Ritratto e conversazione / Piero Gilardi. Natura espansa
Simone Ciglia – Il tema della natura è uno degli assi portanti del tuo lavoro di artista, e su questo vorrei incentrare il nostro dialogo di oggi. Per farlo, ho pensato di seguire le occorrenze del termine “natura” – e le sue evoluzioni – nella tua opera. Credo che la prima volta in cui la parola compare sia nel titolo Tappeti natura, una serie iniziata nel 1965. Opere ambigue, che vivono nella dialettica fra naturale e artificiale e rivelano da un lato il rimpianto per una realtà ‘naturale’ che si sta perdendo – siamo in pieno boom economico – dall’altro il tentativo di riportare la natura – per quanto artificializzata – all’interno di un contesto privato.
Piero Gilardi – Sì, ma anche per una componente di fiducia nelle tecnoscienze, che avevano portato la chimica italiana a vincere il premio Nobel. Nella mia ambivalenza – almeno quella che superficialmente si percepisce – c’è un investimento sulla natura ma anche sulle tecnoscienze. Oggi, in una dimensione post-human, il mondo macchinico può essere considerato un mondo non-umano col quale dobbiamo rapportarci attraverso uno scambio che arricchisce: come l’ibridazione uomo-animale ha arricchito nella storia dell’umanità la nostra cultura, anche il rapporto con il mondo macchinico può fornire degli elementi che ci aiutano a evolvere. Quando parliamo di evoluzione oggi parliamo di un termine molto a rischio, nel senso che in realtà i geologi per primi – ma oggi anche i filosofi – affermano che siamo entrati nell’Antropocene e andiamo verso la sesta estinzione della vita sul pianeta terra a causa dei fattori antropici. Io continuo a pensare che l’uso corretto, rispondente ai bisogni dell’umanità delle tecnoscienze è un uso evolutivo, che ci potrebbe aiutare. Ad esempio, nel contesto dell’ecologia riparativa, oggi gli studi della tecnoscienza possono portare soluzioni al problema del grande, quasi irreversibile inquinamento in cui il pianeta è immerso. Ad esempio potrebbero esserci dei bios geneticamente modificati capaci di assorbire e riciclare i fattori d’inquinamento sia nei territori che nelle acque. Dico subito la mia posizione. Io parto da un incanto personale per il mondo naturale legato alla mia storia personale. Ho passato i primi tre anni di vita nella natura perché – si era in tempo di guerra – la mia famiglia era sfollata in un paesino delle Prealpi. Per tre anni ho trascorso qui questa fase formativa del carattere – dal punto di vista psicanalitico i primi tre anni sono quelli in cui si forma il carattere e io sono sempre stato in mezzo all’erba, alle foglie, alla neve… Dentro di me, nel mio inconscio, ci sono sensazioni naturali fortissime; sovente escono fuori nei Tappeti natura con una tonalità affettiva e fiabesca proprio perché sono le sensazioni che ho avuto da bambino. Da bambino vedi le cose in maniera molto differente dagli adulti. Ho fatto questa premessa perché è importante per spiegare il mio lavoro. Serve a capire perché ho usato un materiale sintetico per fare i Tappeti natura. Il mio intento era quello di ricreare la natura – perché appunto condividevo questo sentimento che iniziava a nascere allora di perdita della natura. Gli anni Sessanta sono stati quelli del primo boom economico; la società industrialista era già altamente inquinante: non c’era nessuna precauzione rispetto alla contaminazione dell’ambiente, delle acque, dei territori… la macchina produttiva andava avanti a sporcare senza tregua. Le conseguenze poi si sono viste.
Ho usato un materiale sintetico perché avevo una speranza: che gli sviluppi delle tecnoscienze in quel periodo aprissero degli orizzonti evolutivi, capaci cioè di migliorare la vita di tutti. Il poliuretano espanso era un materiale nuovo nato naturalmente – come tanti altri – da studi militari. Nel dopoguerra, industrie italiane come la Olmo hanno acquistato il brevetto e messo in produzione questi materiali. Ma la mia scelta era principalmente dettata dal fatto di ricostruire un pezzo di natura che fosse fruibile dal corpo. Questo è il paradigma del Tappeto natura rispetto al mondo dell’arte: non è più un dipinto da contemplare in cui si vede un paesaggio ma è un pezzo di natura da vivere, usare col corpo, quindi col proprio apparato psicomotorio. Il poliuretano espanso era quel materiale sintetico
con la memoria di forma capace di svolgere questa funzione.
