Usa e Regno Unito / Razzismo e five eyes

8 Luglio 2021

Lord Frost, il commissario inglese per gli affari europei, ha detto di essere sorpreso dall’ostilità europea nell’implementare il protocollo irlandese che fa parte dell’accordo Brexit. Schierato con i remainers, è stato incaricato dal primo ministro di tentare di mantenere una buona relazione con l’Europa. Frost non è Nigel Farage, che all’inno alla gioia di Beethoven si alzò in piedi e voltò le spalle al parlamento. 

Ma per quanto numerose siano le ragioni che si mescolano nel Brexit, un segno lo ha certamente lasciato Farage. Per cercare di capire di quale segno si tratti e che problemi abbia oggi la Gran Bretagna, bisogna riflettere su quanto è complicato questo momento per loro. 

 

Per semplificare possiamo distinguere due orizzonti: una nostalgia imperiale, sentita soprattutto dalla popolazione anziana che abita nelle campagne, nutrita da sempre con storie sentimentali su Churchill, la seconda guerra mondiale, Downtown Abbey, the Crown e via dicendo. L’altro orizzonte è l’attrazione della anglosphere e di un sistema di dominio del pianeta incardinato su five-eyes. Five eyes è iniziato nella seconda guerra mondiale con la condivisione di intelligence militare dei servizi segreti di USA, Inghilterra, Nuova Zelanda, Australia e Canada. L’organizzazione è cresciuta in modo esponenziale: prima attraverso la guerra fredda, quindi attraverso la guerra al terrore dopo le torri gemelle e oggi, grazie alle formidabili capacità tecnologiche sviluppate negli ultimi vent’anni, ha raggiunto una straordinaria dominazione del mondo che va ben oltre le funzioni militari e che inevitabilmente si mescola alle agenzie di stampa e persino alle serie televisive costruendo un mondo che parla inglese e che si considera in qualche modo un unico, possibile mondo di domani. Sono Stati diversi, a volte con barriere significative all’immigrazione da un paese all’altro, ma anche in qualche modo un unico mondo, tanto che quattro di loro hanno la regina Elisabetta come capo dello stato e con gli USA, il quinto e più potente, esiste una special relationship. Sappiamo da Snowden e Assange tante cose su come si svolgano queste relazioni.

 

Dire che il mondo sia oggi dominato da questa alleanza è dunque una banalità, ma è importante per capire quali dinamiche l’Inghilterra percepisca attorno a sé. Iniziamo dall’Irlanda, a cui si riferisce specificamente Lord Frost, e dove nel 1981 Margaret Thatcher lasciò morire per uno sciopero della fame Bobby Sands. Eletto parlamentare in carcere, chiedeva di essere riconosciuto come prigioniero politico. Con lui morirono nello stesso modo, uno dietro l’altro, altri nove repubblicani irlandesi. Al funerale assistettero 100.000 persone e tra gli anni ’60 e i ’90 del secolo scorso, vi furono circa 3.500 morti per attentati. La soluzione del conflitto avvenne attraverso il Good Friday agreement, l’accordo del venerdì santo, e fu proprio lo sviluppo dell’Europa a svuotare (non solo in Irlanda, ma anche nei paesi baschi o nel Sud Tirolo) i movimenti indipendentisti e a creare un diverso quadro per le rivendicazioni autonomiste, come quelle della Catalogna di oggi. Per quanto la Spagna si agiti, tra gli autonomisti catalani non si intravede terrorismo. L’Europa ha tolto l’acqua ai pesci. 

 

Uscire dall’Europa ha inevitabilmente riaperto tra Inghilterra e Irlanda le questioni che l’accordo del venerdì santo aveva in parte risolto. La cosa è complicata dal fatto che Joe Biden è di origine irlandese: molti americani lo sono, figli dell’emigrazione che fu forzata a più riprese dalla dominazione inglese, soprattutto durante la carestia del diciannovesimo secolo, che fu usata dal governo inglese contro le popolazioni gaeliche per anglicizzare l’Irlanda. Anche per questa ragione, e per non farsi capire dalle guardie, i prigionieri dell’IRA parlavano gaelico ed è questa una delle ragioni per cui la questione della lingua gaelica è al centro del dibattito per l’accordo di Stormont, che dovrebbe governare l’Irlanda del nord attraverso tutti i partiti. Sinn Fein insiste perché venga onorato un accordo per la difesa del gaelico, originariamente sottoscritto anche dagli unionisti, ma la questione ovviamente irrobustisce anche l’identità irlandese e quindi va nella direzione di una riunificazione dell’Irlanda. Per Lord Frost non c’è solo dunque una questione di importazione di salsicce dall’Inghilterra, ma una faccenda molto più ruvida nella memoria politica dell’Irlanda.

