Speciale
Oggetti d’infanzia | Il fucile
Nella celebre intervista con Truffaut, Hitchcock racconta una barzelletta in voga nella Hollywood di allora, che sintetizza il problema dell’invenzione creativa e dell’originalità.
Un giovane sceneggiatore affamato di gloria si addormenta dopo aver bevuto troppo. A metà della notte si sveglia, eccitatissimo, perché ha appena sognato una storia incredibile, mai vista, il grande soggetto che lo lancerà nell’empireo del cinema e farà di lui l’autore più pagato di Hollywood. A tentoni afferra un pezzo di carta, scrive il soggetto, poi si riaddormenta. Al mattino il nostro eroe riemerge lentamente da sogni ingarbugliati, finché viene trafitto dal ricordo di ciò che è successo poche ore prima. Ma dov’è il foglietto? In preda al panico lo cerca e alla fine, con un gemito di trionfo, lo ripesca da sotto il letto. Sulla carta, con una grafia concitata, c’è scritto: “Ragazzo si innamora di ragazza”.
L’ho fatta lunga perché la storia è bella, e per scusare la mia pretesa di essere l’inventore del fucile sparaelastici. Avevo meno di dieci anni e non avevo mai visto niente di simile, eppure sono sicuro che doveva essere già stato ideato, brevettato, venduto; oppure inventato da altri bambini come me, sparsi qua e là nel globo.
Sta di fatto che un giorno notai che un buon modo per scagliare gli elastici ben dritto e lontano, molto più efficace di usare le mani, consisteva nell’appoggiare l’elastico a un capo di un pezzo di scopa e poi tirarlo il più possibile all’indietro, verso di me, per lasciarlo andare di colpo dopo aver preso la mira contro un bersaglio qualsiasi, chiappe della nonna incluse. Il rischio di prendere l’elastico in faccia era serio, e dopo un paio di incidenti del genere (ricordo il dolore esplodere come una vampata di luce negli occhi) perfezionai lo strumento piantando un piccolo chiodo all’estremità lontana dalla mia faccia, in asse con il tutto. Il chiodo tratteneva l’elastico e permetteva anche di metterlo meglio in trazione. Il secondo e decisivo espediente fu quello di fissare con lo spago una molletta vicino al capo prossimale della mia arma. L’elastico agganciava rapidamente il chiodo, là in fondo, poi veniva tirato indietro fino al limite di rottura e bloccato con la molletta. Per sparare bastava premere la molletta: il proiettile schizzava via fino a una ventina di metri.
Il fucile era pronto, e a questo punto poteva perfino essere tenuto carico e venire adoperato solo al momento del bisogno, proprio come il Winchester che Tex teneva in un fodero sul fianco del cavallo.
Nel piccolo paese sul lago d’Iseo dove ero nato e dove passavo le mie estati, i miei coetanei erano soliti spruzzarsi con le pistole ad acqua o spararsi addosso con la cerbottana coni di carta arrotolati e fissati con lo scotch o la saliva. Il mio fucile suscitò un entusiasmo che mi commuove ancora oggi. I capi delle piccole bande che scorrazzavano per il paese vennero in visita, separatamente. Con gli occhi brillanti giravano fra le mani il fucile e lo provavano, poi annuivano con una finta degnazione.
Se questa fosse una piccola storia d’imprenditoria precoce potrei dire che mi commissionarono ingenti quantitativi dell’arma; invece se la costruirono loro, ciascuno a modo suo.
Il ricordo più bello e più struggente che ho è quello di una battaglia epica, durata un intero pomeriggio, combattuta nel paese e nei boschi tutt’intorno secondo regole concordate dopo incontri di delegazioni e interminabili patteggiamenti: colpito una volta uguale ferito, alla seconda sei morto ed esci dal gioco. Tutti i ragazzi del paese si divisero in due grandi eserciti e il combattimento si protrasse, con sorprendente correttezza, finché le rondini cominciarono a fischiare intorno al campanile perché stava calando il buio e le nostre madri ci cercavano urlando ormai da ore.
Il fucile è nel mio cassetto e ogni tanto lo uso per sparare alla mia fidanzata, che ne è terrorizzata e minaccia di buttarmelo via o di lasciarmi. Lo sto guardando, mentre scrivo la sua storia.