Scuola. Insegnare al principe di Danimarca
È uscita da poche settimane, per Sellerio, un’edizione nuova e accresciuta di Insegnare al principe di Danimarca, la raccolta degli scritti, curata da Cesare Moreno, dell’insolito taccuino didattico tenuto tra il 1998 e il 2006 da Carla Melazzini, nata nel 1944 in Valtellina e morta nel 2009 a Napoli. Pubblicato per la prima volta dall’editore palermitano nel 2011 e più volte ristampato, negli ultimi dodici anni questo libro ha nutrito l’immaginazione e animato il lavoro quotidiano di molti, specie di quanti di noi insegnano negli istituti professionali, in particolare a Napoli e nell’Italia meridionale. Eppure queste pagine sono maturate in un contesto molto diverso da quello delle comuni aule scolastiche: allieva della Scuola Normale di Pisa, trasferitasi a Napoli alla fine degli anni ’60, Carla Melazzini è stata per molti anni un’insegnante in istituti tecnici e professionali, ma in effetti l’esperienza affidata a queste pagine è relativa a un progetto esterno alla scuola pubblica, sia pure complementare e collaborativo con essa: il «Progetto Chance», da lei fondato, insieme con Cesare Moreno, nel settembre 1998.
In undici anni di attività, il progetto, da cui sarebbe nata nel 2003 l’associazione «Maestri di strada», ha preparato per l’esame di licenza media centinaia di ragazzi e ragazze che avevano abbandonato la scuola dell’obbligo, quasi tutti in seguito a una bocciatura in prima media, seguita da una seconda bocciatura («Allora i giochi sono fatti: non è possibile, a 13-14 anni, stare nella stessa classe con dei bambini», p. 84); ragazze e ragazzi cresciuti negli enormi fabbricati costruiti dopo il terremoto dell’80 nei quartieri di San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli, nati in famiglie sradicate dai vecchi caseggiati pericolanti del centro storico di Napoli e confinate nella periferia orientale di Napoli, investita in pieno dal processo di dismissione di quello che, nel Novecento, fu il quarto polo industriale italiano; famiglie prive nella maggioranza dei casi di reddito regolare e sopravviventi nel cerchio più ampio ed esterno del sistema del welfare criminale. Come leggiamo nella nota di Claudio Giunta (Come insegnare, come vivere) in apertura di questa nuova edizione, il libro parla «di un tipo di scuola così particolare che gli insegnamenti che offre apparentemente non possono essere applicati alle molto più normali scuole che tutti noi conosciamo […]. Ma appunto: apparentemente» (p. 13).
Questo libro, modello di documentazione didattica intesa come scrittura legata all’azione, ci insegna a fare nel nostro lavoro un uso della ragione “in presenza dei sentimenti”, senza dismettere la ragione illuministica a cui tanti di noi che operiamo in contesti di grande povertà educativa ci appigliamo, ma tenendo sempre presente che abbiamo a che fare con dei corpi di adolescenti, con dei corpi su una scena. Il “teatro psichico” è, infatti, la chiave del singolare metodo pedagogico di Carla Melazzini: fin dal titolo, questo libro attacca i residui tenaci e inconsci della teoria della separazione degli stili, quella teoria antica, gerarchica e classista secondo cui la tragedia, considerata la più alta tra le forme d’arte, sarebbe riservata a personaggi di elevata condizione sociale. Il titolo allude ovviamente ad Amleto, il protagonista dell’omonimo dramma di Shakespeare, ma in realtà il principe di Danimarca di cui parla Melazzini è il quindicenne Mimmo, uno degli allievi del progetto Chance, che soffre per un tragico e analogo conflitto: l’odio per l’uomo, a lui estraneo, con cui ora convive sua madre. «Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?» (p. 33).
