Oggetti, il catalogo è questo
Dalla Bibbia a Esiodo, da Omero ai Vangeli, fino a Georges Perec, passando per Virgilio, Dante, Ariosto, Shakespeare, Lorenzo Da Ponte, Walt Whitman, Marcel Proust, James Joyce, Jorge Louis Borges, Jacques Prévert, Italo Calvino, e molti altri autori ancora, il mondo della letteratura è popolato da cataloghi, da liste e da elenchi. Come scrive Umberto Eco nella prefazione del suo La vertigine della lista: "Dalle litanie all'elenco delle cose contenute nel cassetto della cucina di Leopold Bloom nel penultimo capitolo dell'Ulisse passa però un buon numero di secoli, come più ancora ne passano tra le liste medievali e il modello di lista per eccellenza, e cioè il catalogo delle navi nell'Iliade di Omero. [...] già in Omero pare che si oscilli tra una poetica del tutto qui a una poetica dello eccetera."
Alla seconda categoria appartengono sicuramente le liste che compaiono in due libri di recente pubblicazione, entrambe, infatti, si potrebbero concludere con un eccetera.
Ho perso la punteggiatura per colpa di internet
In 100 cose che abbiamo perso per colpa di internet (Il Saggiatore, pp. 296), l'autrice Pamela Paul, editor della New York Times Book Review, elenca una serie di realtà venute meno dopo la comparsa di internet e il diffondersi dei social media, che lei giustamente chiama 'cose'. Con questo termine, infatti, possono essere definiti tanto gli oggetti materiali dismessi a causa dell'online, quanto 'situazioni' divenute obsolete con l'avvento del mondo digitale. Tra di esse, Paul annovera persino degli stati d'animo (la noia, la pazienza, la cortesia, l'empatia); delle attitudini (l'umiltà; le dimenticanze); delle consuetudini (come quella di archiviare documenti cartacei, ad esempio); certuni accadimenti (come perdere il biglietto, essere in ritardo); degli ambienti (la biblioteca scolastica); alcune collocazioni spaziali (il telefono in cucina); financo certe abilità (conoscere a memoria i numeri di telefono, il rispetto dell'ortografia e della punteggiatura, le capacità calligrafiche), e molto, molto altro ancora. Di tutto questo ci racconta insieme al novero degli oggetti 'perduti' (come i giornali e le riviste patinate, i dizionari, i giochi e i giocattoli, le mappe, le lettere manoscritte, i dischi, il Rolodex e l'agenda, il libretto degli assegni, gli album delle foto e tanti altri), inducendoci a riflettere su come siano irrevocabilmente cambiati modi e mode nelle nostre vite senza che quasi ce ne si sia accorti.
L'autrice non è nuova a indagini che concernono "l’intersezione tra la cultura del consumo e la vita reale", infatti il libro edito da Il Saggiatore è il suo nono a scandagliare il tema di questo rapporto, ma è il primo ad essere stato concepito in forma di elenco, dove ogni voce costituisce un breve saggio.
A tele proposito, sulla dismissione del punto fermo in internet, così ci informa:
"Un recente studio linguistico ha osservato che non solo è diventato raro nei messaggi di testo brevi e informali ma in generale è usato principalmente per parlare di questioni importanti. [...] 'Solo i vecchi o le anime inquiete mettono il punto alla fine di ogni messaggio' scrive Victoria Turk nella sua moderna guida del galateo intitolata Kill Reply All. [...] Nel 2009, osserva Gretchen McCulloch, in una 'lingua telematica' un utente definiva il punto fermo come 'il nuovo modo tendenza per sottolineare il sarcasmo (solitamente un sarcasmo incazzoso)'. Può addirittura essere percepito come un atteggiamento passivo-aggressivo. Una tendenza che McCulloch fa risalire al 2013".
Il che per me ha dell'incredibile, se penso allo sforzo fatto dalla mia maestra delle scuole elementari (Mastrobisi Elsa in Bertini, santa subito!) per inculcare nel mio cervello le regole della punteggiatura. Ricordo soprattutto quello che mi ha trasmesso sulla loro valenza 'musicale', infatti, quando leggo, dopo ogni punto faccio ancora una breve pausa contando mentalmente fino a tre, alla virgola conto uno, al punto e virgola due (per il punto esclamativo e quello interrogativo, accompagno la pausa con la consona intonazione, ovviamente): la lettura e la comprensione del testo acquistano così quel ritmo che conferisce loro una certa musicalità, generatrice di armonia: davvero un peccato perderle.
Che dire poi del Rolodex e dell'agenda, definitivamente spariti dal desktop delle nostre scrivanie? Più nessuno, ormai, conserva i rarissimi bigliettini da visita che ancora circolano e che una volta, invece, si inserivano nel Rolodex suddivisi per 'categorie' al cui interno vigeva un rigoroso ordine alfabetico. E si contano sulle dita di una mano i pochi che utilizzano ancora l'agenda. Tutto è stato sostituito dallo Smartphone, quell'apparecchio che solo a volte si usa per telefonare, ma che per il resto è divenuto ormai la nostra memoria sostitutiva, senza il quale saremmo perduti (io, ad esempio, lo uso anche per scrivere i testi che solo successivamente traslo sul computer).
