Il risveglio della furia nazionalistica in Europa / Brexit. Disgregare il Regno Unito

31 Marzo 2017

Il Regno Unito, che un anno fa si presentava come una delle società più attraenti del mondo, ricca, creativa e democratica, con una capitale dove affluivano esseri umani da tutto il pianeta, è stato travolto in meno di un anno da dinamiche disgregative che lo allontanano rapidamente dall’Europa e rischiano di frammentarlo nelle diverse nazioni che lo costituiscono. All’inizio il referendum Brexit era apparso una manovrina astuta, strategica del Primo ministro Cameron per far fuori la propria destra. Aveva in mente calcoli elettorali; i conservatori avevano imprevedibilmente vinto le ultime elezioni e cercavano di difendersi dalla minaccia che aveva rischiato di dividerli, quella dello UKIP (United Kingdom Independence Party). Per evitare che il partito corresse nuovamente il rischio di una emorragia a destra, Cameron aveva quindi promesso il referendum sull’Europa. 

Il partito UKIP aveva preso nelle politiche una buona proporzione di voti, ma penalizzato da un sistema piuttosto arcaico di conteggi elettorali si ritrovava con un unico deputato, Douglas Carswell, che ha appena lasciato l’UKIP. 

 

L’unico scopo dello UKIP era Brexit: senza ideologia e di estrema pochezza nei suoi politici, somiglia per intenderci ai 5 Stelle (con cui infatti si è alleato). UKIP vive della rivolta universale e costante alla classe politica, ma senza orizzonti precisi. Senza passato e senza futuro, la sua vera proposta è sfasciare, distruggere, perché comunque tutto è meglio di quel che c’è. Articolare le opinioni in un dibattito rischierebbe il contraddittorio, mentre quello che interessa è la società, che sarebbe truffata o mal guidata dall’attuale classe dirigente. Si può alleare quindi a destra o a sinistra, non fa nessuna differenza, e i suoi rappresentanti diventano facilmente veicoli di interessi preesistenti e meno trasparenti. 

 

UKIP raccoglieva originariamente soprattutto fuoriusciti della destra, emarginati dal potente partito Tory. Cameron si era sentito sicuro di poter stravincere il referendum: poteva contare sulle opinioni di tutti gli esperti, le grandi banche, metà del suo partito, i laburisti, i liberali, i nazionalisti scozzesi. Il gruppo dirigente dei Tory, che è sostanzialmente il partito nazionalista inglese (grande parte della base elettorale laburista è sempre stata in Scozia e nel Galles, cosa che spiega l’indebolimento odierno di Corbyn dovuto proprio alle sue ambiguità sull’Europa), è composto da due anime principali: una molto ricca, educata nelle costosissime scuole private inglesi (di cui fanno parte David Cameron, Boris Johnson e George Osborne), un’altra, popolare, che ha sostenuto la Thatcher negli anni ’80 e il cui prototipo odierno è David Davies e la stessa Theresa May. 

 

Il primo gruppo ha la caratteristica ambizione di piacere che distingue i privilegiati. Il potere non basta, bisogna essere simpatici, culturalmente superiori, come se le qualità dialettiche fossero una giustificazione delle incredibili cifre che sono state spese nella loro educazione (Eton, ad esempio, costa almeno 50.000 euro all’anno). Sono personaggi che restano spesso enfants gatés e per eccessiva sicumera si lasciano ingaggiare volentieri in discussioni in cui competono con liberali e sinistra come se a vincere dovesse essere non solo il più forte, ma il migliore in ogni senso. 

 

Per togliere al partito conservatore l’etichetta di Nasty Party (Partito disgustoso), come aveva definito i Tory la stessa Theresa May in un recente congresso, hanno parlato nel periodo di Cameron di Big Society, e anche in occasione del referendum hanno argomentato in maniera sofisticata il futuro delle isole britanniche senza sapere bene cosa volevano. Boris Johnson, ad esempio, che ha guidato la campagna per lasciare l’Europa, aveva scritto due articoli paralleli, uno pro e l’altro contro l’uscita dalla UE. Ha dichiarato in seguito di averlo fatto per chiarirsi le idee, ma si potrebbe osservare che lo stesso Cameron avrebbe benissimo potuto sostenere entrambi le posizioni. Tiepidi in tutti i convincimenti, i membri di questa classe dirigente sono stati accusati, quando la situazione gli è scappata di mano, di Eton Mess (che è anche il nome di un dolce), ma che qui significava Pasticcio Eton. E cioè che il destino della Gran Bretagna fosse stato deciso come in una debating society della famosa scuola che ha educato Cameron e Johnson, dove gli studenti sono incaricati di difendere retoricamente un’opinione a prescindere dai propri convincimenti, per mettere alla prova le capacità dialettiche.

