I migranti vanno dove c’è un futuro, altro che Italia! / Xenofobia. Perché non serve

1 Aprile 2016

Alcuni dati statistici pubblicati di recente gettano una luce sorprendente e ilare sul rigetto dei rifugiati da parte dell’Europa, su quella che sbrigativamente chiamiamo xenofobia. Questi numeri mostrano che i paesi dove la gente si dice più favorevole ad accogliere i rifugiati – a parte la Spagna e la Grecia – sono anche quelli dove i rifugiati e gli immigrati aspirano ad andare più che in ogni altro paese europeo. Il paese più favorevole in assoluto è la luterana Svezia (94%), seguita da Paesi Bassi (88%), Danimarca (86%) e Germania (83%). La maggioranza degli esuli afferma di voler andare proprio in questi paesi. I paesi più contrari – prima di tutti l’Ungheria (67%), poi, in ordine decrescente, Repubblica ceca, Bulgaria, Slovacchia, Lettonia e Italia (46%) – sono invece paesi dove questi esuli non hanno nessunissima intenzione di andare, se non come paesi di passaggio verso Germania o paesi scandinavi, o Gran Bretagna. È il paradosso della paura degli stranieri: essa è più forte quanto meno gli stranieri in quel paese ci vogliono restare.

 

Quando Timothy Garton Ash ha chiesto a un profugo afgano sedicenne a Berlino perché non se ne fosse restato in Italia, costui ha risposto: “Italien hat kein Geld”, “l’Italia non ha soldi”. Risposta scientificamente impeccabile.


Si prenda la chiusura delle frontiere ad opera di Ungheria e Macedonia: questi paesi per i rifugiati sono solo strade di passaggio. Questi paesi, con i loro muri e fili spinati, lavorano di fatto per la Germania, l’Olanda, la Danimarca e la Svezia: fermano i disperati prima che giungano laggiù.
Questo paradosso rivela lo stato confusionale che si accompagna, di solito, alla xenofobia. La giornalista ungherese Petra László è celebre per aver dato lo sgambetto e calci a una bambina e a suo padre, profughi, che fuggivano la polizia magiara al confine serbo-ungherese; il video di quell’atto vile è diventato virale, e la giornalista fu cacciata dall’agenzia per cui lavorava. Ma perché correvano quei poveretti a cui la bionda e bella giornalista dette lo sgambetto? Essi cercavano di non essere fermati, e quindi registrati, dalla polizia ungherese non perché temessero di essere rimandati in Serbia, ma perché volevano evitare di essere appunto registrati: secondo le norme europee (trattato di Dublino) un esule deve restare nel paese dove è stato inizialmente schedato. E siccome l’Ungheria era il primo paese UE in cui quei disgraziati entravano, avevano paura di dover restare in Ungheria! Facendo cadere quei fuggitivi, la reporter non si rendeva conto, quindi, di star contribuendo a farli restare nel proprio paese, proprio ciò che, a parole, essa paventava. Questo gesto in apparenza isolato rivela lo stato confusionale degli anti-immigrati.


Ad esempio, una maggioranza degli italiani è favorevole alla sospensione del trattato di Schengen. Ora, è evidente che se c’è un paese che ha tutto l’interesse, invece, a mantenere Schengen è proprio l’Italia (assieme alla Grecia): la stragrande maggioranza delle persone che sbarcano in Italia non hanno alcuna intenzione di restare in Italia. Il blocco delle frontiere ci costringerebbe quindi a tenercele.
Allora, gli xenofobi sono semplicemente stupidi? Ma non bisogna guardare troppo la pagliuzza irrazionale nell’occhio altrui per evitare di vedere la trave di irrazionalità nel proprio.
L’ordine di preferenza dei paesi europei dove i rifugiati vogliono andare riflette, in modo alquanto oggettivo, l’ordine di benessere, ricchezza, qualità della vita – alcuni direbbero enfaticamente: di civiltà – dei paesi europei. I rifugiati sanno che non solo sono accolti meglio in Germania e in Gran Bretagna, ma che in questi paesi è più facile trovare lavoro e rifarsi una vita. Se tanti giovani italiani – dal pizzaiolo al fisico teorico – emigrano in altri paesi europei per trovare lavoro, perché mai siriani, iracheni, afghani, somali, libici, ecc., dovrebbero venire a cercare lavoro in Italia? Gli xenofobi non si rendono conto che essere meta di immigrati è un riconoscimento autorevole del proprio benessere: più un paese sta bene, più sarà meta di immigrati. Così è stato per gli Stati Uniti da un secolo e mezzo, così è per l’Europa oggi.


