Tra migrazioni e origini / Munari a Prenzlauer Berg

13 Gennaio 2019

Pare che Claude Debussy, al suo maestro di composizione «che inorridiva ascoltandolo al piano nella ricerca di nuove armonie irrisolte» e gli chiedeva perciò cosa andasse cercando e secondo quali regole, rispondesse semplicemente: «Mon plaisir». L’aneddoto è riportato in un libriccino dai toni divulgativi dedicato non al più rigoroso e risoluto fra gli esponenti dell’impressionismo musicale, ma al suo più tormentato amico normanno, Eric Satie, che lo incontrò intorno al 1890 in un cabaret minore di Montmartre, subito prima che entrambi si dessero alla frequentazione più o meno assidua del Le Chat noir con i maggiori esponenti della bohème di fine secolo. 

 

Satie: appunti e nostalgie, con testi di Gian Nicola Vessia e illustrazioni di Federico Maggioni, è uno dei quattro volumi apparsi finora in una collana senza nome, riconoscibile soltanto dalla veste grafica – piccolo formato, bianco e nero, copertina in cartoncino opaco –, edita da RAUM Italic, un marchio italo-berlinese con sede nel quartiere nord-orientale di Prenzlauer Berg. La sede coincide con un bookshop votato alla grafica e al design, come s’intuisce fin dall’insegna appesa al civico 29 della Schliemannstraße, sul lato sinistro della via risalendo la strada dal Helmholtzplatz: i tre quadrati neri su sfondo bianco disposti in verticale, dal più grande al più piccolo a scendere e il centrale ruotato di novanta gradi, a uno sguardo appena allenato – come quello dei giovani adulti istruiti e un po’ hipster appropriatisi di questo quartiere che ancora fino agli anni novanta ospitava una vivace subcultura – suggeriscono immediatamente un’impronta munariana. Raggiunte le vetrine ai due lati dell’ingresso, la conferma salta all’occhio dai volumetti quadrati Corraini che da uno dei banchi all’interno si annunciano in uno spazio arioso con le copertine in vista: sono quelli che Munari ha dedicato alle tre forme geometriche fondamentali, quadrato, cerchio, triangolo.

 

 

Ho sempre pensato che Munari, l’artista designer che fuori dall’ambito letterario mi ha riconciliato con l’idea di ‘creatività’, fosse guidato nella sua inesauribile inventiva da un principio di piacere che mi appare non meno risoluto, benché più orientato a una fruizione di massa, di quello che poteva animare un innovatore di forme come Debussy. Il paragone è senz’altro bislacco, ma non è forse questo – una sorta di rigoroso edonismo delle forme – un effetto estetico delle creazioni munariane, o almeno uno dei principi ispiratori che esse suggeriscono? La mia predilezione per un Munari divertito dipende forse anche dal fatto che la sua vicinanza ai bambini, l’attitudine pedagogica che si declinava nei suoi workshop per i più piccoli, mi è sempre apparsa come l’ambito d’azione dagli esiti più felici, in senso letterale, dell’intima spinta ludica che si percepisce nel suo operato. Il quale, per altro verso, mi sembra esprimere qualcosa che non coincide con le consuete categorie di ‘semplicità’, ‘essenzialità’ o ‘eleganza’ e che definirei concentrazione: un luminoso raccoglimento che tutto attraversa e comprende, dal creatore all’opera, o all’oggetto, al fruitore finale. 

 

Un invito all’attenzione non troppo diverso l’ho percepito una volta entrato nel bookshop di RAUM Italic, che si chiama, quasi una traduzione, SPAZIO corsivo. L’allestimento, in queste due ultime settimane d’avvento, è in parte cambiato per accogliere le opere in esposizione di sei artisti grafici, italiani e non – risalta inconfondibile, a sinistra dell’ingresso, il tratto neo-espressionista dei lavori di Henning Wagenbreth, brandeburghese noto in Italia almeno per un paio di volumi pubblicati da Orecchio acerbo. Il concetto tuttavia è subito chiaro, quasi univoco: i libri Corraini, soprattutto quelli ascrivibili al settore bambini e ragazzi, sono in netta maggioranza. È il gestore Marco, che con la compagna Barbara ha aperto il negozio nell’estate 2012 e che subito lascia il tavolo di lavoro nella parte più interna del locale per accogliermi, a rivelarmi il perché: RAUM Italic rappresenta direttamente gli interessi di Corraini in Germania, sicché la libreria ne è una sorta di filiale. Marco e Barbara si sono conosciuti proprio nella sede mantovana di Corraini dopo gli studi universitari, lui fresco di laurea in scienze politiche, lei designer, entrambi lombardi. A un certo punto, mossi dalla volontà di intraprendere un nuovo percorso di vita e lavoro, hanno messo a punto, assieme all’editore, questo progetto berlinese: uno studio grafico associato a una libreria non tradizionale, che non duplicasse né facesse troppa concorrenza ad altri esercizi affini presenti a Berlino, seguendo invece la strada che Corraini aveva dapprima sperimentato in forma di bookshop temporaneo al Salone del mobile di Milano e che poi, più o meno nello stesso periodo in cui nasceva RAUM Italic, si sarebbe tradotta nell’attuale libreria di via Savona.