Il centro della proposta pedagogica di Carla Melazzini è proprio qui: nella comprensione dei conflitti psichici che abitano gli adolescenti di quattordici-quindici anni, in una fase di lutto per l’infanzia perduta e di contemporanea ridefinizione dei ruoli tra i pari, di sgomento di fronte alla trasformazione del proprio corpo e all’incognita del futuro. Una fase che, critica per tutti, diventa drammaticamente in-elaborabile nel contesto di grave precarietà economica, lavorativa ed educativa della periferia napoletana, che intrappola i corpi in peculiari «nodi psichici», spesso più forti della proposta proveniente da docenti meglio intenzionati e confidenti nell’onnipotenza pedagogica della ragione. E gli ostacoli psichici al cambiamento individuale non possono essere superati senza un cambiamento di contesto, perché senza il cambio di contesto, senza giustizia sociale, cioè, il primo ostacolo psichico è appunto la renitenza al superamento individuale della propria condizione sociale e della cultura che la rende elaborabile (p. 61). Qui, in quest’ultima considerazione, è il segno più evidente della politicità più generale della visione di Carla Melazzini. Solo riconoscendo questa realtà è possibile rendersi conto di quanto la migliore, la più accogliente pratica didattica, possa per paradosso essere percepita come pericolosa: più essa è stimolante, più apre prospettive di relazioni e di vita che, sentite come inaccessibili, vengono ripudiate.
L’osservazione di Carla Melazzini non è clinica, ma scenica ed empatica. Di fronte a ogni comportamento di passività, di rifiuto, di insofferenza, di ribellione distruttiva, di fronte a ogni manifestazione del linguaggio (il rifiuto dell’italiano, il turpiloquio), di fronte a ogni somatismo (il mal di testa o altri malesseri indefiniti, il sonno di chi dorme con la testa sul banco) questo libro capovolge i giudizi correnti, quelli che porterebbero la gran parte di noi docenti a intervenire, più o meno indignati, con il vano arsenale di provvedimenti disciplinari graduali: note, convocazioni delle famiglie (destinata spesso a cadere nel vuoto), sospensioni, bocciature. Negato il (pre)giudizio consueto, quello di Melazzini nei confronti dei suoi giovanissimi alunni è in verità un riconoscimento: «Il dramma rappresentato esige che i suoi destinatari collaborino ad una agnizione, altrimenti il groviglio rimane irrisolto» (p. 114).
Nel rifiuto di scrivere, ad esempio, può emergere l’esperienza infelice della propria grafia, perché sgraziata e informe, con le conseguenze sull’autorappresentazione che un’esperienza corporea come la scrittura a mano può avere (p. 93).
Nei consumi vistosi (scarpe, giubbini, motorini, e oggi gli smartphone), che costituiscono tanto di frequente l’oggetto delle critiche accorate dei borghesi benpensanti (in quanto sarebbero preferiti a libri, proiezioni, concerti o altre opportunità realmente formative), potrebbe essere visto il segno della disperazione rispetto a un effettivo miglioramento della propria condizione sociale e la conseguente, consolatoria virata verso gratificazioni di corto raggio (p. 67). Spesso, infatti, anche gli eventuali, occasionali incrementi di reddito si incanalano verso questo tipo di «guadagni secondari» (simbolici). Con un extra «si può comprare ai propri figli il motorino, lo stereo, il computer [oggi lo smartphone]». Ma esso non è sufficiente «a convincere due genitori rimasti sostanzialmente poveri a trovare la voglia il tempo il piacere di accompagnare i propri figli a scuola o a lezione di nuoto» (p. 68).
L’ossessione per il telefonino, in particolare (e oggi per lo smartphone), potrebbe svelare «la sua natura di oggetto magico, che mantiene il cordone ombelicale con la madre e contemporaneamente consente di interromperlo e riattivarlo su comando; che permette una comunicazione ininterrotta con i pari, tramite lo scambio di messaggi, preferibilmente nelle ore di lezione, in modo da rendere provocatoriamente chiaro che ci sono rapporti e parole antagonisti, o per lo meno paritari, a quelli verticali tra insegnante e alunni» (p. 86).
Nel turpiloquio e, in generale, nei comportamenti aggressivi, possono riconoscersi i segni di angosce e paure relative al sesso, da ricondurre, più che alla difficile storia familiare (secondo un certo pregiudizio sociologico), a «emozioni relative al presente, in particolare alla sfera affettivo-sessuale» (p. 79). Una gravidanza precoce può rappresentare «il modo più definitivo di rientrare nei ranghi del proprio destino sociale, tagliandosi i ponti alle spalle» (p. 105).