 

Illustrazione di Andrea Angeli.

Illustrazione di Andrea Angeli


L’altra anima del partito conservatore, quella popolare, è molto più brutale. Non ha mai avuto tenerezza per le argomentazioni, né quelle sofisticate né quelle rozze. Relegata in una posizione di secondo piano per un lungo periodo dopo la sconfitta di John Major e il tramonto dell’epoca thatcheriana, diversi suoi rappresentanti, generazionalmente più anziani del gruppo di Cameron, si sono ritrovati inaspettatamente utili al partito per inseguire Nigel Farage, che ha fatto la sua campagna elettorale ammiccando dai pub, e con una pinta di birra in mano e con argomentazioni confuse, sentimentali, rifiutando l’opinione degli esperti (e cioè dei laureati) e dando invece voce ai tanti frustrati della destra e presto della sinistra.

Le statistiche economiche che sono state sciorinate da entrambi gli schieramenti dicono poco in se stesse, si parla sempre di nazioni ricchissime. Sono molto più precise (e antiche) se consideriamo il rapporto della nazione con Londra. 

Se due fratelli avessero comprato la propria casa nel 1989, uno a Londra e l’altro nella campagna dello Yorkshire, il primo avrebbe visto aumentare il proprio capitale di 20 volte, il secondo di 2 volte. Il primo è oggi un milionario, il secondo no. Senza contare che le notizie, la cultura, tutta la vita del paese è progressivamente diventata dipendente da Londra. A Londra la popolazione permanente di otto milioni di abitanti supera nel corso della settimana i venti milioni, tutte persone che arrivano in città per concludere qualcosa. Metà dell’Inghilterra. Solo la Scozia, che è un’altra nazione, non si sente periferia di Londra.

 

Nigel Farage non aveva bisogno di fare propaganda: l’antagonismo contro la capitale era già tutto lì. Ha comunque promesso l’impromettibile, la fine dell’immigrazione e della globalizzazione. Temuto dagli stessi rappresentanti del Leave, perché intellettualmente rozzo, un Trump prima di Trump, è stato l’eroe dei giornali popolari, il vero vincitore di un consenso sovversivo che voleva distruggere gli accordi esistenti, gli equilibri con l’Europa, l’attrattiva esercitata da Londra e dalle élite metropolitane. 

A questo punto si è innescata una dinamica che non solo ha ribaltato le previsioni ottimistiche di Cameron, quelle appunto di vincere il referendum e riassorbire la dissidenza di destra, ma ha svegliato un mostro che è sempre in agguato nella società inglese. Se dietro la parola immigrazione, che è complicata ma pronunciabile, leggiamo quello che davvero è il fantasma dell’impero coloniale, e cioè il razzismo, che non ha nulla a che fare con gli altri europei ma ha invece le sue radici nell’ideologia che ha caratterizzato il colonialismo britannico dalla fine del settecento al 1950, capiamo anche la confusione tra Islam ed Europa. I vecchi inglesi sono in realtà spesso razzisti, come si vede dalle reazioni di Farage all’attentato a Westminster del 22 marzo, opera di un inglese nato nel Kent, di 52 anni, che si è convertito da adulto all’Islam, isolato. Le affermazioni erano false, illogiche (ha dato la colpa a Blair e all’immigrazione), ma assolutamente coerenti con la retorica nazionalista, coloniale, anti-londinese che ha caratterizzato il referendum.

 

Carlo Cattaneo scriveva in bel saggio sulla città a metà dell’ottocento, in cui paragonava le Isole Britanniche e la Lombardia, che gli inglesi amano fare tutti soldati o generali. Quello che è accaduto con il referendum è stato un ammutinamento. Dopo alcune settimane di panico, con le dimissioni di Cameron, i conservatori hanno rapidamente eletto la May primo ministro, ma per mantenere il consenso anche lei ha dovuto inseguire l’umoralità senza programma di Farage che già Cameron aveva tentato di sconfiggere. Un cupio dissolvi in cui non solo la Scozia e l’Irlanda, storicamente scontente della sudditanza a Westminster, ma persino il timido Galles hanno iniziato a minacciare la secessione. Per non dire naturalmente di Londra, la fucina della ricchezza inglese e il vero obiettivo del rancore delle home counties, cioè l’Inghilterra ex-rurale popolata oggi soprattutto da impiegati che fanno avanti e indietro con Londra. Un’opposizione antichissima, già catturata da Shakespeare nel contrasto tra Falstaff e il principe Hal.

