Speciale
Terreno d’acqua
Ho introiettato il seguente insegnamento paterno: “Il lavoro, e in particolare quanto lavori, fa di te o una persona realizzata nella vita, o un assoluto fallimento”. Conformemente a quanto sostiene Max Weber in Etica protestante e spirito del capitalismo agli occhi di mio padre solo chi si sacrifica per il lavoro è una buona persona, degna d’amore e considerazione. Quindi, poco importa se si fa fatica a trovare lavoro… ciò che conta è che sei un imbecille perché a lavorare non ci vai. Nel mio caso, una fallita, anche se laureata con lode, che a ventotto anni mangia ancora la minestra che papà, con così tanto sacrificio e abnegazione, suda. Di sensi di colpa, dunque, considerata tale situazione, posso dire di essere satura. Si traducono immediatamente in giudizi morali, come se fosse il lavoro a determinare il valore spirituale della persona, l’unità di misura, il termine ultimo di paragone sul quale dosare lo spessore intellettuale e umano di qualcuno. La mia condizione fisica poi, non aiuta per niente. Se già per chi è – come comunemente si dice – “normodotato” la situazione è ardua e piuttosto in salita, figurarsi per chi ha sotto le natiche una fedele compagna di vita come la sedia a rotelle…
Due anni fa, sono andata al Servizio d’Integrazione Lavorativa (SIL) della mia Azienda Sanitaria di appartenenza e dopo due ore di colloquio con l’assistente sociale, si è giunti a constatare che non ero inquadrabile né nella casella uno (ritardati mentali… caspita, no, ho un 110 e Lode in Scienze Filosofiche!) e neanche nella terza casella (persone sane… beh, non direi, un veicolo sotto il sedere ce l’ho!). Risultato: la mia laurea, come dice mio padre, non serve a niente, in Scienze Filosofiche poi…. a sentire lui, è solo aria fritta, utile a riempirsi la bocca di belle parole… e l’esito del colloquio con l’assistente sociale non fa che confermare la sua visione secondo la quale i filosofi parlano a vuoto perché “Per far filosofia bisogna avere la pancia piena”. Quindi, io, povera filosofa fallita, mantenuta, buona a nulla, devo rendere grazie e dimostrare di cercare lavoro, di “voler fare”, “tendere a un fine”, “avere un obbiettivo nella vita”, “non perdere tempo” , “essere utile”… ma che cavolo sono, una cosa forse di cui poter disporre per trarre profitto?
Però poi arrivano curriculum di persone che hanno fatto tante piccole esperienze lavorative, frammentate: allora, a questo punto, accumulare esperienze lavorative non basta più. Perché “Sono curriculum discontinui, in cui ciò per cui si studia non è portato avanti lavorativamente”. Padre, ma cosa pretendi? Gli ho risposto che se si vuole “omogeneità” si deve investire nella formazione, per essere, almeno a mio modestissimo parere, una forma-di-vita che, piano piano, divenendo se stessa, muta, si trasforma per essere ciò che è. Come una farfalla, che continua a trasformarsi, per essere se stessa. Ma ovviamente mi si obbietta che sono i “mantenuti” che fanno così, tra cui ci sono anch’io: i flâneur delle università che sono lì perché non sanno cosa fare della loro vita. Penso che ogni essere umano non sappia cosa fare della sua vita. È abbandonato, consegnato a essa, all’insopportabile che vivere è. Al terreno d’acqua che essa è. E qui c’è la possibilità di trasformarsi. È il lavoro più difficile che ci sia. È stare in attesa, cogliendo ciò che accade.
Tutto ciò mi ha portato ad avere sensi di colpa pesanti come macigni che hanno condizionato il mio modo di vedere e rapportarmi alla realtà: dover sempre dimostrare di essere all’altezza, la paura di essere giudicata, questo associare ciò che si fa con ciò che si è, ha determinato in me un senso di inferiorità tale che rende il mio stare al mondo una continua lotta tra fantasmi di chi considero “migliore di me” e un costante tentativo di vedermi per ciò che sono, così come la vita – il mondo – sono quello che sono. L’irreparabile. L’essere senza rimedio. Poiché tutte le soluzioni sono inadeguate alla realtà. Così come irrisolto è il suolo che ci sostiene nel suo fluire dettato dagli eventi che ci accadono e, accadendo, ci costituiscono. L’essere fedeli alla terra è tener conto che essa trema e che, impercettibilmente, lentamente, inesorabilmente nel suo sorreggerci si trasforma, ci trasforma. Questo è il lavoro più arduo e più bello: la salvezza: salvarsi la vita, salvandosi dalla vita.