Dal rinascimento alla cancel culture / Immagini contese
Di quale storia abbiamo bisogno? Ne parlavo qualche tempo fa con un amico, illustre medievista attento ai nodi teorici e ai bisogni politici della cultura contemporanea. Quali storie, al plurale, rilanciava lui, convinto che fare storia (d’Italia, che era il tema della conversazione) non si possa più, perché la narrazione progressiva e orientata al presente che abbiamo ereditato dai maestri novecenteschi suona oggi sgangherata, se non ridicola, vista la conclamata fine della storia, l’apertura effettiva dell’orizzonte globale, la prevalenza del racconto sulla verifica e la compresenza di prospettive diverse.
La discussione di allora mi riecheggia nella testa mentre leggo il libro di Germano Maifreda sul modo con cui le immagini svelano la storia, da poco uscito per le “Storie” di Feltrinelli (Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture). È un libro sull’importanza delle immagini nella formazione del giudizio storico, sulla triangolazione tra cancellazione, conservazione e manipolazione, sui processi di trasformazione, costruzione della memoria e anelito all’oblio, e soprattutto sul bisogno della parola a commento dell’immagine. Ma è anche un libro su come e perché fare storia, con un ordine cronologico che va dalla ghettizzazione degli ebrei nella Mantova dei Gonzaga, tra Cinque e Seicento, fino al processo a Salò di Pier Paolo Pasolini, in una vera e propria storia d’Italia sub specie censurae (o remotionis).
All’autore, prolificissimo, si deve del resto una storia d’Italia sub specie hebraica, l’anno scorso con Laterza (Italya. Storie di ebrei, storia italiana). Storie dai margini che illuminano il centro, perché il quadro si costruisce dal dettaglio, come insegnava Aby Warburg, eletto in questa sede, giustamente, a guru del percorso iconologico, perché, e qui si annida la prima, suggestiva ipotesi storiografica, la storia non si fa per narrazioni consequenziali, ma nella rete di rimandi che si addensano intorno al particolare.
Reticolari sono infatti i tre capitoli, che portano il lettore a passeggio tra la cancellazione della memoria antiebraica da parte della comunità ebraica mantovana del Rinascimento, le censure operate dalla casa editrice musicale Ricordi, le statue risorgimentali ai campioni italiani della Riforma, le ville lombarde appartenute all’aristocrazia europea negli anni del fascismo e il dibattito processuale sull’ultimo film di Pasolini. I puristi della sistemazione logica e le vestali della materialità del documento storceranno la bocca e alzeranno il sopracciglio, perché le connessioni spesso sfuggono e la ricerca è quasi tutta online, ma con questi parametri si rischia di perdere di vista l’ipotesi più ambiziosa del libro, che è legata all’idea che la storia non stabilisca la verità, ma immetta in un processo, il cui fascino sta proprio nella compresenza delle ipotesi alternative che coesistono nella ricostruzione dello storico.
Viene in mente il Carlo Ginzburg del parallelo tra il giudice e lo storico, quando distingue tra il bisogno di verità processuale del primo (procedurale e astratta) e l’inseguimento di verità documentaria del secondo (congetturale e incompiuta, riassumo io: non me ne voglia Ginzburg se semplifico a fini di ragionamento circostanziato). Di fatto, proprio da un processo il libro parte, in apertura, e proprio al giudice arriva, in conclusione, come se ci fosse un’urgenza implicita di confronto.
Procedono dallo stesso bisogno di verità, infatti, nello scavo di ciò che non si vede, il giudice e lo storico, ma, mentre il primo ha bisogno della dimostrabilità, il secondo può puntare sulla ragionevole scommessa. Nulla sapremmo del semisconosciuto pittore mantovano tardorinascimentale Vincenzo Sanvito, se tra le carte dell’Archivio storico della Comunità ebraica di Mantova, negli atti del processo relativo all’istanza presentata dall’Università degli Ebrei contro di lui, non si conservassero due stampe di sue opere fortemente antiebraiche, che la comunità probabilmente acquisì per distruggere, in modo da cancellarne la memoria.
