Parigi / Sans-papiers. Abou nel labirinto

1 Giugno 2018

L’altra sera dopo cena con S. abbiamo guardato il video di Mamoudou Gassama, il sans-papiers del Mali che ha salvato il bimbo appeso a un parapetto scalando quattro piani di facciata. S. ne aveva sentito parlare in cantiere, nel pomeriggio. Al video della scalata segue uno spaccato del colloquio che Gassama ha avuto con Macron all’Eliseo. Ho sentito delle grida e dei clacson strombazzare, dice Gassama. Macron gli chiede che ora era. Le venti. E dunque t…, dice Macron bloccandosi sulla t; un attimo di sospensione e poi riparte: Così, senza riflettere, si è… E con la mano fa il gesto di precipitarsi. Dal tu al lei; dal piano terra al quarto. Sotto i riflettori.

E adesso, cosa succede? mi chiede S. Adesso Macron lo naturalizza.

 

Abou* invece ha ricevuto la "notifica di trasferimento".

Il suo "periodo dublino" doveva finire a inizio giugno, ma ha ricevuto questo foglio che lo invitava a presentarsi in una certa prefettura entro quarantott’ore, perché l'Italia (dove ha lasciato le impronte arrivando dalla Libia, e prima ancora dalla Guinea, suo paese natale) avrebbe accettato di riprenderselo. Un'espulsione, insomma.

Lo sono venuta a sapere da N., nostra comune amica italiana, che me lo ha per così dire affidato un anno fa. Aveva disegnato con lei nel corso di un effimero laboratorio artistico nel campo profughi di Ventimiglia e lei l’aveva generosamente adottato come fa certe volte, senza filtri e sconsideratamente; e quando è approdato a Parigi mi ha chiamata da Torino con l’apprensione di una zia. Adesso la zia scrive sulla mia bacheca FB: Hai sentito Abou? Chiamalo.

L'ho chiamato, non ha risposto. Ho risentito N., che mi ha detto: Gli hanno dato il foglio di via. L'ho richiamato, arrabbiata, ha risposto, gli ho fatto il cazziatone – lo faccio spesso quando sono più spaventata del mio interlocutore. L'ho affidato a S. perché lo accompagnasse a una permanence juridique (servizio di consulenza giuridica di un'associazione parigina), S. gli ha dato appuntamento, Abou l'ha paccato. Ancora più arrabbiata lo richiamo, gli dico che se fa così mi passa la voglia, lui con la voce incrinata mi dice che ha paura, che non si è presentato alla prefettura perché era paralizzato dalla paura, che ha fatto il pacco a S. perché un'altra a me ignota associazione gli ha offerto un'assistenza che poi non gli ha dato, mi giura che adesso ci va, alla permanence juriduique con S.

 

Disegno di Abou

 

Nel frattempo purtroppo la (breve) finestra che per legge consente di fare ricorso in questi casi si è chiusa.

E infatti. Alla permanence juridique guardano la "notification de transfert" e gli dicono: Purtroppo non c’è molto da fare; o rimani qui per diciotto mesi, nascosto, pregando che la polizia non ti fermi mai, e allo scadere dei diciotto mesi potrai finalmente [forse, penso io, vista la legge sull'asilo e l'immigrazione messa a punto dal governo Macron] fare domanda d'asilo, oppure ti consegni alla polizia francese e ti fai espellere; in Italia vai alla polizia con tutti i documenti rilasciati dalla Francia e dici che tu lì non vuoi chiedere asilo, loro ti danno un foglio che attesta il tuo rifiuto di fare domanda d'asilo in Italia e ti rispediscono in Francia, dove a quanto pare [sì sì, diversi miei amici hanno fatto così, funziona! dice S.] a quel punto potrai fare la tua domanda. Gli confermano inoltre quello che gli avevo già detto al telefono: da questo momento, per la Francia sei considerato "in fuga".

E qui comincia l'assurdo balletto delle decisioni da prendere senza l'ombra di una soluzione possibile all'uscita del labirinto. In pratica, tutte le decisioni potrebbero precipitarlo nel baratro.

Parlo con L., un’amica che fa volontariato tra Nizza e Ventimiglia: Dio, cosa gli consiglio? Lei sente una legale italiana che dice: Quella di tornare in Francia col foglio delle autorità italiane mi sembra una cazzata [ma sì ti dico! per alcuni miei amici ha funzionato! insiste S. – e dato il panorama di situazioni grottesche e assolutamente prive di una qualsiasi logica amministrativa cui ho assistito di persona mi viene da credergli].