Non sono mai riuscita a mandare a memoria i numeri di telefono (a stento ricordo il mio), ma un tempo, almeno fino a dieci anni fa, esistevano individui capaci di memorizzarne tantissimi. Anche, questa abilità oggi è diventata inutile, sostituita da un click che chiunque, anche il più smemorato, può digitale sulla tastiera del suo cellulare.
Quello della perdita della cortesia costituisce sicuramente uno dei maggiori rimpianti. "Addio caro" scrive Paul. "Intendo addio caro letteralmente. Questo convenevole dal profumo di prozia, che segnalava l'inizio di qualsiasi lettera degna di questo nome, è stato sfrondato da email, sms, conversazioni su Slack e altri tipi di corrispondenza telematica, così come le ataviche formule di chiusure epistolari quali 'Cordiali saluti' 'Sinceramente suo', e 'Voglia gradire i sensi della mia più cordiale stima', che non sono più lì a mettere un fiocco alla missiva. E sono spariti dalla circolazione anche titoli onorifici e nomi di battesimo, uno spreco di fatica per i nostri pollici. (Chi altro li leggerebbe?) L'utilitaristica internet sfronda via tutto ciò che non fa per lei. [...] È facile perdere le buone maniere su internet. Nella vita reale, siete mai stati apostrofati con ferocia come succede sui social?
[...] Non era così che avrebbe dovuto funzionare internet nelle intenzioni [...] In un discorso a Davos del 1996, il compianto poeta e cyberattivista John Perry Barlow disse: 'Stiamo creando un mondo in cui tutti possano entrare senza il privilegio o il pregiudizio accordato dalla razza, dal potere economico, dalla forza militare o dalla condizione sociale ereditata alla nascita. Stiamo creando un mondo dove chiunque, ovunque possa esprimere le proprie convinzioni, anche le più singolari, senza timore di essere costretto a tacere o ad uniformarsi."
Le intenzioni erano buone. Ma, La strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni, come recita il famoso aforisma che Karl Marx riporta nel saggio L'ideologia tedesca (scritto con Friedrich Engels): “Der Weg zur Hölle ist mit guten Vorsätzen gepflastert”.
Tuttavia, date ormai per perse tutte queste cose, se internet non ci fosse saremmo tutti davvero in grande difficoltà. Per esempio, non si può neppure immaginare come avrebbe potuto essere il lockdown senza la Rete.
"La Rete è stata" scrive ancora Paul "per dirla in parole semplici, una ciambella di salvataggio che mi ha offerto informazioni vitali per la salute e la sicurezza, la possibilità di lavorare in remoto e una parvenza di contatto in una situazione in cui eravamo tutti costretti a vivere distanziati. Provate solo a immaginare che cosa sarebbe stata la pandemia senza Internet. Ma ci ha anche fatto sentire più acutamente la perdita di quello che ci eravamo lasciati dietro là fuori nel mondo fisico."
Oggetti piacevolmente minimi
"La forma è contenuto!", gli sbraitava nelle orecchie il comandante durante il servizio di leva, quando controllava che l'uniforme e 'la branda' fossero perfette, e questo, Giulio Iacchetti non se lo è mai più scordato. Ed è talmente vero, che, come dichiara lui stesso nella prefazione di Semplici formalità (Johan & Levi, pp. 94, € 16.00, con postfazione di Cino Zucchi, schede anagrafiche di Elisa Testori e progetto grafico di Paola Lenarduzzi), ne ha fatto una ragione di scelta professionale, sebbene allora quella affermazione l'avesse irrisa, giudicandola esagerata se applicata alla vita militare. Iacchetti, progettista-imprenditore, amante delle liste, in quella proposta nel suo libro mette in fila una trentina di oggetti di uso comune, "piacevolmente minimi", come li definisce lui stesso, qualcuno anonimo, qualcun altro firmato, ma tutti perfetti, a suo giudizio, nella loro essenzialità "un'oasi di pace" – scrive – “sotto il profilo formale, a confronto della soverchiante ridondanza nella quale siamo immersi."
Certo che Iacchetti ama accostare alla parola oggetto aggettivi qualificativi paradossali; lo fa qui, come già nel 2008 accadde nella bella mostra allestita in Triennale (curata da Francesca Picchi) intitolata Oggetti Disobbedienti, dedicata a quei suoi progetti "che sfuggono a una chiara catalogazione nel design, che si ribellano alle logiche di consumo, seminano dubbi e che ambiscono a essere qualcos’altro" (dal catalogo pubblicato da Electa).