Qualcuno dice giustamente che è ridicolo il fatto che un’Unione di 500 milioni di abitanti non riesca a sistemare al proprio interno tre milioni di profughi. Ma è anche vero che i paesi europei davvero interessanti per i profughi contano poco più di 150 milioni di abitanti. I nuovi immigrati sarebbero circa il 2% della popolazione di questi paesi. Non è poco.


In Francia, chi non è rimbecillito dal lepenismo si è posto il problema: “perché tutti questi rifugiati ai accalcano a Calais nella melma attendati sotto la pioggia per cercare di raggiungere l’Inghilterra e non pensano di restare da noi? Da sempre la Francia è terra d’asilo degli esuli.” È semplice: perché in Gran Bretagna l’economia e la società civile vanno meglio che in Francia.


L’argomento classico degli xenofobi è che se un paese ha molti disoccupati, non c’è posto per gli immigrati. Ma i dati mostrano che i paesi che hanno più immigrati – come la Germania – sono quelli che hanno meno disoccupazione. I paesi che hanno meno immigrati – come Spagna o Grecia – hanno più disoccupazione. Per una ragione molto semplice: gli immigrati si dirigono, istintivamente, verso i luoghi dove l’economia tira, e dove quindi si aprono nuovi spazi lavorativi.

 


Lo stato confusionale non è però riservato agli xenofobi, ma permea i leader di tutti i paesi europei, nessuno escluso. Non perché questi leader siano necessariamente miopi o stupidi, ma perché l’immigrazione di massa è un fenomeno difficilmente governabile, ed essa scatena una profonda ambivalenza. La realtà è che una parte della popolazione di ogni nazione europea vuole gli immigrati, un’altra parte non li vuole. E i leader, dovendo rappresentare il loro paese in toto, di fatto devono volerli e non volerli. Se li vogliono, cercano di controllare i flussi, il che però risulta in atti inumani.
Ad esempio, l’Austria a un certo punto ha detto che poteva accettare 80 profughi al giorno; ovvero attorno ai 29.000 all’anno. Pochi o molti? I governanti austriaci hanno fatto un calcolo e si sono detti: possiamo accogliere 30.000 stranieri in un anno, e non tutti alla volta, in modo da organizzare il loro inserimento. Giustissimo. Ma intanto quali 80 scegliere di volta in volta? Chi deve aspettare mesi o anni in una fetida tendopoli per poter entrare in Austria?

 

Gli europei cercano di controllare l’incontrollabile. Da qui un colpo al cerchio e l’altro alla botte, gioco che scontenta di fatto sia chi è ostile all’immigrazione sia chi è a favore. Alcuni leader riconoscono che l’immigrazione è una risorsa, soprattutto economica, per i nostri paesi, non un disastro. Di fatto però regalano miliardi alla Turchia perché questa si tenga milioni di esuli dalla Siria e dall’Iraq. È evidente che ben pochi esuli vogliono restare in Turchia, il loro obiettivo è l’Europa: ma l’Europa dice loro di no aiutando la Turchia a tenerseli in casa. Ma allora, gli immigrati sono una risorsa o un disastro?


Sappiamo che i profughi faranno di tutto per lasciare la Turchia e venire in Europa, ma noi europei vogliamo selezionare quelli che ci fanno più comodo. La Turchia dovrebbe essere una sorta di vivaio umano da cui scegliere “i migliori”, così come dal fruttivendolo si scelgono le banane migliori lasciando da parte quelle troppo mature. E chi sono i migliori immigrati?