Né considereremmo con simpatia Butler Ames, il politico, imprenditore e mecenate americano che s’innamorò di Villa Balbianello sul lago di Como fino a comprarsela nel 1919, se avesse prevalso la narrazione dell’Egeli, l’Istituto fascista di confisca dei beni nemici (Ente di gestione e liquidazione immobiliare), che a seguito dell’entrata dell’Italia in guerra contro gli Stati Uniti nel dicembre 1941, gliela sequestrò nel maggio 1942. La storia, evidentemente, non risarcisce, ma porta a galla grovigli di contraddizioni, da una parte e dall’altra, aiutando a comprendere ideologizzazioni d’occasione e trapassi di regime. Per costruire il nemico, del resto, bisognava disumanizzarlo, evitando che fosse troppo simile a noi, col risultato che dei beni confiscati agli ebrei si proibì a un certo punto di pubblicare gli elenchi, perché la presenza di indumenti intimi tra gli oggetti sequestrati poteva indurre a moti di pietà o simpatia.
Al centro del libro c’è allora la consapevolezza che la storia è storia del potere, delle sue costruzioni e delle sue perversioni, per cui non si può che concludere con quel film che più di tutti, in maniera violentemente scandalistica, ne ha denunciato gli abusi, le storture e le ipocrisie: Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, condannato per la prima volta poche settimane dopo la morte del regista nel novembre 1975. Dalle carte processuali emerge l’ostinata ambizione dei giudici di definire il rapporto tra estetica ed etica, con due domande decisive: da un lato, cosa sia opera d’arte, in un’aspirazione ontologica che cerca di far passare per condanna estetica quella che è in realtà una condanna morale, e dall’altro, se l’opera d’arte oggettivamente intesa possa essere veicolo di un messaggio moralmente dubbio. C’era da far sussultare nella tomba il povero Benedetto Croce, che prima aveva proclamato l’autonomia dell’estetica dall’etica e poi aveva riconosciuto la valenza morale dell’opera d’arte nella sua adesione al corso progressivo della storia, in sé, secondo lui, essenzialmente morale. Il punto non è approvare o deridere, oggi, dentro il nostro sistema di valori, l’operato dei censori di allora, ma confrontarci con un dibattito nel quale convergono le ragioni dell’uno e dell’altro, perché la storia, e soprattutto una storia delle immagini, e per immagini, come dice Maifreda, apra sempre la possibilità di «osservare la realtà dal punto di vista dall’altro, anche quando appare ingannevolmente unica».
Sembra solo un instant book (coi pregi: l’argomento caldo, e i difetti: la confezione frettolosa), in cui l’autore a sua volta apre finestre, come su un browser, con click ripetuti, a volte ossessivamente compulsivi, spesso con materiali di risulta, a tratti senza la pazienza della rilettura (con la complicità dell’editore, più interessato all’ipotesi sensazionalistica che all’approfondimento critico, com’è ormai, ahinoi, costume invalso dell’industria libraria italiana); ma con la convinzione, appunto, che dei conflitti in atto anziché degli esiti si debba rendere conto e che nelle connessioni anziché nei percorsi si annidi la storia.
Che la censura non abbia solo cancellato, ma anche dato forma a ciò che è stato trasmesso, che chi veniva cancellato a sua volta cancellasse, in un agone memoriale rivolto al futuro senza esclusione di colpi, e che le ragioni dei vincitori siano il risultato di battaglie per il controllo dell’opinione pubblica lo sapevamo; ma quale sia il conflitto in atto quando si abbatte la statua di Edward Colston a Bristol o si tinge di rosa il monumento a Montanelli a Milano questo libro ci aiuta a capirlo meglio. Fermiamoci sempre a tradurre l’immagine in parole, come ammoniva Ernst Gombrich citato nella conclusione del libro: perché in queste parole l’immagine sveli tutto il suo potenziale ideologico e porti alla luce il conflitto di interessi che in sé costitutivamente contiene (da vedere, sull’argomento, in uscita, il promettentissimo libro di Arturo Mazzarella sulle immagini della Shoah, da Bompiani). Non c’è immagine che sia neutra e non c’è neutralità che non sia ideologica.