Il coinvolgimento fisico dell’osservatore – forse non è nemmeno più il caso di chiamarlo così – si allarga con la serie, di poco successiva, degli Abiti natura.
Avevo già realizzato degli abiti negli anni Sessanta con indumenti variamente manipolati. Questo discorso era inerente allo sviluppo concettuale dell’arte moderna: c’era quindi l’esigenza – in me, Michelangelo Pistoletto, Aldo Mondino, Pierpaolo Calzolari e nel gruppo di artisti dell’Arte povera – di portare l’atto creativo nel vissuto delle persone, nella loro vita quotidiana. Allora l’orizzonte era quello dello spazio domestico; più avanti, questo ha voluto dire invece scendere in piazza, essere un militante, l’animazione politica nelle manifestazioni.
Infatti il passaggio successivo maturato nel 1968 va nella direzione dell’abbandono dell’arte, almeno di un certo modo di fare arte, in favore dell’impegno politico. M’interessa capire se era presente – e come – questo rapporto con la natura anche in quella stagione della militanza.
La natura è stata presente nel mio lavoro di animatore artistico-sociale rispetto alla intima natura umana. In quel periodo esercitavo il lavoro professionale di arte-terapeuta. Nelle parallele attività politiche collettive – dal dipingere dei murali con gli operai di una fabbrica occupata al preparare trofei di propaganda politica per difendere un’area verde che stava per essere cementificata – mettevo dentro questo sentimento della natura umana profonda, cioè l’inconscio. L’inconscio, che da un punto di vista psicanalitico corrisponde alla dimensione organica, è imprendibile secondo i nostri strumenti culturali: possiamo descriverne le manifestazioni e i segni che emergono nella vita reale ma non riusciamo a definirlo e quindi anche a controllarlo. È una parte della nostra istintività, del nostro incipit genetico: noi siamo degli animali. Le discussioni recenti sono incerte se far risalire a quattro o cinque milioni di anni fa la nascita della specie umana. Il vero salto di qualità nell’evoluzione dell’umanoide è stato tuttavia l’acquisizione del linguaggio, avvenuta secondo i paleontologi circa centocinquantamila anni fa, quindi in tempi abbastanza recenti. Gli ominidi avevano un repertorio d’istintualità a cui piano piano si sommava l’esperienza. Lo sviluppo del linguaggio ha permesso di accelerare l’elaborazione culturale delle nostre spinte istintuali – in termini psicanalitici, libidiche. In tutto il periodo in cui ho fatto dell’arte militante la componente naturale era la nostra parte istintuale e animale, che c’è in ciascuno di noi.
Durante quello che è stato definito il tuo “ritorno all’arte”, dagli anni Ottanta, il rapporto arte-natura ha attraversato una nuova declinazione in cui entrava – in maniera più evidente rispetto al passato – la componente tecnologica. Mi riferisco a installazioni come Inverosimile, ad esempio.
Inverosimile è l’installazione più grande che sono riuscito a realizzare. I vitigni danzanti hanno segnato un passaggio nel quale ho iniziato a lavorare con le nuove tecnologie. La motivazione principale era di nuovo umana, perché le nuove tecnologie permettevano nello spazio virtuale relazioni che altrimenti non sarebbero state possibili. Mario Canali, un artista italiano della New Media, diceva che la realtà virtuale è un sogno condivisibile: i nostri sogni sono un prodotto onirico del tutto individuale ma nessuno può entrare dentro il nostro sogno; nella realtà virtuale si può, invece. Si può creare uno scenario virtuale in cui altre persone entrano e interagiscono con la loro soggettività. Dal 1985 al 1995 ho lavorato nella dimensione della New Media Art e ho realizzato opere di tema ecologico, come l’installazione Survival sul tema della nascita della città ecologica.