 

Non è però appunto soltanto la potente presenza irlandese in America, dai Kennedy fino a Biden, a rendere la relazione tra USA e Regno Unito complicata. Gli Stati Uniti nascono contro la corona inglese e se mai, nella loro storia politica, sono più vicini alla Francia del 1789, che gli regalerà per questa cuginanza rivoluzionaria la Statua della libertà. The declaration of independence, uno dei tre documenti su cui si fondano gli USA e che viene mirabilmente usata per i suoi principi egualitari da Martin Luther King nel famoso discorso a Washington del 1963, è scritta contro l’Inghilterra. 

Le due guerre mondiali hanno quindi costruito un’alleanza per certi versi nuova della anglosphere, che ha molti tratti contraddittori: ideologici, non solo tra l’Inghilterra ancora monarchica e l’America nata dalla rivoluzione o l’Australia che è stata popolata attraverso i deportati, ma soprattutto razziali. Questa è la questione davvero centrale: il vastissimo mondo che oggi parla inglese non è un unico popolo o nazione. È un’area che riconosce alcuni valori fondamentali come l’adesione a un modello giuridico, le informazioni in inglese, certe regole commerciali, va oltre i paesi dove la lingua inglese è quella nativa, in fondo include anche noi che consumiamo circa 80% dei prodotti televisivi (oltre ovviamente ai social media, lo stesso internet ecc.) che sono derivazione del mondo anglosassone.

 

 

Se le due guerre mondiali, vinte dagli americani, sono state le guerre puniche, quello che viviamo oggi ricorda piuttosto l’epoca traianea raccontata da Jérôme Carcopino (La vie quotidienne à Rome à l'apogée de l'Empire, 1931; La vita quotidiana a Roma all'apogeo dell'Impero, trad. E.O. Zona, Laterza, 1941-1973), quando la ricchezza e la liberalità diffusa nell’impero romano attraeva e integrava diverse religioni, culture, popolazioni, e Roma diventava sempre meno latina e sempre più il nome di una civiltà che aveva un territorio vasto, dove si parlavano tante lingue, si svolgevano tanti destini. Erano e resteranno romani fino al 1453 a Costantinopoli, erano romani in Spagna ed Inghilterra. Gli schiavi ottenevano la libertà in una decina d’anni e il cristianesimo era ormai uscito dai confini delle comunità ebraiche diffondendosi ovunque. 

 

Come abitanti di una delle tante periferie dell’Impero, con la memoria delle terribili guerre che ci hanno attraversato e gli occhi bene aperti sulle altre numerose guerre che vengono combattute lungo i confini di questo territorio, anche noi speriamo di non riprecipitare nel calderone dei nazionalismi così incautamente invocato dalle destre populiste. L’anglosphere, di cui siamo periferia e partecipi, è il più vasto territorio nella storia umana. Promuove inevitabilmente, attraverso le dispute commerciali, la necessità di un diritto sovranazionale, flussi di informazioni e di persone che riguardano tutto il mondo. Al suo interno sono però sorte domande drammatiche: cosa significa il ritrovamento degli ormai oltre 1000 bambini, senza tomba, first nation, e cioè di discendenza americana precoloniale, in Canada? o il dibattito che c’è in Australia tra gli antropologi che sostengono che gli aborigeni fossero cacciatori e raccoglitori e quelli che invece individuano villaggi e insediamenti rurali? Naturalmente, in modo assai visibile negli Usa, la protesta del BLM (black lives matter) è il nocciolo per capire il contesto della questione razziale negli USA e Brexit. Oggi si inginocchiano anche tutti i calciatori agli europei tanto la questione razziale è divenuta centrale per tutti. O piuttosto, la razzializzazione, cioè l’associare l’esclusione dell’altro a ragioni razziali.

 

Perché se la razza è soprattutto una costruzione culturale, quale tipo di costruzione viene fatta dal suprematismo bianco? Può detenere una qualche autorevolezza morale la voce che emerge da questa storia? In quale modo può crescere, comprendere, farsi veicolo di un’idea di umanità, di un modo di equilibrare le diversità, rinnovarsi ed essere guida nel nostro itinerario politico? Ci possono davvero essere commissioni di truth and reconciliation, come ieri in Sud Africa e oggi in Canada, o solo colpi di coda come quelli dei suprematisti bianchi che invocavano in Trump il loro leader?

Brexit come atto politico ha parlato da subito una lingua di keeth and kin, come definì Teresa May il progetto, cioè di gente dello stesso tipo. Anche dunque il discorso di apertura al mondo va letto in questa tradizione, che è quella coloniale e imperiale. Ovviamente questo inorridisce molti, ma la corrente della destra populista è forte, trascina l’identità, travolge le obiezioni. 