Sono i giovani adulti, uomini e donne, in buona salute e intelligenti, con figli piccoli. Colti? La cosa è discutibile. Se sono troppo colti, verrebbero a fare concorrenza alle falangi dei nostri intellettuali disoccupati o sotto-occupati, ma potrebbero contribuire alla crescita del livello culturale del paese. Se lo sono troppo poco, saranno disponibili a fare lavori umili mal retribuiti, lavori che, suol dirsi, gli italiani non sono più disposti a fare (badanti, infermieri, prostitute, cameriere, braccianti); ma in questo modo si abbassa il livello culturale del paese in generale. I peggiori immigranti sarebbero gli anziani, gli handicappati, gli stupidi e i poco colti. Ma se una famiglia arriva con bambini e nonni, cosa si fa, si accettano i genitori e i bambini e si lasciano i nonni in Turchia? Si accetta la sorella in gamba e si rifiuta il fratello un po’ lento? A Ellis Island a New York si setacciava la massa di immigranti che arrivava dall’Europa, anche con test di intelligenza perché la stupidità – si diceva – è la peggiore malattia che si possa importare. In una stessa famiglia, uno superava il test di intelligenza e passava, un altro invece non lo passava e veniva deported. Una separazione che oggi consideriamo inumana. Insomma, il controllo dell’immigrazione è necessario e impossibile al tempo stesso, atto di umanità e selezione nazista allo stesso tempo.

 

Questa ambivalenza o incongruità traspare anche dal linguaggio che usano i politici e i media. Si deprecano “gli scafisti” chiamati “mercanti di uomini”. Ci si vanta di aver individuato e arrestato chi guidava la vecchia carretta di mare in cui magari sono morte decine di persone. Ora, prendersela con gli scafisti – nel senso di chi guida uno scafo – è come vantarsi di arrestare il piccolo spacciatore di droga per strada pensando di aver così inferto un colpo al mercato della droga. Il piccolo spacciatore è spesso lui stesso un tossicomane, come per lo più chi guida uno scafo è lui stesso un profugo, a cui è consentita la traversata gratis se si prende la responsabilità di guidare quello scafo (cosa che fa, spesso, senza saperlo guidare). Lo scafista è di solito un disperato come gli altri, che rischia la propria vita proprio come gli altri. I veri “scafisti” sono quelli che chiamerei “scafiarchi”, ovvero signori degli scafi, i quali non si imbarcano ma se ne stanno in belle ville, suppongo, sulle coste mediterranee. Tra scafisti e scafiarchi c’è la stessa distanza che c’è tra il tossico che spaccia per comprarsi una dose e il boss mafioso o camorrista che organizza il commercio. Ma perché allora si induce nella testa della gente questa confusione?


È evidente che non appena si proibisce un oggetto desiderabile – alcool, hashisch, cocaina, armi, informazioni militari, video pedofili, ecc. – automaticamente si viene a creare un mercato criminale parallelo. Le varie mafie non fanno altro che reintegrare i meccanismi del mercato in ambiti che gli stati vogliono sottrarre al libero mercato. Gli scafiarchi sembrano quindi obbedire alla stessa logica. Ma non è così.


In effetti, essere rifugiato non è un reato. Molte nazioni ammettono che è un diritto per il rifugiato essere accolto. Chi si imbarca in Libia su una barcaccia per raggiungere la Sicilia non fa nulla di illegale. Ma viene criminalizzato chi guida la barcaccia, come se avesse costretto lui i passeggeri alla traversata. È qui che sprizza la contraddittorietà di tutta la politica europea: da una parte si dice che la gente ha ragione a fuggire venendo in Europa, dall’altro si dice che chi li aiuta a farlo è “mercante di uomini”. In questo modo camuffiamo la nostra incertezza: perché se davvero l’Europa volesse i rifugiati, fornirebbe loro scafi sicuri e confortevoli, ma non li fornisce, ragion per cui devono far ricorso agli scafiarchi. Da una parte si invitano, verbalmente, siriani e iracheni a fuggire la guerra e a venire da noi, dall’altra si incriminano quelli che materialmente li portano da noi.


Questa incoerenza, come abbiamo detto, riflette la divisione profonda dei nostri paesi. Tra le classi medio-alte favorevoli all’immigrazioni e le classi medio-basse che la detestano (ribaltando così in modo imbarazzante le categorie a cui si abbarbica la sinistra storica). Perché chi è meno colto e più povero considera il proprio paese, il proprio territorio, come casa propria, e non vuole che estranei la occupino. Problema che non si pone per i ceti più alti, già globalizzati.


Si ripete che l’immigrazione di massa è una catastrofe biblica a cui non c’è soluzione. Non c’è perché le nostre società europee sono profondamente divise. Da qui gli atti incoerenti dei capi delle nostre società.

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