Anche dentro al lavoro tecnologico c’era un’attenzione al dato biologico. Nel corso degli anni Novanta io insieme agli altri artisti pionieri della New Media Art – ci siamo spostati verso le biotecnologie. Ad esempio nel 2002 ho realizzato un lavoro intitolato Mitopoiesis: una performance teatrale interattiva, in cui l’esito della vicenda veniva determinato dagli spettatori con raggi laser. La vicenda riguardava la cura sperimentale con cellule staminali totipotenti clonate nel cuore di un uomo infartuato.
Proseguendo questo itinerario storico, un altro passaggio nodale è rappresentato dal PAV, il Parco d’arte vivente, aperto a Torino nel 2008 come «museo interattivo della natura».
Nella progettazione del PAV, che ho svolto con un gruppo di architetti e operatori sociali, convergevano molte mie esperienze: anzitutto il mio rapporto forte con la natura ma anche la mia esperienza relazionale di animatore e di arte-terapeuta. In un certo senso il PAV è stato anche una mia “opera” – tra virgolette – in realtà è una struttura vivente che si sta evolvendo. Dall’apertura nel 2008 vi hanno lavorato molti curatori: da Nicolas Bourriaud a Gaia Bindi, specialista dell’arte ecologica; negli ultimi tre anni Marco Scotini, esperto di arte politica, ha portato al PAV l’attuale declinazione dell’arte agro-ecologica: ci sono degli artisti che lavorano in campagna e nelle comunità rurali per dare impulso all’agricoltura biologica, alla permacultura, con un lavoro di grande respiro culturale. Ad esempio Fernando García-Dory che lavora in un villaggio cerealicolo della Galizia, Myvillages, che ha creato orti urbani a San Francisco in zone morte (come all’incrocio delle autostrade), Futurefarmers, o Wurmkos in questo momento.
Una tua mostra piuttosto recente s’intitola Natura espansa: mi sembra una dizione abbastanza riassuntiva per descrivere la concezione della natura che emerge globalmente dal tuo lavoro.
Sì. Che cosa vuol dire il rapporto arte-natura oggi e in futuro? Il futuro ha sempre un piede nel presente. Se siamo d’accordo che siamo nell’Antropocene e quindi ci consideriamo anzitutto terrestri – cioè abitanti della terra (non più umani – e c’è una belle differenza!) – ci rendiamo subito conto di qual è il rischio che stiamo correndo. In questo periodo guardando la distruttività della nostra specie – dal Paleolitico a oggi – siamo sull’orlo di dare il colpo definitivo all’intera catena biologica sulla terra. Noi artisti dobbiamo lavorare per trasmettere questa consapevolezza al nostro pubblico, la gente in generale. Artisti come Futurefarmers fanno questo. Qualcuno dice che lavorare in campagna sia un arcaismo. No, è un punto di vista diverso, cioè quello di sentirti terrestre. Se ti senti terrestre cominci a pensare che ad esempio negli ultimi 50.000 anni noi uomini abbiamo distrutto tutti i grandi mammiferi; oggi stiamo distruggendo anche gli altri animali. Una delle specie spia è ad esempio le rane, che stanno sparendo a grande velocità. Se sei un terrestre ti preoccupi del fatto che stanno morendo gli animali, che pezzo dopo pezzo si sta esaurendo la catena biologica degli esseri viventi su questa terra. Noi artisti dobbiamo cercare di far prendere coscienza di questo problema, e lo facciamo con i nostri strumenti: il linguaggio estetico che oggi è profondamente ibridato con l’etica. L’estetica contemporanea non è assolutamente più una categoria isolata dell’agire e del pensare umano. Oggi l’estetica è ibridata con l’etica, e quest’ultima dà la consapevolezza di ciò che la specie umana sta facendo sul pianeta in questo momento: sta tagliando gli elementi di connessione della rete degli esseri viventi, compresa la vegetazione.
Secondo te l’arte ha la capacità di produrre un cambiamento rispetto a questa consapevolezza?
L’arte da sola no. Ma l’arte di oggi è un processo transculturale: non è più un’attività conchiusa nella dimensione della categoria estetica e simbolica. L’arte di oggi è interazione simbolica dinamica, si rapporta con la politica, la scienza, anche la filosofia (anche se quest’ultima è diventata la cenerentola del pensiero contemporaneo. I filosofi si sono accorti solo dieci anni fa che siamo nell’Antropocene, mentre i paleontologi lo dicono da trent’anni – il termine è stato coniato da un paleontologo americano nel 1949).