 

È evidente che ci sia qui una sovrapposizione tra l’inglese lingua madre di una parte del mondo che si autodefinisce, attraverso la lingua, razzialmente e culturalmente omogenea, e l’inglese degli altri popoli del mondo, come gli indiani, gli europei, i nativi americani o australiani. Così i sopravvissuti agli stermini che hanno reso USA e Australia prevalentemente bianche, i first nation, sono spesso descritti come cronicamente vittime di alcolismo e altre forme di marginalità; gli europei difficili per la loro eccessiva burocrazia, altri popoli nel mondo colpevoli di scarsa democrazia. Tutti, per una ragione o per l’altra, minori rispetto al mondo anglosassone. Oggi studiano inglese anche i bambini cinesi a scuola, sono bilingui le indicazioni stradali di mezzo mondo, il linguaggio legato alle tecnologie, il cinema e le serie televisive, la politica. Il progetto Brexit e Trump, al contrario, sono stati indubbiamente animati da una nostalgia bianca, suprematista, e, sebbene il governo di Johnson abbia un’ampia rappresentanza di non anglosassoni e Trump non sia più presidente, la questione razziale resta al centro di una questione identitaria che riverbera in tutto il mondo. Detto altrimenti: è difficile separare questo impeto conservatore che ha egemonizzato la politica inglese e americana degli ultimi anni da una rivendicazione suprematista bianca. Certo combattuta, oggi da Kamala Harris vicepresidente, dai numerosi membri del governo inglese di origine indiana, ma comunque sempre, tenacemente recidiva, al centro del dibattito. 

La scelta che la Gran Bretagna ha avuto davanti con il referendum Brexit è stata: appartenere a un’Europa multilingue e multiculturale? O rivendicare un’autonomia per avere a che fare con il mondo a partire da quello che siamo?

 

Il voto ha alla fine dato un carattere tribale alla scelta. Non era necessario, si poteva scegliere un moderato isolazionismo, come la Norvegia e la Svizzera. In fondo come tutti i paesi europei, che pur essendo nella UE restano italiani, francesi, tedeschi e via dicendo. Lord Frost, che è un moderato, avrebbe scelto questa strada, con un senso molto pragmatico. Perché inevitabilmente, dall’Inghilterra che è uscita dal Referendum, non sono riemerse le belle narrazioni della vittoria sui fascismi, ma anche altre storie. Sono riemerse le narrazioni come quella pubblicata pochi giorni fa sul Guardian di Amartaya Sen sull’epoca coloniale in India. In modo anche più inarrestabile, sono riemersi i conti da fare con la storia dello schiavismo e della pirateria. L’Inghilterra è stata dopo i portoghesi la più grande imprenditrice del commercio degli schiavi, un quinto delle fortune private inglesi hanno quell’origine. Non c’è da sorprendersi se le statue dei mercanti di schiavi vengono rovesciate. 

 

Così come i genocidi su cui posano Stati Uniti, Canada o Australia. Nelle sole americhe, gli abitanti precolombiani erano circa cento milioni. E persino per Scozia e Irlanda, cosa ne è oggi del gaelico? Riuscirà a emergere una voce ragionevole, in grado di agevolare commerci e scambi culturali, onorare trattati che vincolano a un rispetto reciproco, o ci troveremo di fronte a guerre pretestuose come quella irachena di un mondo che si appropria di materie prime, esporta i suoi prodotti commerciali e la sua cultura e tende a cancellare le differenze? Saprà l’Inghilterra ricordare la sanguinosa dominazione sull’Irlanda prima di tentare di imporre regole che rischiano di scatenare nuovi conflitti? Saprà emergere dai diversi genocidi che da una parte all’altra del pianeta ne hanno segnato l’affermazione? O si trincererà in un diritto storico-divino all’autodeterminazione, alla superiorità aprioristica del proprio sistema giuridico e della propria cultura che, quando esportato, si è spesso espresso, ad esempio in Iraq, come dominio sugli altri?

 

L’idea di Johnson, che un’Inghilterra libera dall’Europa avrebbe potuto buccaneer (pirateggiare) il proprio futuro, apparentemente romantica, è risuonata minacciosa per i tanti che di quella pirateria furono vittime. Dal passato si ridestano oggi inevitabilmente fantasmi che l’Inghilterra, come ogni individuo e popolo, non può facilmente dissipare. Joseph Biden o la neozelandese Jacinda Ardern sembrano consapevoli di come per resistere in una posizione che ha tanti vantaggi nel governo del mondo, sia necessario abitare un mondo di differenze. In Brexit sembra al contrario abbia prevalso la hubris di Farage che, dapprima usata strumentalmente da uno schieramento complicato e ampio per sollecitare il voto popolare, rischia ora di travolgere quel che poteva apparire strategicamente comprensibile, anche se culturalmente nostalgico e quindi piuttosto antiquato. 

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