Quelli presentati nel volume di Johan & Levi sono piacevolmente minimi in quanto, a dir suo, racchiudono in sé l'efficacia funzionale insieme alla proporzione delle forme, generatrice di bellezza, non disgiunta da una gradevole matericità. Fra di essi figura la lampadina a bulbo Edison 27, progettata da Thomas Alva Edison nel 1879, che è scampata all'estinzione, dopo la messa al bando dell'incandescenza, solo grazie alla conversione dei suoi filamenti di tungsteno in sottili strisce di LED, vera garanzia di sopravvivenza della sua confortante familiarità.
A proposito di forme tondeggianti, ecco poi comparire nell'elenco di Iacchetti il 'panettone' progettato da Enzo Mari (1980), ovvero quel dissuasore in cemento che popola le vie di Milano. Confesso di averne sentito la mancanza quando, trasferitami a vivere in altre città, trovavo al suo posto dissuasori dalle forme più casuali e non pensate. Perché, come ci ricorda il designer cremonese, naturalizzato milanese, vincitore di due Compassi D'oro (2001; 2014) e di una menzione d’onore (2022), progettare è un atto mentale che non può prescindere "da un'attitudine alla sintesi", arte nella quale il maestro Mari indubbiamente eccelleva. Ce lo dimostra anche qui, quando, raccordati fra loro una sfera e un cilindro in efficace, ruvido e solido cemento, crea una forma che reca in sé, insieme al nome, la memoria del tipico dolce natalizio meneghino.
Il vaso troncoconico in coccio, altro must scelto da Iacchetti tra gli oggetti di design anonimo presenti nella sua lista, è fatto così fin dal tempo degli Etruschi, esperti 'terracottari', ma forse anche da prima, da quello dei Villanoviani. Una forma ancestrale, insomma, elegante nella sua sobria funzionalità, il 'meglio pezzo' per arredare terrazze e giardini, garanzia di igropicità e quindi di salute delle piante che ospita.
Relativamente più recenti sono invece la forma del Grana Padano e quella del Parmigiano Reggiano, che si dice risalgano all'incirca al 1135, quando le 'inventarono' i monaci benedettini e i cistercensi dei territori di Parma e di Reggio Emilia. Così Iacchetti: "Questo non è il luogo di disputata sulle due qualità di formaggio (Grana Padano o Parmigiano Reggiano). Ciò che conta è che si tratta della medesima forma, e ancor più di una forma naturale, non progettata: generata, non creata (come si dice nella liturgia della Santa Messa). E io credo fermamente nella bontà gastronomica che si confonde con la bontà della forma."
Tra gli oggetti progettati inseriti nella lista, il più nostalgico è indubbiamente l'affilamine Gedess 1944. Creato da Georges Desonnaz e prodotto da Hermann Kuhn, un tempo, prima che la matita fosse sostituita dal computer, faceva bella mostra di sé sui tavoli da disegno di architetti, geometri e ingegneri. Iacchetti ammette di conservarne ancora uno sulla propria scrivania, come ricordo delle lunghe ore trascorse al tecnigrafo. "Quando le proiezioni ortogonali di solidi che si compenetravano in amplessi geometrici contro natura" racconta "cominciavano a farmi sballare, vedevo nella forma dell'affilamine una sorta di microarchitettura: un osservatorio astronomico in scala ridotta, dove l'orbita vuota in cui inserire la matita rappresentava, nelle mie fantasie, la lente del telescopio."
Bella e inconfondibile – forse solo come lo è un'altra iconica bottiglia, quella del Bitter Campari disegnata da Fortunato Depero – è poi la bottiglia della Salsa di soia Kikkoman. Progettata nel 1960 per la nipponica Hoya Glass Works da Kenji Ekuan – vincitore di ben due dei prestigiosi Premi giapponesi di design GMark, il primo nel 1960 per questa stessa ampolla e il secondo nel 1980 alla carriera – è perfetta nella forma che la connota. Facile da impugnare, bella da guardare è ormai diventata un oggetto familiare anche in Occidente.
Un'altra ampolla che, a differenza della precedente, non mancava mai sulla tavola tradizionalista dei miei genitori, è l'oliera Marquina, progettata da Rafael Marquina i Audouard nel 1961 per Nanimarquina. Nessuna, come lei è esente dal fastidioso sgocciolamento che, prima o poi, compare in tutti i contenitori per olio, anche nei più brandizzati. Così, come Iacchetti, anch'io non posso più farne a meno.
Da qui in poi, lascio al lettore il gusto dell'esplorazione della lista da lui proposta in Semplici formalità, alla scoperta degli altri oggetti in essa inclusi: un gioco divertente ed istruttivo, da fare magari in spiaggia, sotto l'ombrellone, assieme alle parole crociate, o in campagna, mollemente sospesi su un'amaca, sorseggiando una bibita fresca, così com'è piacevolmente fresca questa lettura.