Il culo di Dante

20 Ottobre 2022

Come ha potuto quel ragazzo timido, mingherlino, piuttosto asociale e pure un po’ disadattato scrivere la Divina Commedia? Lo spettatore del film di Pupi Avati su Dante potrebbe uscire dalla sala proprio con questa domanda, che resta in fondo irrisolta: perché ad Avati non interessa il poeta della Commedia, allora certamente non ancora divina, ma l’uomo Dante Alighieri. Togliere Dante dal mito e riconsegnarlo alla vita: questo è l’obiettivo, coerentemente perseguito e certamente raggiunto.

A riassumerlo, irriverentemente nei confronti di Dante e del film, potrebbe funzionare bene quel culo di Dante (ma di Alessandro Sperduti, ispirato e diligente nel fare ciò che gli è stato chiesto) che viene ostentatamente e ostinatamente esibito alla vigilia della battaglia di Campaldino, quando il ventiquattrenne fiorentino si reca al fiume coi compagni per espletare la funzione escrementizia. Immagine decisiva, a mio parere, sul piano simbolico (il punctum di Barthes e Lacan, se si vuole intellettualizzare, cioè il particolare con cui l’opera investe lo spettatore, fuoriuscendo da sé e sconvolgendolo), perché qui emerge in maniera prepotente lo scarto tra il Dante incorporeo della tradizione letteraria e il Dante tutto fisico del film: al centro c’è infatti il corpo di Dante, sottratto al culto monumentale delle tante statue che lo celebrano per tornare a pulsare, tra il desiderio idealizzato e la fisicità impellente. Dopo la battaglia, infatti, Dante e Guido (altra licenza poetica della regia) vanno a prostitute per sfogare i loro istinti, più necessari che bestiali, come se l’uomo Dante, introverso e insicuro, già ambisse a superare l’umano, ma non potesse fare a meno di essere uomo, in tutta la sua normalissima vita corporale.

La combinazione tra accuratezza documentaria e invenzione registica è del resto il filo conduttore di un film che vuole essere anche, dantescamente, una riflessione sull’arte, che ha il potere di esplorare l’intimità e la coscienza a partire dalla conoscenza dei fatti, ma anche oltrepassandoli, in un’operazione di scavo che solo il poeta (o il regista), a differenza dello storico, può compiere. Si tratta, cioè, manzonianamente, di mettere in scena i colori della storia, che rischierebbe altrimenti di ridursi, come diceva Gadda, e per restare alla centralità del culo di Dante, al referto fecale degli eventi.

Per evitare tanto lo sguardo onnisciente del narratore esterno (eterodiegetico, si diceva un tempo) quanto la pretesa di un ingresso nello sguardo dantesco (intradiegetico, ovvero a focalizzazione interna), Avati ricorre alla trovata geniale di far raccontare Dante da Boccaccio (Sergio Castellitto, in una grande prova al servizio del personaggio e dell’ambientazione), il quale fu in effetti non solo l’inventore del mito di Dante, ma anche il suo primo biografo ufficiale. Alla narrazione boccacciana il film si attiene fedelmente, a cominciare dalla cornice narrativa col viaggio di Boccaccio da Firenze a Ravenna per risarcire la figlia del sommo poeta, Antonia, divenuta suor Beatrice, dell’ingiustizia subita dal padre ad opera dei fiorentini.

La difficoltà di raccontare Dante senza fare di Dante la fonte primaria, o addirittura unica, della sua vicenda è ben presente agli storici della sua vita (da Pasquini e Inglese a Barbero e Pellegrini, per citare solo gli esempi più recenti), che hanno usato variamente la voce del poeta nella ricostruzione della sua biografia, da un massimo di adesione a un massimo di esclusione, ma Avati riesce efficacemente a fare storia col cinema, adoperando, e dichiarando, le fonti, da un lato, e immettendo il soggetto nel suo mondo immaginario, dall’altro: per cui l’innamoramento di Beatrice (Carlotta Gamba, magnifica nel suo essere più seduttiva che eterea) diventa avvenimento realissimo, segnato dall’incontro, dal saluto, dal matrimonio con Mone de’ Bardi, con relativo ius primae noctis, e dalla morte prematura. Con un’importanza della Vita Nuova nella genesi dell’uomo Dante che è in sintonia con le letture più recenti della sua vicenda esistenziale e poetica (e non poteva essere altrimenti, essendo Avati ricorso a consulenti del calibro, fra gli altri, di Emilio Pasquini, Marco Santagata e Franco Cardini).

Tutto comincia dal trauma infantile, la morte della madre e la sua sostituzione da parte del padre, che avrebbe fatto del piccolo Dante un bambino taciturno, solitario e sognatore. Fino alla scoperta dell’eros, che si esalta nella visione di Beatrice tra le braccia di Amore, che la nutre col cuore dell’amato: una scena di grande suggestione allucinata, tra splatter e horror, più Argento che Avati, che rende bene l’atmosfera dolente con cui si apre il libello dantesco. Di qui il passaggio dalla pena alla gioia, con Beatrice stessa a suggerire a Dante il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, e dalla gioia alla lode, subito dopo la morte, con la danza delle donne che si muovono intorno a Beatrice. Sul poeta intellettuale prevale forse troppo il poeta visionario, ma la lettura della Vita Nuova è bellissima e ben inserita nello sviluppo dell’esistenza dantesca.   