Chiamo Abou e in modo abbastanza antipatico – sono antipatica quando ho paura – gli dico che se si consegna alle autorità francesi deve mettere in conto che lo rinchiuderanno in un CRA, un centro di detenzione, il tempo di "preparare il suo viaggio". In pratica è un po' come essere in prigione, gli dico, non sarà certo piacevole ma lo fai con cognizione di causa.

Cognizione di causa? Mi viene da ridere, mentre lui, come spesso accade, sposta l'angoscia su un dettaglio: Come faccio a procurarmi una sim italiana? Come faccio a chiamare te e gli amici in Italia, quando sarò lì? A S., che alle mie spalle sbuffa e dice: ma diobono ce la siamo procurati tutti una sim italiana quando siamo arrivati a Ventimiglia, che problema ha Abou?, impartisco una lezione di psicologia domenicale: Concentra in questa preoccupazione ridicola tutta la sua paura, gli dico.

L'altro giorno Abou mi chiama: Ho preso la mia decisione, posso venire a casa tua? Lo aspetto inquieta: Non esiste una buona decisione, perciò adesso stai buona, non giudichi, lo lasci libero.

Ho deciso di non partire, mi dice in cucina mentre io mi faccio il caffè e lui digiuna.

Mi guarda con apprensione. Gli dico: hai paura che mi arrabbi, vero? Annuisce. Gli dico: Abou, è la tua vita, non mi arrabbio, puoi parlare.

Dice che ha paura che una volta in Italia non riuscirà più a varcare la frontiera (su Skype l'amica di Torino parla di passi alpini remoti dove lo potrebbe accompagnare, lui parla dei connazionali che lo chiamano bloccati a Ventimiglia da settimane, L. mi scrive via Messenger che in Val Roia e a Ventimiglia si sta preparando una maxi operazione di rastrellamento), che ha paura che se poi in Italia gli succede qualcosa non sa dove andare né come spiegarsi (la lingua), che... abbassa la testa e non dice più niente, ma lo so, i suoi affetti sono qui, ora. Una cugina che, a ventitré anni, è tutta la famiglia che gli resta.

Volevo dargli cinquanta euro per i primi giorni in Italia, gliene do venticinque per riparare il cellulare e se ne va; a iniziare con un cellulare funzionante i suoi diciotto mesi da sans-papiers, senza documenti né diritti, con l'aspettativa di scongelare le pratiche se arriva intero al traguardo.

 

Bevo un secondo caffè e ripenso all’anno parigino di Abou; alla settimana che ha trascorso da me, nel mio studio trasformato in cameretta (siamo una piccola famiglia, diceva S. con l’aria divertita e rassicurata), quando ancora lo credevo minorenne e minorenne lo vedevo; a quando quel venerdì, mentre faceva la borsa per trasferirsi alcuni giorni nella chambre de bonne di V., gli ho detto: Vai a sceglierti un libro nella libreria, per quando sarai solo (N. gli aveva regalato un libro sull'Art brut che si portava sempre appresso in un sacchetto di plastica), e lui è tornato con La vie matérielle di Marguerite Duras. – Conosci Duras? gli ho chiesto – No, per niente, ma mi interessa; a quando la Croce Rossa l’ha parcheggiato in un albergo di Rue Lafayette in attesa del responso della DEMIE (dispositif d’évaluation des mineurs isolés), e alla risposta negativa della DEMIE che ai miei occhi l’ha fatto crescere di colpo, privato dell’unica risorsa strategica, l’unica carta che aveva creduto di potersi giocare. Ripenso a quando una famiglia di immigrati guineani l’ha preso a vivere con sé, a Saint Ouen, a quando a settembre mi ha chiamato in Grecia per dirmi che era andato alla prefettura e l’avevano dublinato.

Penso al Regolamento di Dublino IV che si sta preparando, tra le cui modifiche c'è che se ti viene rifiutato l'asilo in un paese membro non potrai ripetere la domanda in nessun altro paese europeo. Ogni volta, arrivata a questo pensiero, nella mia testa parte un'animazione in cui questa gente si smaterializza, letteralmente, oppure lascia il Pianeta Terra.

 

* il nome vero è stato sostituito per evidenti ragioni.

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