L’arte di oggi, con la sua capacità di coinvolgimento, d’ibridazione con le altre attività umane, sì, lo può fare collaborando con la politica e la scienza. Per politica intendo l’attività che fanno le moltitudini che lottano per i beni comuni, per la salvaguardia della natura, per migliorare la loro alimentazione. Dall’altra parte la scienza ci aiuta a capire meglio la situazione. Il fatto che dei geologi abbiano stimolato dei biologi a ricostruire la storia delle estinzioni della vita su questo pianeta dice molto sul fatto che gli scambi interdisciplinari permettono una conoscenza più approfondita della realtà. Noi artisti dobbiamo lavorare molto sul piano della conoscenza. Ci sono tanti artisti ecologici oggi che sono alla moda: sono operazioni di superficie che non cambiano niente. Anche l’arte se ha la capacità d’ibridarsi può incidere sulla realtà perché rafforza la coscienza di quella parte che, con un termine usato da Toni Negri, possiamo definire “moltitudini”. Se lavoriamo sul piano della cultura delle moltitudini mobilitate possiamo cambiare la politica. Non ci sono state solo sconfitte nella storia del movimento ecologico ma anche tante vittorie dimenticate presto.
Come quella sul nucleare, ad esempio.
Abbiamo vinto sul nucleare nel 1987. La stessa cosa non è accaduta di nuovo con le trivelle – a causa della nostra scarsa capacità di coinvolgimento. Gli artisti sul piano della prassi politica devono collaborare anche a che questa nostra consapevolezza, questo nostro patrimonio di conoscenze, questi nostri progetti di alternative – perché ci sono delle alternative, ad esempio la teoria della decrescita felice di Serge Latouche. I movimenti comunitari che fanno agricoltura biologica dimostrano in piccole situazioni campione che l’alternativa è possibile: è possibile un modello di produzione e sviluppo totalmente diverso, perfettamente ecosostenibile. E noi artisti possiamo aiutare il superamento del ritardo nella coscienza pubblica. C’è da dire che quest’ultima è bombardata dai media, i quali da un lato illudono che sia sufficiente cambiare la maschera alla macchina produttiva facendola diventare green economy, dall’altro assecondano le posizioni dei politici. Nella nostra società neoliberista di oggi – come d’altra parte anche in passato, da quando esiste la società borghese – c’è una separazione di compiti fra la politica e la scienza. Questo fa sì che i politici non si prendano carico delle preoccupazioni della scienza ma la utilizzino come dimostrazione formale, come dimostra la vicenda del riscaldamento globale.
I media assumono la posizione dei politici e la proiettano sul pubblico, il quale a sua volta – e parliamo di dinamiche della psicologia di massa – non vuole sentire che siamo in una situazione rischiosa per il nostro ambiente perché ci sono già troppe precarietà nel nostro mondo – rispetto al posto di lavoro, al welfare, ai diritti sociali. Il problema dell’ambiente ha tempi molto più lunghi – oggi si parla del 2050 come crinale: se nel 2050 la temperatura complessiva media si sarà alzata di più di due gradi, cominceranno a esserci i primi disastri sistemici e le prime estinzioni di massa di esseri viventi. La gente, che ha già tante preoccupazioni, non ci pensa. I tempi biologici del sistema ambientale sono più lunghi di quelli dell’esperienza quotidiana delle persone. Questo è il risultato di una colonizzazione culturale effettuata dal potere attraverso i media, che spingono tutti noi a vivere incollati nel presente, senza preoccuparci dell’avvenire e ovviamente dimenticandoci dell’esperienza del passato. Da molti anni discutiamo all’interno dell’ambiente degli artisti ecologici ma adesso c’è stato un salto di qualità nel momento in cui abbiamo assunto il paradigma dell’Antropocene: ci stiamo estinguendo e con noi si estinguerà tutta la catena biologica, se non cambiano radicalmente la nostra modalità di vita sociale.