Il rifiuto stesso per la scuola, in ultima analisi, potrebbe essere parte di una più complessiva paura della vita percepita come realtà spaventosa (per la morte violenta di un coetaneo, per la prigionia di amici e congiunti), una paura a cui potrebbe essere legato lo sconvolgimento del bioritmo che così di frequente, e anche oggi, soprattutto dopo la pandemia, osserviamo negli alunni: «nemmeno i periodi di lavoro, nero e servile, cui i ragazzi si sottopongono quando hanno bisogno di soldi per comprarsi i panni o il telefonino, sono sufficienti a dare una svolta: finito il lavoro, si torna al rapporto privilegiato con il letto, dal quale è così difficile staccarsi. Il letto e la televisione [oggi i reel di Instagram o TikTok], perché la paura del silenzio è la prima forma della paura. E le lunghe mattinate di sonno, verso un risveglio privo di ogni attrattiva, diventano le incubatrici della depressione» (p. 196).
Di fronte al disvelamento complessivo messo in atto dal libro, viene da chiedersi quali strumenti abbia davvero la scuola pubblica per trattenere, o almeno non respingere, i ragazzi e le ragazze a rischio di dispersione scolastica, cioè quelli che si iscrivono negli istituti professionali, quelli che più di tutti avrebbero diritto di fare esperienza del carattere progressivo del nostro progetto costituzionale, e che invece, specie nel sud, scelgono quel tipo di scuole perché provengono da un’esperienza scolastica demoralizzante, che li ha convinti di non essere adatti allo studio e di essere destinati precocemente, evaso l’obbligo scolastico, a un lavoro subalterno.
Viene da chiedersi perché la scuola pubblica non possa avere, come il terzo settore, una duttilità di strumenti atti a rendere le ore trascorse quotidianamente insieme ai docenti un’esperienza invogliante: un orario ridotto e personalizzato, la possibilità di svolgere attività all’aperto, un ambiente accogliente e rassicurante, una cultura della valutazione non misurativa, non prestazionale, non competitiva, ma tale da insegnare ai giovanissimi a servirsi in modo autonomo e consapevole dei mezzi migliori per rendere ciò che riescono a fare quanto più è possibile prossimo a ciò che desiderano fare. Insegnare, ci ricorda Carla Melazzini, «significa dare significato» alle parole «e a tutte le attività che se ne servono» (p. 98-99), e il significato, non potendo essere imposto, per essere condiviso tra insegnante e alunno deve vivere in una relazione autentica, in un percorso che attraversi «diversi ambiti di significanza, partendo dalla sfera dell’identità personale, del corpo, delle emozioni e avventurandosi gradualmente nella sfera più grande, quella del mondo esterno» (p. 99).
Ma a chi importa, oggi, parlare di scuola? Escluso chi ha nostalgia della propria scuola, cioè della propria giovinezza, esclusi i docenti (in troppi casi stanchi, demotivati, disorientati), i soli cittadini che abbiano davvero a cuore l’argomento (quelli, s’intende, con diritto di voto) sono i genitori di ragazzi e ragazze in età scolare. Pochi, perché sempre meno sono quelli che di fronte a un presente precario e angoscioso vogliono o riescono ad avere figli. Questo libro può tuttavia interessare a molti, innanzitutto a chi l’ha già letto in prima edizione: i due capitoli aggiunti, Scampati e Il ventre di Napoli, rendendo disponibili scritti dell’autrice apparsi su rivista tra il 1978 e il 2008 e ormai di difficile reperibilità, offrono una testimonianza della sua luminosa intelligenza pedagogica di fronte all’esperienza collettiva del terrorismo, alla memoria dei lager nazisti, alle tossicodipendenze, all’attrazione dei modelli criminali, a episodi di molestie sessuali.
Riletto o letto per la prima volta, può diventare uno strumento formidabile nelle mani nei docenti di scuola del nord e del sud, degli istituti professionali come dei tecnici e dei licei, dei docenti dell’università, mai come ora realmente di massa, perché anche la pratica dell’insegnamento può essere ostacolata da particolari nodi psichici, più o meno inconsci, e questa lettura può essere trasformativa; può lasciare un segno negli operatori del terzo settore, negli editori e in quanti operano o hanno responsabilità nel mondo delle politiche culturali; nei comuni cittadini che tendono a pensare al mondo dell’adolescenza in termini di degrado e di presunta, progressiva perdita di valori; in chi ferma per strada, arresta, detiene e giudica i minori applicando il codice penale; in chiunque tenga ad avere una visione del futuro collettivo, perché questo libro è un inno all’immaginazione radicale e all’invenzione di risposte inedite a problemi estremamente complessi, un inno a una vita migliore e più felice per tutti.