Allo stesso tempo Dante fa esperienza del matrimonio combinato con Gemma Donati (Ludovica Pedetta), che lo rifiuta (altra licenza poetica) fin dal primo incontro, imprimendogli con le unghie nella carne del palmo delle mani il sigillo del suo inutile diniego. Spinto tanto dalla necessità di risolvere il mantenimento dei tre figli piccoli quanto dal grande sogno di riappacificare Firenze, Dante s’iscrive all’arte dei medici e speziali e comincia il suo impegno politico, che lo porta presto a ricoprire la carica di priore. Devastato dall’esperienza della guerra e dai continui conflitti tra Bianchi e Neri, Dante ci viene proposto qui come un grande costruttore di pace, disposto a sacrificare l’amicizia con Guido alla sua missione di superare odi e dissidi, fino a esiliarlo in una tormentata votazione: ridotta a dissenso politico, la dolorosa separazione da Guido perde tutte le sue complicatissime implicazioni intellettuali e religiose che la caratterizzarono, ma forse a un film non si poteva chiedere di più.

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Resta vero, però, che a questo punto il film si perde, come si perde lo storico di fronte all’assenza di documenti sull’esperienza di Dante in esilio. Dall’inganno di Bonifacio VIII (cammeo di Leopoldo Mastelloni), la fuga da Roma e il rifugio in Lunigiana (dove l’accoglie, altra licenza poetica, una misteriosa donna che gli fa da temporanea protettrice e amante) passano quasi cinquanta anni, fino a quando sarà un altro poeta, Boccaccio, appunto, a ripercorrerne le tracce in un viaggio alla ricerca del suo percorso fino alla morte a Ravenna. Del poeta della Divina Commedia, fulmineamente definita «un poema di morti», non c’è quasi nulla se non la contemplazione astrale, perché l’autore «sapeva il nome di tutte le stelle» (forse perché il poeta della Divina Commedia proprio non si può raccontare?); dell’entusiasmo per Arrigo VII proprio niente; del lungo soggiorno veronese alla corte di Cangrande della Scala ancora meno: Dante salta dalla giovinezza fiorentina al lascito alla generazione successiva (che Avati, come già nel romanzo che si mescola col soggetto del film, L’alta fantasia, identifica col solo Boccaccio, come se il ruolo di Petrarca, notoriamente diviso tra perplessità e riverenza, fosse stato irrilevante, nonostante il dialogo amicale e letterario fra i due). 

Sontuoso nella fotografia (di Cesare Bastelli) di una Toscana medievale assolatissima di giorno e in campagna e cupa di sera e nei conventi, dalle città densamente popolate e dal contado inesorabilmente vuoto, accuratissimo nei costumi e nell’ambientazione, il film usa magistralmente stacchi, tagli e chiaroscuro, in un’alternanza tra primi piani e piani sequenza che rivela la mano del maestro di regia che gli sta dietro (con qualche eccesso di autocompiacimento avatiano, dall’ipersimbolismo dell’orrida bambola menagrama che congiunge l’infertilità  di Beatrice all’infelice paternità di Boccaccio fino alla suprema licenza poetica dell’affresco di Andrea di Bonaiuto in Santa Maria Novella che si anima per dare voce alla scomunica dantesca da parte di papa Giovanni XXII, in un pastiche spettacolare di anacronismi, vocal keeping e visionarietà).  I filologi si divideranno tra chi apprezzerà l’attenzione del film alle fonti (con conoscenza puntuale del Trattatello boccacciano) e chi la riterrà insufficiente (troppe invenzioni d’autore), ma ci potrà anch’essere chi gli rimprovererà l’eccesso didascalico di fedeltà alla storia e il freno a mano tirato quando si tratta di esplorare l’universo sentimentale e psicologico del poeta. 

Certo è che ne viene fuori un Dante più umano, appunto, ma forse anche troppo umano, riportato al mito romantico di quel giovane favoloso cui finisce con l’assomigliare un po’ troppo: genio isolato dal contesto, per cui il grande lettore di Virgilio e della Bibbia, il poeta ferocemente realista e quasi espressionista delle tenzoni con Forese Donati e Dante da Maiano, il discepolo di Guido Guinizelli e l’avversario di Guittone d’Arezzo, l’allievo di Brunetto, lo studioso di Tommaso e il seguace di Francesco spariscono dietro una vicenda umana che da un lato banalizza (Dante uno di noi) e dall’altro mitizza (comunque genio inspiegabile). L’effetto è dolceamaro, perché la missione di umanizzare Dante è riuscita, ma quella di raccontare Dante è ancora a venire. La Divina Commedia ridotta a un lenzuolo su cui Dante appunta i nomi dei personaggi, tracciando la mappa umana del suo disegno dell’aldilà, somiglia troppo, tristemente, a quella carta igienica su cui Dante scriveva il suo poema in una pubblicità di qualche anno fa, dove una Beatrice un po’ perplessa chiedeva “bella codesta commedia, Dante: divina, ma non sarà un tantino lunga?”, con tutti i doppi sensi del caso. A conferma della centralità del culo di Dante.

Sottrarre Dante alle retoriche dominanti dei patrioti e dei nazionalisti, alla prosopopea di Sermonti e all’enfasi di Benigni, alle ossessioni e ai distinguo di lana caprina dei dantisti, al ghibellin fuggiasco di foscoliana memoria e al sempreverde neoguelfismo ecclesiastico, è tuttavia il grande merito del film; e l’interpretazione di Avati sarà presto un altro passaggio della critica dantesca con cui ci si dovrà confrontare, perché il rilancio del giovane Dante e del Dante promotore di pace merita di sostituire, nelle aule scolastiche e universitarie, tanto le polverose note ipererudite a piè di pagina quanto l’ormai ammuffita immagine romantica dell’inarrivabile poeta che esalta la nostra umanità perché ha cantato con una potenza senza pari l’amore, la morte, la bellezza, l’orrore, la vita terrena e quella ultraterrena. Rispetto a simili collezioni di banalità, tanto vaghe quanto retoriche, ben venga, sempre, il culo di Dante in primo piano. 

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