Piero Gilardi: la natura come paradosso*
Carlotta Sylos Calò
Si è aperta il 13 aprile al MAXXI la mostra Nature Forever, curata da Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini, e dedicata a Piero Gilardi. Profondamente influenzata dal pensiero critico di Michel Foucault, Gilles Deleuze e Félix Guattari, e tra gli esempi italiani più interessanti di impegno attraverso l’arte in questioni quali, l’ambiente, l’ecologia, il nucleare, la speculazione edilizia, la ricerca di Gilardi è stata tra le prime a interessarsi del rapporto tra uomo e natura, a utilizzare materiali industriali e tecnologici, per proporre una reinvenzione di luoghi, relazioni e paesaggi, convertendo l’evento artistico in un rito collettivo dalla caratterizzazione sociale e politica. Con questa mostra – ricca di opere e documenti – e il suo catalogo (Nature Forever. Piero Gilardi, a cura di Anne Palopoli, Quodlibet) il MAXXI rende omaggio a una delle ricerche più coerenti e impegnate dell’arte italiana, indirizzata a ribadire le energie creative e critiche del soggetto individuale e sociale.
Torinese, diffidente verso l’ambiente dell’accademia che considera ‘viziato’, Gilardi dopo il liceo artistico prosegue la sua formazione da autodidatta prediligendo, nel panorama piemontese, le mostre del Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, caratterizzato dalla libertà d’uso dei materiali e dalla critica alla logica capitalistica, cui oppone un'arte in grado di sollecitare il pubblico, attivandone pensiero e sensibilità. Questi riferimenti sono fondamentali per il giovane Gilardi che con Michelangelo Pistoletto e Aldo Mondino frequenta lo spazio gestito a Torino dal critico Michel Tapié e s’interroga sulla possibilità di produrre «oggetti artistici nello spazio del vissuto» (Intervista del 1973 di Mirella Bandini a Piero Gilardi, ripubblicata in Mirella Bandini, Arte Povera a Torino 1972, Umberto Allemandi&Co, Torino 2002, p. 99). L’interesse per il legame arte-vita, interpretato in varie declinazioni da molti giovani artisti di quegli anni, si traduce presto in Gilardi nella creazione di opere capaci d’interagire con il vissuto, individuale e collettivo, in cui la natura, presa come immagine e come oggetto, rimanda alla qualità della relazione tra uomo e realtà illuminando il quotidiano dei suoi spettatori.
Nascono così, nell’ottobre del 1965, i Tappeti-natura, oggetti in resina poliuretanica espansa, che riproducono – in scala reale e nei minimi dettagli – forme vegetali, animali e minerali ricreando interi habitat, dal greto di fiume all’orto, dal fondale marino al campo di papaveri. Simulacri che solo il tatto può smentire, questi lavori inducono lo spettatore a ridiscutere il valore e la sostanza di ciò che vede. Potenzialmente oggetti sostitutivi d’arredamento, pezzi di natura finta, isole artificiali messe a terra, più che esposte, calpestabili e toccabili come un’opera d’arte usualmente non è, e acquistabili a metro come pezze di stoffa, queste opere sono anche dispositivi di una riflessione sul consumo, sull’essere e l’apparire. Attraverso i Tappeti-natura e i successivi Vestiti-natura, paesaggi abitabili e poi indossabili, Gilardi segnala allo spettatore la complessità dell’esperienza – di un corpo a corpo con la realtà non regolato dall’uso e non limitato all’apparenza del visivo – e lo fa sottintendendo il dramma di una natura mortificata e stravolta dal mercato e dall’industria.
Questo gruppo di opere reinventa dunque l’esperienza quotidiana giocando sul complesso rapporto naturale-artificiale e, insieme, indica lo stato fluido dell’oggetto d’arte: da dispositivo meravigliante a merce. Create con l’intenzione di recuperare l’esperienza individuale (a livello del pensiero e del corpo) queste opere pop – che rifuggono però la semplice funzione presentativa e si fanno forti del concetto marcusiano del gioco come trasformatore della realtà – esortano a riscoprire valori soggettivi negati dalla realtà massificata e standardizzata della civiltà industriale, intervenendo direttamente sul sistema di relazioni tra fruitore e oggetto, non solo ricercando nuove possibilità estetiche ispirate alla tecnologie e ai mass-media, ma soprattutto occupandosi di quelle relazionali e critiche. Un atteggiamento questo che è segno dei tempi e viene anzitutto dall’esperienza personale: quella di una natura deturpata che Gilardi intende ricostruire in un oggetto domestico da «offrire all’uso confortevole del corpo» (Nature Forever, p. 90).
