Speciale

Noi, i ragazzi della Graziella rosa

17 Luglio 2012
Negli Anni Settanta, quando anche le Brigate Rosse ascoltavano Lucio Battisti benché fosse considerato di destra, e dunque non solo missino ma proprio fascista, i bambini italiani nati e cresciuti in campagna o comunque nei piccoli centri si dividevano in due macro-categorie che con la politica non avevano nulla a che fare, nonostante si fosse nel decennio poi passato alla storia come quello degli «anni di piombo».
 
 
C’erano quelli che desideravano la bicicletta da cross, e che se la vedevano regalare in occasione del decimo compleanno o una volta conseguita la licenza elementare. E c’erano quelli che pur desiderandola come e più dei primi, e raggiunto il medesimo genetliaco e superato l’identico esame, dovevano farsi bastare la Graziella della sorella maggiore. Magari rosa. La bici da cross in realtà era, più che uno status symbol, un preludio. Chi la otteneva infatti era un motociclista in miniatura, e di lì a poco, una volta salito in sella al primo Ciao e poi alla prima Guzzi o alla prima Ktm con tanto di «chiodo» di cuoio nero marca Schott, T-shirt bianca Fruit of the Loom, jeans Levi’s o Lee o Wrangler e stivali Camperos, si sarebbe trasformato in una sorta di clone di John Travolta in Grease, che a sua volta era un clone di Arthur Fonzarelli in Happy Days, che a sua volta era un clone di Peter Fonda in Easy Rider, che a sua volta era un clone di Marlon Brando in Il selvaggio, che da parte sua non era clone di nessuno ma interpretava sul grande schermo la difficoltà a reinserirsi nella vita civile di tanti reduci dallo Normandia o da Guadalcanal, eventi storici di cui i bambini italiani erano giunti a conoscenza grazie alle edicole italiane, che allora vendevano le prime edizioni oggi ristampate di fumetti come Guerra d’Eroi e Super Eroica.
 
 
E il destino di questi motociclisti in miniatura era bene o male tracciato: proprio grazie al fatto di avere ottenuto quella bicicletta da cross, e di apprestarsi a diventare nel giro di pochi anni cloni del clone del clone del clone di Marlon Brando, nel corso dell’adolescenza avrebbero rimorchiato con facilità le ragazze più belle della scuola, portandole al cinema il sabato pomeriggio in sella ai loro motocicli, e limonandole alle feste al suono di Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni o anche di Sexy Fonni di Benito Urgu (chi non la ricordasse o non la conoscesse è pregato di cercarla su YouTube, vale ancora la pena). Chi invece doveva farsi bastare la Graziella della sorella maggiore, magari rosa, andava incontro a una sorte diversa. Molto diversa. Perché trovarsi in sella a una Graziella, pur desiderando ardentemente una bici da cross, contribuiva fin da subito alla formazione del carattere, all’accrescimento della sensibilità, allo scatenamento della fantasia.
 
 
Occorreva infatti una certa propensione allo stoicismo per presentarsi a bordo di una Graziella, magari rosa, al cancello d’ingresso della scuola, oppure al campetto di calcio dove ci si dava appuntamento ogni pomeriggio, compiti permettendo. E ai possessori di Graziella, magari rosa, bastava guardarsi negli occhi per capirsi al volo, nel momento in cui si vedeva sfrecciare su una bicicletta da cross il motociclista in miniatura di turno con la sua aria superba da clone al quadrato. Quanto allo scatenarsi della fantasia, beh, ammetterete che ce ne voleva parecchia per fare le impennate in sella a una Graziella, magari rosa, nel frattempo accessoriata con carte da gioco fissate per mezzo di mollette ai raggi delle ruote. Non per riprodurre il rumore dei motocicli, come nelle intenzioni dei motociclisti in miniatura che allo stesso modo accessoriavano le loro biciclette da cross, ma per riprodurre il rumore delle biciclette da cross così accessoriate. Inoltre, chi ne ha ereditata una dalla sorella maggiore lo ricorderà, la Graziella aveva le ruote piuttosto piccole. Sia rispetto alle biciclette da cross, sia e soprattutto rispetto alle normali biciclette da uomo o da donna. E chi si trovava a doversela far bastare era chiamato a uno sforzo muscolare doppio rispetto ai coetanei e alle coetanee che utilizzavano altri modelli di velocifero.
 
 
Da parte mia, ricordo in particolare un pomeriggio di giugno. Avevo appena finito di frequentare il mio primo anno di scuola media, e in sella alla Graziella ereditata mio malgrado l’anno prima dalla sorella maggiore come premio per la licenza elementare gironzolavo senza meta per le stradine semiasfaltate di Grosso Canavese, paesino di campagna di novecento anime a poco più di venti chilometri da Torino. Canticchiavo I giardini di marzo, cosa che di per sé la dice lunga sul mio stato d’animo: ero perdutamente innamorato di una mia compagna di classe, che però a metà dell’anno scolastico si era messa con un motociclista in miniatura, provvisto di bicicletta da cross superaccessoriata con tanto di mollette e addirittura carte da tarocchi, molto più grandi rispetto alle normali carte da briscola e dunque ancora più rumorose. Ed ero giusto arrivato al celebre verso «All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri / Io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli», quando da una curva vidi sbucare proprio lei, la mia donna angelicata, che avendo le gambe lunghe viaggiava già a bordo della bicicletta da donna di sua madre. Del motociclista in miniatura con cui si accompagnava di solito, e che di norma le stava appiccicato, stranamente non c’era traccia. E lei, che sapeva del mio amour fou, quando mi vide in sella alla mia Graziella non mi salutò, ma sorrise. Dopodiché, tirò dritto.
 
 
Io, per un istante, rimasi lì imbambolato, a chiedermi se mi avesse sorriso o se avesse sorriso di me: due possibilità che rappresentavano l’alternativa tra beatitudine e dannazione. Come saperlo? Dovevo chiederglielo. Così, mi lanciai all’inseguimento. Il rumore prodotto da mollette e carte da briscola la fece voltare. E quando mi vide sopraggiungere, lei sorrise di nuovo, ma anziché fermarsi accelerò. Ancora: mi sorrideva o sorrideva di me? E la sua che cos’era? Una fuga o una fase del rituale del corteggiamento? E come mai era sola in bicicletta quel pomeriggio d’estate? Perché al suo fianco non c’era come al solito il motociclista in miniatura? Si erano forse lasciati? Ecco che cosa intendeva di preciso Battisti quando menzionava «la mente con i suoi tarli».
 
 
Accelerai a mia volta, pensando al verso di un’altra canzone, «Le biciclette abbandonate sopra il prato e poi / noi due distesi all’ombra». Solo che le ruote della bicicletta da donna di lei erano molto, molto più grandi di quella della Graziella ereditata mio malgrado da mia sorella, resa ancora più lenta dall’attrito dei raggi con il sistema di mollette e di carte, ancorché da briscola. Tuttavia, non mi diedi per vinto. A testa china, pedalai e pedalai e pedalai, pestando più forte sui pedali a mano a mano che lei si allontanava aumentando percettibilmente, di metro in metro, il suo vantaggio. Finché, a un certo punto, non alzai lo sguardo dalla strada. E lei ormai era un puntino lontano, irraggiungibile. Pestai sui pedali ancora più forte, benché sfiancato. Ma quando alzai di nuovo la testa lei era sparita. Se non altro, la Graziella di mia sorella era arancione.
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