 

L’idea fin dall’inizio era quella di aprire a Prenzlauer Berg, ma in un’altra strada. Trovato questo locale, nei primi tempi Marco e Barbara dovettero subire gli sguardi obliqui di una coppia anglo-indiana che poco più in giù, verso la piazza, aveva uno studio dal nome simile in cui si creavano e offrivano font. Poco più oltre erano già le vetrine del popolare bar Wohnzimmer, esempio perfetto del gusto vintage e citazionista dei nuovi residenti, mentre dirimpetto aveva aperto da poco una scuola di pianoforte con maestri provenienti da ogni parte del mondo. La gentrificazione del quartiere, piacesse o no, procedeva anche in questo modo, con attività dal target medio-alto, spesso internazionale, e con sensibili effetti collaterali: l’allontanamento degli autoctoni meno abbienti, una forte uniformazione di classe e generazionale, un certo conformismo progressista e modaiolo. Oggi quello studio anglo-indiano non c’è più, ma i due italiani per evitare frizioni (di primo acchito Marco mi appare davvero di una pacatezza inconsueta) avevano deciso fin da subito che il negozio avrebbe dovuto avere un nome diverso – SPAZIO corsivo appunto – dal marchio aziendale. Che è anche, lo si capisce presto volgendo lo sguardo da un banco all’altro e da uno scaffale all’altro, un marchio editoriale.

 

 

Del catalogo RAUM Italic, i volumetti della collana di divulgazione musicologica – oltre a Satie, Ravel, un incrocio melo-gastronomico e un trattatello sulle ninne nanne, il tutto nato sull’onda della passione di Marco per la musica – non sono che il sottoinsieme in bianco e nero. Il resto, ossia la maggior parte, sono libri e opuscoli più o meno variopinti dei quali, se dovessi esprimere qui l’impressione che ne ho avuto, questo articolo diverrebbe una mera protesi pubblicitaria. Ma il catalogo RAUM Italic si trova in internet, mentre a documentare il mio riscontro basterà un’attestazione di meraviglia: per gli oggetti innanzitutto, la loro fattura, la veste impeccabile, la cura artigianale – Marco mi spiega che le edizioni serigrafate vengono stampate e rilegate qui dentro, spostando i banchi e facendo spazio ai macchinari, mentre tutti gli altri volumi escono da tipografie italiane, tedesche o lituane. Ma a colpirmi è anche il loro carattere in prevalenza bi- o trilingue dei volumi, poiché l’utenza di SPAZIO corsivo è italiana, ma non solo – sono già diverse le collaborazioni avviate con artisti e istituti tedeschi o anche, per esempio, con il fumettista spagnolo di stanza a Berlino Alberto Madrigal, divenuto nel frattempo consulente informale per il piccolo scaffale di graphic novel ospitato dietro la colonna centrale del negozio. E anche quando parlano italiano, i clienti sono spesso membri di famiglie miste, i cui figli frequentano scuole tedesche, ma per i quali la cura dell’altra lingua passa, può passare anche attraverso simili prodotti editoriali.

 

