«Ero straniero e non mi avete accolto» / Il prossimo, il lontano e l'accoglienza dei profughi

18 Giugno 2018

La coerenza di Salvini

 

«Sono un cristiano coerente», ha risposto Matteo Salvini al twitter di Gianfranco Ravasi (anche lei, eminenza!?), che in relazione al respingimento della nave Aquarius aveva scritto, parafrasando in negativo Mt. 25,43:  «Ero straniero e non mi avete accolto». «Amerai il prossimo tuo», si dice nel Vangelo. Io non sono credente e non mi intendo di questioni interne alla chiesa; mi intendo un poco di filosofia politica ed è su questa base che vorrei commentare l'episodio. Forse Salvini intende il precetto alla lettera, perché no. Prima il prossimo dunque. La massima si addice al «primanostrismo» elaborato da Salvini, una specie di variante paesana del grido «America first!» di Donald Trump. Il popolo italiano deve pensare ai suoi terremotati, disoccupati e indigenti, altro che a quelli che vengono da lontano, profughi, migranti e rifugiati che invadono il Bel Paese per godere della pacchia (sic) e farsi una crociera (sic sic sic).

 

Chi è il prossimo?

 

Ora, bisogna sapere che il conflitto noi/loro, vicino/lontano non è certo stato inventato oggi, anzi ha una lunga storia filosofica che spesso si è trovata di fronte a quesiti analoghi: dobbiamo amare il prossimo o l'umanità? Dobbiamo occuparci dei vicini, dei lontani, di entrambi e con quali priorità? Dobbiamo preferire i prossimi, i «nostri», anche se ciò collide col principio di meritocrazia in base al quale si devono preferire i migliori anche se lontani?

E chi sono i prossimi, chi è il prossimo?  La domanda, ripeto, è antica. Se la poneva l'etica veterotestamentaria con la sua esigenza per l'amore per il prossimo e non per il lontano («Ama il tuo prossimo come te stesso», si dice nel Levitico 19,18), ripresa dall'etica neotestamentaria con espressioni analoghe: (Mt 22,39); se la ripeteva l'etica stoica, per es. nel De officiis di Cicerone, ma la risposta era sempre e soltanto a favore del prossimo. Simili sono anche le posizioni contemporanee di alcuni autori: di Vilém Flusser (sono responsabile del vicino e non del lontano); di Avishai Margalit (al lontano spetta un'etica thin, corrispondente a un generico rispetto umano, soltanto al vicino, in virtù dei legami spessi o thick, dobbiamo i più impegnativi rapporti di cura e lealtà) di Kwame Anthony Appiah, statunitense originario del Ghana, che esita di fronte all'idea di intaccare, magari tassandoli, benessere e ricchezza degli abitanti dei paesi ricchi: come potrebbe altrimenti il buon Bill Gates «donare miliardi di dollari in beneficenza»?

 

Martha Nussbaum e la falsa dicotomia

 

L'unica voce che si stacca dal coro è quella di Martha C. Nussbaum, che intesse un serrato dialogo con Cicerone, respingendo la sua morale stoica e la sua dicotomia tra «noi» (parenti, vicini, concittadini, prossimi dunque) e «loro» (i lontani e i diversi in genere), ai quali si può offrire aiuto materiale nel caso che questo non comporti sacrifici per noi. Cicerone, se vivesse ora, proporrebbe forse di accogliere i profughi sistemandoli presso famiglie volontariamente disposte ad accoglierli, senza oneri per lo stato.

Tornando a Nussbaum, la filosofa infila e gira il coltello in una piaga della filosofia politica ma anche degli interi sistemi di aiuto da parte delle nazioni ricche: se si tratta infatti di assegnare pari dignità e pari rispetto, che non costano nulla, tutti d'accordo, a parte le frange più retrive. Ma quando si tratta di intervenire con aiuti materiali costosi, si obietta che la povertà è volontaria, dovuta al carattere di un popolo, alla sua pigrizia innata, talché se una nazione è ricca e l'altra è povera, le cose sono «just fine», come scrive ironicamente la Nussbaum.

