Speciale
Tavoli | Michele De Lucchi
Il tavolo di Michele De Lucchi è più lungo e stretto che largo e corto.
Penso che tutti i tavoli da lavoro individuale disegnati da De Lucchi siano lunghi e stretti.
Scelta questa di Michele che penso discenda direttamente dall’idea che ha del lavoro come di un processo continuo, un percorrere appunto la lunghezza del tavolo, scorrendo sulla sedia a rotelle, per meditare transitando, interessato com’è Michele ai processi interiori che la lunghezza dei tavoli registra, battito dopo battito, depositandone sul legno le tracce silenti.
Il tavolo di Michele non ospita un computer; tre portamatite cilindrici e un portamatite piatto; al centro, una penna stilografica chiusa.
Architetto e designer del suo tempo, Michele De Lucchi è profondamente legato a un mestiere artigianale (conoscete la sua Produzione Privata?) entro il quale la matita, il foglio di carta sono compagni sodali e insostituibili. La tecnologia è presente, diffusa nello Studio. Non potrebbe essere altrimenti: non si sfugge all’infosfera. Il frequentatore di quel tavolo assorbe tutto questo e non impone una tradizione, la testimonia collegandola, carta e matita, col suo tempo.
Il tavolo di Michele appare insieme ordinato e disordinato. Michele con alta probabilità abita spazi intermedi, capaci di apprezzare l’aura del dormiveglia (al di là della piena coscienza e del sonno profondo) e la vita brulicante del bagnasciuga (al di là del rifugio della spiaggia e dell’attrazione del mare). Ordine e disordine possono convivere in una prospettiva non oppositiva; il nuovo abita, infatti, il riconoscimento delle relazioni, la propensione alla coesistenza, l’inclusione del terzo.
Sul suo tavolo Michele sperimenta assiduamente ordine e disordine, capace di afferrare “con la coda dell’occhio” un mondo lontano da un cromatismo singolare e da un profilo netto.