Mi torna in mente l’associazione Verba volant, che avevo contattato una decina d’anni fa, riuniva famiglie italiane o miste residenti nel quartiere e si era impegnata per la creazione di una sezione bilingue nella scuola primaria di Senefelder Platz. Il presidente all’epoca era Luca, traduttore toscano oggi impiegato all’ambasciata, ma qualche anno dopo, quando li avevo risentiti per mandare mio figlio a scuola durante un soggiorno estivo, ad assistermi in ogni passaggio era stata Stefania, architetto di origini pugliesi, trasferitasi a Berlino in cerca di uno sbocco che l’Italia non le offriva e che qui nel frattempo si era realizzato tra famiglia e libera professione. Durante quelle settimane di soggiorno ero così entrato in contatto con altri genitori italiani, tutti più o meno della mia generazione, stanziatisi negli ultimi dieci o quindici anni in questa fetta di Berlino, tutti o quasi mossi dalla ricerca di un futuro meno precario e più remunerativo. Il loro rapporto con il paese che si erano lasciati alle spalle, tutt’altro che sprezzante o risentito, era piuttosto improntato al rammarico, non molto diversamente da quello dei giovani connazionali che qualche anno fa hanno raccontato le loro storie di espatrio al giornalista Leopoldo Innocenti, da lui poi raccolte in un volume uscito per Armando e intitolato Auf-wiedersehen Italia. A un certo punto, quell’estate, mi ero persino ritrovato in una riunione di genitori alla SI – Scuola italiana, un centro linguistico e culturale non lontano da qui, nella Dunckerstraße, specializzato nell’insegnamento dell’italiano e del tedesco per stranieri, che ancora oggi propone corsi per grandi e piccoli, oltre a un calendario di eventi che esprime un legame più progettuale che nostalgico con il bel paese.

 

A proposito di eventi, Marco mi spiega che anche SPAZIO corsivo, come altre librerie della città, offre letture e laboratori per bambini – questi ultimi sulle orme di Munari, ci tiene a precisare, e spesso pescando proprio tra i libri per ragazzi di quest’ultimo o, come in una lettura recente, di Rodari. Ma a me quest’apertura all’infanzia, al di là del più cospicuo riscontro economico che l’editoria per ragazzi offre rispetto ai libri comuni, ricorda molto le attività analoghe che in questa parte della città si tenevano quando era ancora Germania dell’Est, e che ancora si svolgono in certi luoghi ed enti deputati, come l’Accademia delle Arti, grazie alla quale anch’io negli ultimi dieci anni ho potuto lavorare, accanto a colleghe e colleghi di altre discipline, con bambini e adolescenti in alcune zone svantaggiate di Berlino e dell’ex-Germania orientale: raccoglievamo quell’eredità riadattandola ai tempi, per portare le arti e le loro tecniche ai più piccoli, per nutrire fantasia, manualità e la partecipazione a una dimensione cooperativa che avrebbe dovuto contribuire, almeno nelle intenzioni dell’ente promotore, a forgiare il loro senso di appartenenza a una comunità democratica. Che poi la cosa riesca sul lungo periodo, resta da dimostrare.

 

 

Forse in una libreria come SPAZIO corsivo l’aspetto civico, educativo in senso stretto passa in secondo piano, forse iniziative di questo tipo hanno più a che fare con la preservazione di una comunità (pluri)linguistica e anche generazionale. Tuttavia l’impresa di Marco e Barbara, che si muove fra i mondi italiano e tedesco e sul confine fra impresa grafica ed editoriale, e all’interno di quest’ultima fra passione artigianale e cura pedagogica, mi appare come uno sconfinamento a tutto campo, cui si possono ascrivere molteplici risvolti. Non una forma di eclettismo o dilettantismo, ma di sobria ricerca, di sperimentazione – forse non alla Satie o alla Debussy, certo un po’ munariana, comunque orientata a un piacere del mestiere – a partire da un sapere professionale, certo, ma anche da uno specifico dettato esistenziale: quello di molti italiani della nostra generazione, sospesi fra la viziosità di un paese che non permette di essere compiutamente adulti, perché troppo spesso rifiuta di accordare un riconoscimento sociale ed economico a quel che sappiamo fare, e un anelito d’internazionalità, di apertura cosmopolita che lo stesso paese ci offre sempre meno e rispetto al quale, del resto, continuiamo comunque a sentirci un po’ provinciali, ma senza complessi di sorta, poiché di voltare del tutto le spalle all’Italia non abbiamo nessuna voglia.

 

 

Così escogitiamo soluzioni a metà strada, di nostra iniziativa: lavoriamo per le realtà che dell’Italia ci piacciono e ci danno di più, come hanno fatto Marco e Barbara, ma alle debite distanze se possiamo, da luoghi che ci sembrano più equi e dove impariamo che il meglio dell’italianità si svela oggi più che mai in un orizzonte sovranazionale, almeno europeo. Forse non ne verrà fuori un nuovo ABC o una nuova lampada Falkland, ma avremo forse dimostrato che il modo più soddisfacente per far fruttare le nostre eccellenze, oggi, è espiantarle. E curarle lì dove trovano miglior nutrimento, alla ricerca di nuove «armonie irrisolte» fra sorte migratoria e paese d’origine.

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