 

In questa dissoluzione gli europei in Gran Bretagna sono solo le vittime evidenti di oggi. Devono improvvisamente provare che i soldi che hanno pagato in tasse, il lavoro, il contributo alla società in cui hanno vissuto, ha avuto un senso. Forse questo potrà anche essere messo a posto, accordi bilaterali e la necessità di mantenere un equilibrio tra UK ed Europa potrebbero bastare. L’obiettivo, o piuttosto l’ideologia su cui posa questa nostalgia identitaria imperiale, l’anti-islamismo, il senso di superiorità razziale, invece continuerà. L’Inghilterra parla di un ritorno al Commonwealth come se le colonie che si sono liberate dal dominio britannico attraverso rivoluzioni a volte sanguinose fossero lì ad attenderla con le braccia aperte. Parlano contro il multiculturalismo come se Australia, Canada o Sud Africa non fossero oggi, come del resto gli USA, società che hanno integrato immigrazioni molto più massicce di quella che ha raggiunto l’Inghilterra.

 

Il vero dramma per questi elettori è che non è possibile tornare indietro. Gli si può raccontare che Brexit è Brexit, come dice in modo poco illuminante il primo ministro inglese, che l’Inghilterra veleggia verso nuove identità, in realtà sta andando contro gli scogli. Il voto è stato rancoroso, la nostalgia e l’invidia dei più anziani contro i giovani. Per questo il dibattito è pieno di amarezza e rancore. 

Le cose sono ormai avvenute, l’Inghilterra è già mutata, la sua composizione sociale, i suoi legami economici sono altri da quelli di cinquant’anni fa. Per definizione, il ritorno nella storia è impossibile. Per questo disegna scenari immaginari.

Su questa situazione confusa e dolorosa, dove ormai da nove mesi gli inglesi si divorano reciprocamente con accuse e controaccuse, le nazioni satelliti vicine (Scozia, Irlanda e Galles) si ritrovano nella situazione di colonie vicine a cui Westminster vorrebbe disconoscere l’eguaglianza con un tono paternalista, che tradisce di nuovo un senso di superiorità etnica che ovviamente non fa che rinfocolare le spinte secessioniste. 

 

L’Europa è nata nelle prigioni fasciste da un bellissimo, lucido progetto antinazionalista, si è sviluppata dapprima timidamente e poi rapidissimamente con la fine della guerra fredda. Schengen, l’Euro hanno avuto uno sviluppo formidabile nel vuoto di potere che la caduta del muro di Berlino ha improvvisamente lasciato nel continente. La scoperta di queste settimane di vaste quantità di denaro criminale russo, vicinissimo al Cremlino, che circolano nella City non può non destare sospetti paralleli a quelli che ha destato l’interferenza nell’elezione di Trump per gli americani. Certo non bisogna esagerare nel complottismo, ma il denaro non è inerte, viene investito. Se l’Europa saltasse è chiaro che il primo a beneficiarne sarebbe l’ex URSS, che potrebbe ribadire la sua influenza su un’area geografica importante e ricca che fino a 25 anni faceva parte del suo mondo. Simmetricamente gli USA, che hanno plasmato l’Europa, hanno di fronte nella UE di oggi un rivale culturale oltre che commerciale che i suprematisti repubblicani vorrebbero domare. Fermi non si può stare: o si va verso l’integrazione o verso la disgregazione. O verso la pace, o verso la guerra. In quale modo un disegno di destabilizzazione europea si realizzerà, non sarà di dominio pubblico.

 

Noi italiani, che abbiamo avuto stay behind e Gladio, e l’influenza sovietica nel PCI, non dovremmo essere Vispe Terese di fronte alle spinte anti europee che abbiamo di fronte. Titoli di giornali contro i giudici descritti come “nemici del popolo” che ha pubblicato il Daily Mail nella sua scatenata eurofobia non si vedevano in Europa dalla conquista del potere di Hitler. Dobbiamo ricordarlo e dirlo, perché i dittatori degli anni trenta dello scorso secolo godevano inizialmente di un consenso molto minore di quello di Brexit. È stata la furia nazionalista che hanno risvegliato a distruggere l’Europa.

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