Speciale

Tifosi in bicicletta

19 Settembre 2012

Cammino, a testa china, sotto i portici. Alla mia destra c'è piazza Plebiscito. Spunta inattesa, quasi relegata agli angoli della cittadina. Tutto è vivo, ma d’un colore filtrato.
La calca è in fermento. Saranno una cinquantina. Ognuno di loro è su una bicicletta. Giovani, meno giovani, vecchi. Ciarlano, ridono. Ci credono. Sono vestiti di giallo e rosso. E' un mare di bici, pronte a partire; cinquanta corpi pronti a sciogliere la tensione con il lavoro muscolare. «Forza Castello» urla il più carismatico.
Indossano maglie da calcio, sciarpe da tifoso. «Noi ci crediamo, ragazzi noi ci crediamo» canticchiano, senza particolare fervore.
È l’ora del tramonto.

 

Non capisco cosa stia succedendo. Conosco la storia, ma non voglio crederci. Mi immergo, quasi fantasmatico, al centro della piazza. I leoni della fontana eiettano acqua vigorosi, i tifosi scherzano, azzardano gavettoni improvvisati. Mi avvicino, chiedo informazioni a un volto non memorabile. Mi dice che andranno tutti in bici a Foggia, per la finale playoff contro l’Ascoli. «È un fioretto: se andiamo in bici vinciamo e se vinciamo andiamo in serie B, ti rendi conto?».
Mi rendo conto.
So.

 

La squadra di calcio di un paese abruzzese di 5000 abitanti rischia di andare in serie B. È inaudito. Non è oggettivamente possibile. Nessuno dei suoi calciatori ha mai calcato un campo di serie B. Solo quest'anno la squadra è stata promossa in serie C1, ed è già un record.
L’allenatore si chiama Osvaldo Jaconi e si comporta da oracolo. Sulla lavagna degli spogliatoi scrive frasi come: «Per la sua apertura alare, il calabrone non potrebbe volare. Ma lui non lo sa. E vola».
Il calabrone è la sua squadra. Ha fatto un gran campionato. E ha iniziato a crederci: andremo in serie B. Eppure, in semifinale playoff, tutto sembrava finito. Bisognava vincere, ma al 90° il risultato era sullo 0-0. Poi l’Oracolo ha sostituito il suo calciatore più importante, Claudio Bonomi, con un difensore, con pochi minuti all’attivo. Si chiama Salvatore D'Angelo. È entrato e ha fatto il gol decisivo. «Con quel nome non poteva essere altrimenti» ha detto l’oracolo a fine partita.
Ma ora è diverso. Domani c’è la finale, contro il fortissimo Ascoli.

 

Sfilo dalla piazza, il tramonto insiste. Non voglio saperne niente. Voglio andare via. Tutto mi disturba: dentro di me risuona come un mantra un urtante pezzo malinconico della band italiana Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo.  
Voglio allontanarmi, finire lento nell’aria greve del tramonto che avanza: svanire.
Cammino e vedo, all’angolo della piazza, un ragazzo. Avrà dieci anni. Direi: undici. È in piedi. Di fronte a lui, a cavalletto in funzione, la sua bicicletta rossa. Oscilla, il suo sguardo, dalla bicicletta alla piazza; dalla bici, ferma a non assolvere la sua naturale funzione di mezzo di trasporto, alla piazza, dove i preparativi stanno per finire, tra poco si parte, forza Castello.
Guarda la sua bici.
Carica i pedali in senso contrario. Partono.

 

Guarda, guarda la catena, e vede, vede il sentiero percorso dai tifosi, questa grande epopea che supera ogni impresa di Bartali e Pantani, segue le linee erbose del tratturo Castel di Sangro-Lucera, questa strada da uomini veri, che attraversa Isernia e tutti i suoi paesi di provincia, le vallate, le montagne, i bar di strada che cuociono spiedini, i caseifici che vendono mozzarelle enormi a sole 1000 lire, e poi paesi dai nomi aspri, da Duronia a Toro a Gambatesa, e i cori, la stanchezza, e poi la Puglia, forza ragazzi, non molleremo mai, non mollerete mai, è tutto questo un sogno, un sogno lungo duecento chilometri.
La catena si ferma.
Il ragazzo si volta di nuovo verso la piazza. Sono tutti pronti. Aspettano qualcuno, qualcosa, forse l’ultimo ritardatario.
Il cielo è rossastro.
Guarda i raggi della sua bicicletta rossa; è immobile.

 

E vede. Vede l’arrivo allo stadio Pino Zaccaria di Foggia, la partita, uno 0-0 nervoso, tirato, vede una sostituzione al 119°, quando manca solo un minuto ai calci di rigore: Osvaldo Jaconi, il mago, l’oracolo, sostituisce il portiere titolare, Roberto De Juliis, con il secondo portiere, Piero Spinosa, un trentaseienne che non ha mai giocato in serie C. Vede, il ragazzo, il dramma dei calci di rigore, e vede quel rigore parato da Piero Spinosa, rigore che chiude l’epica, la svela, il Castel di Sangro è in serie B.
Siamo tutti distrutti, ma il Castel di Sangro è in serie B.

 

Ora carica di nuovo i pedali all’indietro. La sua squadra che gioca contro le squadre più gloriose d’Italia: il Genoa, il Bari. Il Torino. La sua squadra che gioca in notturna contro il glorioso Torino, e lo batte, in una partita decisiva per restare in serie B. La sua squadra, infine, che resta in serie B.
Quante storie tra i raggi e il telaio.
È triste, ora, davanti alla bici.
Gli sono di fronte.

 

Gli chiedo: «Cos’hai?»
«Non posso partire».
«Perché non puoi partire? Parti, corri!» gli dico.
«Non posso. Sono troppo piccolo» mi risponde.
Gli viene da piangere.
Ci voltiamo, contemporaneamente.
I tifosi stanno andando via, vediamo le loro spalle, sulle bici, in lontananza.
I leoni della fontana smettono di eruttare acqua, di colpo.
Il crepuscolo è arrivato.
Gli dico «Vai, vai anche tu. Non ti ricapiterà mai più».
Lui non risponde. Sembra non sentirmi.
Lo abbraccio, ma non se ne accorge. È come se non ci fossi, di fronte a lui.
È solo, ora, mentre cala una nebbia non giustificata.
Dico ancora «Vai, corri», ma la voce non mi esce.
Mi sento un fantasma.
Il ragazzo resta solo, nella piazza spenta.
Lo guardo, ora, quel ragazzo: sono io, sedici anni fa.

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