Attraverso immagini-oggetti surrogati e paradossali, che imitano la decoratività dei consumi ma ne rifuggono la sostanza, Gilardi libera le esthesis e si schiera a favore di un rapporto dialettico tra cultura e società, rimanendo fedele a questo atteggiamento anche quando nel 1967, al culmine del successo per i suoi Tappeti, decide di rinunciare alla creazione di oggetti e dedicarsi alla dimensione comunicativa e relazionale dell’arte continuando a investire sulla “carnevalizzazione del mondo” per il ribaltamento dei luoghi comuni, delle attribuzioni sociali e delle funzionalità consuete (Marco Scotini, Politiche della vegetazione. Conversazione tra Piero Gilardi e Marco Scotini, Marco Scotini (a cura di), “Alfaecologia”, Speciale di “Alfabeta2”, anno V, numero 35, aprile-maggio 2014).
Nel 1969 Gilardi, infatti, abbandona «la metafora dell'arte» per «partecipare alla lotta rivoluzionaria» (Piero Gilardi, Dall'arte alla vita. Dalla vita all'arte, Parigi, 1981, p. 12) e prende parte ad attività artistiche e culturali (happenings, eventi, azioni, stampa di manifesti) direttamente calate nel sociale (raduni politici, teatro di strada, arte pubblica, atelier popolari) ed esemplificative di un’arte quale “movimento di pensiero”.
È con gli anni Ottanta che l’artista – senza rinunciare all’organizzazione d’iniziative politico-culturali – inaugura una nuova fase del suo lavoro sotto il segno della tecnologia digitale e dell’interattività. Alla fine del decennio riprende il binomio natura-cultura affrontato agli esordi, per scandagliarlo ulteriormente attraverso lo strumento delle nuove tecnologie elettroniche e informatiche, approfondendo la dimensione partecipativa sempre perseguita. Così i lavori prodotti, ormai veri e propri ambienti, inaugurano moderne e più forti modalità percettive. Dissociandosi totalmente dalla lettura passiva delle opere pop, Gilardi concentra il suo lavoro sulla polisensorialità cui unisce l’interattività potenziata dalla tecnologia, in grado di associare agli oggetti e agli ambienti il movimento e il suono. Il binomio arte-natura si arricchisce così di un altro importante dato: quello della tecnologia, un attore indispensabile per la costruzione di una narrazione sviluppata in base all’esperienza ludica del pubblico protagonista dell’opera.
Dalle forme biomorfiche dei tappeti, secondo l’obiettivo dell'interattività, della multidimensionalità e della polisensorialità, nasce nel 1989 l’installazione Inverosimile (1989). Si tratta della ricostruzione di un vigneto in forma ambientale, associata a un’interfaccia elettromeccanica capace di gestire i movimenti delle piante. Il pubblico entra nel vigneto e interagisce con l’ambiente: gli alberi si aprono al suo passaggio e le foglie luminose, una volta toccate, emettono vari suoni. Sul pavimento sono proiettati dei cerchi luminosi che, all'aumentare del pubblico nello spazio, si condensano fino a trasformarsi in una sorta di arancia, o di fuoco. Tutto dura venti minuti. La regia dell’esperienza è impeccabile: al pubblico è dato il tempo per acquisire confidenza con l’ambiente e relazionarcisi.
L'animazione dell'interattività è suddivisa in quattro temi – il vissuto, l'azione, la crisi e la catarsi – che, pur avendo una dinamica preordinata, restano aperti alla variabilità dei fruitori. La natura “in perdita” – secondo la definizione di Sottsass – dei tappeti ritorna dunque animata, a dimensione naturale, e proprio nel contesto agricolo della vigna, un luogo perfetto per un esercizio di conoscenza “aumentata” della natura all’insegna della collettività e dell’esperienza, che ha come tema principale proprio il triangolo uomo-natura-tecnologia. In un tempo in cui le consuetudini della relazione con l’ambiente, valide per secoli, si sono per sempre alterate, la realtà virtuale e le moderne tecnologie creano una natura potenziata e chiamano l'osservatore a essere un interlocutore attivo, non solo nel funzionamento dell'apparato visivo ed espositivo del lavoro, ma proprio dell'immaginario evocato. L’opera ricalca infatti non soltanto le forme dell’agricoltura ma anche i suoi sistemi: è collettiva, non autorale, è il frutto della collaborazione tra artisti e tecnici e ha modalità operative che richiamano il lavoro artigiano.