 

I profughi sono prossimo? Kant come Cicerone

 

Cerchiamo ora di estendere la problematica interrogandoci dal punto di vista etico sui fondamenti della responsabilità che abbiamo nell'accogliere i profughi, chiedendoci se i profughi sono prossimi o lontani. Lontani, non c'è dubbio. Sono lontani e stranieri, osserverebbe il Cardinal Ravasi, quegli stranieri che il Ministro degli interni non ha accolto e che se ne vanno in crociera verso la Spagna. Lo faremo incorporando nella riflessione i diritti degli stati nazionali. Con che diritto un gruppo di esseri umani può impedire ad altri esseri umani di calpestare una parte della superficie della terra? Perché  un diritto universale alla libertà di spostamento non fa parte dei diritti dell'uomo? Forse per il motivo che non è un diritto fondamentale, di base? O perché  - come illustra Immanuel Kant nel suo piccolo prezioso testo del 1795 sulla pace perpetua – il diritto (incondizionato) di visita deve essere tenuto separato dal diritto (condizionato) di ospitalità? A detta di Kant infatti il diritto di andare in visita compete a tutti gli esseri umani in quanto espressione del diritto di movimento; il diritto di (dare e ricevere) ospitalità non ha valore di pretesa universale. La posizione di Kant, per quanto progressista, contiene anche tratti conservatori e la sua ripartizione dei diritti riflette infatti il seguente pensiero: se è ragionevole presupporre l'esistenza di un diritto comune all'occupazione della superficie terrestre, esso non può non confrontarsi col fatto che sulla superficie della terra sono stati eretti singoli stati che garantiscono la proprietà dei padroni di casa. Ordinamento che cozza contro le posizioni della Carta di Lampedusa del 1.2.2014, la quale si fonda sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata. Le differenze devono essere considerate una ricchezza e una fonte di nuove possibilità e mai strumentalizzate per costruire delle barriere. La Carta di Lampedusa assume l’intero pianeta come spazio di applicazione di quanto sancisce, il Mediterraneo come suo luogo di origine e, al centro del Mediterraneo, l’isola di Lampedusa.

 

Diritto alla libertà di movimento e di insediamento

 

Ma torniamo al discusso diritto universale alla libertà di movimento e di insediamento.  Esso è garantito dagli ordinamenti liberali dello stato di diritto all'interno dello stato nazionale (posso traslocare da Roma a Milano senza dover chiedere autorizzazioni e permessi), e rappresenta una premessa centrale per l'esercizio di altri diritti di libertà: la libertà di riunione, di associazione o di scelta del lavoro. Per essere riconosciuto su scala globale necessiterebbe di un profondo cambiamento di paradigma: via dal sistema di visti e permessi di viaggio e di soggiorno intesi come privilegi, in direzione di un sistema di “open borders” (invocato nel 1987 da Joseph H. Carens in un  articolo dal titolo Aliens and Citizens: The Case for Open Borders). Carens, partendo dal diritto dell'uomo, dichiarato dalla carta del 1948,  alla libertà di movimento all'interno del proprio paese, mostrava che dal punto di vista morale esso non si differenzia dalla libertà di movimento globale. Il nuovo diritto entra però in contraddizione, come spiegava già Kant, col diritto positivo dello stato nazionale, mostrando che i diritti sono distribuiti in maniera asimmetrica tra esseri umani e stati. Gli stati nazionali hanno confini che danno agli interni («i nostri» di Salvini & Co.) una sorta di priorità su determinati territori; il che potrebbe essere moralmente giustificabile, ma unicamente se  esistessero spazi sulla terra che gli esclusi potrebbero raggiungere e abitare; ma se tutti gli spazi del pianeta sono occupati da stati che non lasciano alcuno spazio sulla terra, si può parlare di un diritto morale a erigere “closed borders” ? Frontiere che tengono dentro i prossimi, «i nostri», da amare e  metter prima dei lontani?

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