, una certa empatia con la natura (entrambi conoscono i nomi scientifici di piante arbusti e animali), l’amore per la musica (tantissima, suonata, raccontata e ascoltata, dal pub di Detroit in cui Adam riascolta la sua musica rubata al concerto della cantante libanese Yasmine Hamdan, al quale Adam e Eva assistono per caso in un vicolo di Tangeri), i guanti di pelle e gli occhiali da sole anche di notte (un auto-omaggio del regista?), l’allure della rockstar condannata ad essere se stessa per sempre, anche quando si invecchia e il tempo passa.
Tutto questo, e una certa indulgenza verso se stesso e i propri miti, nel film di Jarmusch. Si invecchia e si diventa sempre più esigenti, meno (o affatto) disposti ad accettare quello che non piace, o che le cose cambino. Moderno Byron, amante delle rovine, Adam porta Eva a visitare quello che rimane del Michigan Theater di Detroit, costruito all’inizio del Novecento nel sito dov’è nata la Ford: teatro scintillante e luminoso una volta, rimessa per auto oggi, di cui restano solo i contorni e di cui pure è possibile ancora immaginare i fasti. Bilanciato ed equilibrato dal buon senso di Eva (“qui c’è l’acqua, Detroit splenderà di nuovo quando a sud ci sarà la siccità”), Adam stempera la propria malinconia e si convince a seguirla a Tangeri, dove assistono insieme alla morte di Marlowe, avvelenato da una partita di sangue “contaminato”, e dove vagano, come due amanti alla fine del mondo, o come una coppia all’uscita di un concerto rock, mano nella mano e fasciati entrambi in pantaloni di pelle, bellissimi e affamati, alla ricerca di sangue.
In questa lettura secondo Jarmusch del mito dell’immortalità, il messaggio è chiaro: il nucleo costituito dagli amanti, un nucleo chiuso, è l’unica possibilità di salvezza – di sopravvivenza. Così accade che, rispetto ai protagonisti di altri suoi films, questi vampiri, chic e un po’ blasés, perché no, non siano affatto delle creature marginali – come lo era invece il Forest Whitaker di Ghost Dog –, ma delle creature che da sole si sottraggono al mondo circostante perché li ha stancati, o che al più se ne abbeverano quando ne hanno voglia.
Per due ore, lo spettatore assiste alla messa in scena della vita insieme di due persone che vivono (insieme) da secoli e che ancora si amano al punto da preferire se stessi a tutto il resto – il cameo di Mia Wasikowska, nei panni della sorella di Eva, Ava (!), è appunto solo un cameo, inserito quasi come un elemento di disturbo – di azione – nella vita dei due amanti Adam e Eva. Assistiamo quindi ad un miracolo – quello di chi si ama dall’eternità, e deve far fronte ad una certa stanchezza, alla fatica della ripetizione e del tempo che passa. E come fa questo ad essere poco? Semmai, tutt’al più, forse si può essere tentati dall’invidiare questi vampiri romantici, che hanno a che fare con l’eternità quale unico problema.