All’esordio del nuovo millennio la natura simulata dei tappeti, ancora legata all’umanesimo modernista, cede il passo a una ricostruzione più accattivante, in forma ambientale e quasi incantata. Qui il pubblico, spettatore e attore, riscopre un nuovo modello esperienziale fondato sulla comunità e sull’ascolto del contesto, un modello quindi alternativo, sul piano macropolitico, a quello sociale dominante, lo stesso che Gilardi contesta con l’ideazione e realizzazione del PAV, il Parco d’Arte Vivente (2008) di Torino.
Parco e centro d’arte interattivo della natura sorto su un’ex area industriale, il PAV è dedicato alla bio-arte e a esperimenti sociali al limite tra pratiche artistiche e rurali. Qui attività come l’agricoltura divengono strumenti di resistenza ai meccanismi economici imperanti del neoliberismo e la comunità del pubblico è chiamata all’esperienza personale. Come accadeva già con i Tappeti, gli eventi degli anni Settanta e le successive installazioni, con l’esperienza del PAV Gilardi riattiva la circolarità uomo-natura e arte-natura stabilendo la funzione primaria dell’arte – non icona ma «espressione di relazioni, di interazioni umane a livello simbolico e di eventi collettivi, transculturali ed ecosistemici» (Piero Gilardi, Common art?, in “Alfabeta 2”, 18 luglio 2015) – e lo fa coerentemente al principio di un'espressività diffusa e socializzata, nutrita dall’interazione tra soggetto e oggetto e tesa a indicare una maggiore e più “naturale” libertà intellettiva ed emotiva dell’individuo e della comunità, secondo una concezione che sboccia negli anni Sessanta e riesce a nutrirsi di quell’energia anche oggi. L’arte politica di Gilardi nasce infatti in un periodo di grande partecipazione politica e culturale in cui la letteratura, il cinema e le arti visive assumono di fatto il ruolo di avanguardia, in qualche misura anticipando tratti e riflessioni connaturate all’identità del nostro Paese, tra cui quelle riguardanti la natura. Questa presto adottata, oltre che come tema, come materiale attivo nel campo ormai espanso dell’arte, è il tramite attraverso cui guardare la realtà e insieme riconquistare una dimensione umana primaria, sacrificata nel riscatto economico e sociale degli anni del boom.
Le arti visive, cresciute fin dalle origini nell’osservazione del paesaggio, rilevano, in pieno decennio Sessanta, il cambiamento portato dall’industrializzazione e dalla civiltà di massa e guardano al rapporto uomo-natura e all’industria, ai suoi materiali e sistemi di produzione. In questo binomio Gilardi è profetico e già coglie – lo nota subito Ettore Sottsass – «il nocciolo concettuale della odierna concezione ecologica, che considera riparativo delle bio-tecnoscienze per il ripristino dei sistemi ecologici alterati e della biodiversità» (Nature Forever, p. 92). Un nocciolo concettuale che, sotteso alla sua intera ricerca, caratterizza tutte le ‘esperienze’ che Gilardi concepisce per il pubblico, nasce da un intreccio tra teoria e prassi sempre perseguito e mira a non lasciarsi portare, esercitando la propria esperienza, e quindi la propria coscienza, in un senso sempre più fattuale. Le utopie dell’unione tra arte e vita e dell’arte come bene comune degli anni Sessanta e Settanta, finalizzate all’emancipazione delle energie interiori attraverso l’espressione collettiva, si realizzano negli anni Duemila secondo la strada tracciata da un’estetica relazionale che intende, oggi come allora, ma oggi con più strumenti pratici e teorici, l’attività artistica quale possibile incarnazione di un’energia, soggettiva e quindi collettiva, capace di trasformazione.
*Questo contributo nasce dalla rielaborazione di un testo di Carlotta Sylos Calò precedentemente apparso su Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta a oggi, a cura di Simone Ciglia, CREA Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria, Roma 2015.