Per Dante, svoltare a destra
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d'Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
Dante veniva presto ridotto a una controfigura del Duce, di cui del resto avrebbe profetizzato l’avvento in quel verso del trentatreesimo canto del Purgatorio in cui si annuncia un DVX liberatore dell’Italia dalle divisioni e dalle guerre: «nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque» (dove il numero romano per 515, DXV, viene anagrammato per indicare l’avvento di un vendicatore dell’alleanza a delinquere tra la puttana, la curia papale corrotta, e il gigante, la monarchia di Francia). Lo sintetizzava perfettamente lo storico Domenico Venturini nel volumetto di poco più di cento pagine intitolato Dante Alighieri e Benito Mussolini, stampato a Roma dalla Nuova Italia nel 1927, con prefazione di Amilcare Rossi, Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti. Il volume era «pubblicato a beneficio dell’Opera Nazionale per il cimitero monumentale del Grappa, sotto l’alto patronato di S. M. il Re».
L’associazione con l’eroismo militare, da un lato (essendo il sacrario militare del monte Grappa, in Veneto, uno dei più imponenti e significativi monumenti alla memoria dei caduti della Grande Guerra), e con la monarchia, dall’altro (essendo pur sempre il Re il garante dell’unità della nazione), inseriva fin dall’inizio il libretto in un orizzonte d’italianità, come si affrettava a chiarire il prefatore nella pagina introduttiva.
Il risultato era una raccolta di corbellerie che istituivano il parallelo tra il Poeta e il Condottiero, accomunati dalla triste esperienza dell’esilio, che vissero entrambi con «acutissimo dolore per la lontananza della patria», e dalle nobili aspirazioni politiche, perché «Mussolini è il Dux che sta operando, conforme voleva Dante, quella riforma politica e morale da cui il Poeta sperava salute per l’Italia travagliata da fierissime discordie derivanti dai colluttanti partiti, riforma, ripeto, che schiude la via al conseguimento de’ più alti destini d’Italia, destini che renderanno imperituro alla memoria de’ posteri il meraviglioso secolo di Mussolini».
Gli avrebbero fatto seguito il «Dante Italiano e Imperiale» di Emilio Bodrero (Dante, l’Impero e noi, sulla «Nuova Antologia» del 1931) e il Dante precursore di Mussolini di Tommaso Vitti (Dante e Mussolini, Caserta, Tip. Sociale Jacelli & Saccone, 1934). Di qui discendeva il culto di Dante, che culminava nel progetto di quel Danteum che avrebbe sintetizzato la visione della nazione contenuta nella Divina Commedia. Alle ossa di Dante il segretario del Fascio di Salò Alessandro Pavolini affidava addirittura, simbolicamente, l’ultimo sussulto d’italianità dei repubblichini, proponendo di trasferirle nel «ridotto della Valtellina», il luogo dove i fascisti avrebbero dovuto organizzare la difesa finale della Repubblica Sociale Italiana. Dante ridotto, è proprio il caso di dirlo, a icona vuota, insomma, dentro cui si potevano accomodare i contenuti dettati dalle convenienze e dalle contingenze: se il simbolo uccide la cosa, hegelianamente e lacanianamente, il piano trascendente del linguaggio e delle rappresentazioni strutturate in termini linguistici negherà la cosa, l’oggetto, i contenuti, la storia, a favore di un sistema di significati altri, costruiti altrove e determinati altrimenti.
Un Dante di destra, quindi, nell’ottica dei fascisti e dei loro seguaci, è già abbondantemente esistito e come provocazione è risibile. Dalle parole del ministro, tuttavia, emerge quella vaghezza del linguaggio del politico, che riduce tutto a slogan senza contenuti, che è persino più preoccupante del proclama di un Dante di destra (che, inutile dirlo, Dante non fu, per il semplice fatto che le categorie politiche del suo tempo erano guelfi e ghibellini, con i primi divisi, a Firenze, in bianchi e neri, anziché destra e sinistra). Che vuol dire, ad esempio, «pensiero di destra»? Quali sono la «visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri»? Qual è la «costruzione politica» nei saggi diversi dalla Divina Commedia (che non è un saggio)? Secoli di esegesi e critica danteschi sono ridotti a due massime capitali che non significano nulla, perché ciascuno può riempirle del contenuto che preferisce, chiamandolo «di destra» per partito preso, per ragioni di schieramento politico oppure per semplice preferenza di una mano sull’altra.
Al quale si può senz’altro contrapporre il suo uguale e contrario, quel Dante di sinistra che emergerebbe prima di tutto dalla richiesta di veicolare istanze di libertà, come avvenne quando i neri d’America nelle piantagioni adottarono versi danteschi per i loro canti spiritual, in un processo descritto magnificamente da Dennis Looney in Dante for Freedom (assumendo, con Norberto Bobbio, che la sinistra tenda verso la comunità e la destra verso l’individualismo, con le dovute scuse per la sempflicazione da citazione en passant).
La «vision dell’Alighieri» era del resto il richiamo decisivo dell’inno nazionale fascista, la canzone Giovinezza, cui lo scrittore Salvator Gotta imprimeva nel 1925 una risoluta svolta dantesca nel segno della continuità tra momento profetico e realizzazione storica con l’aggiunta di due versi: «la vision dell’Alighieri | oggi brilla in tutti i cuor». Dante nazionalista, insomma, secondo una retorica di lunga durata, che discende dalla lezione risorgimentale, incarnandosi nella famosa sentenza di Cesare Balbo secondo cui «Dante fu l’Italiano più italiano che sia stato mai» (Vita di Dante, 1939), e si esalta nella sintesi capitale di Giovanni Gentile, per il quale «con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia» (Dante nella storia del pensiero italiano, 1904). In mezzo c’era l’incoraggiamento del grande teorico dell’eroismo romantico, lo storico e filosofo scozzese Thomas Carlyle: «La nazione che possiede un Dante è unita come nessuna muta Russia può esserlo» (On Heroes, 1941).
Questa retorica è appartenuta tanto alla destra quanto alla sinistra, poiché è soprattutto una retorica delle Istituzioni (in quanto tale, perciò, tendenzialmente di destra), al punto che personalità di certo immuni dal contagio delle destre, come l’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini e l’ancora presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno potuto dichiarare, rispettivamente, che «Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia» (Comunicato del Ministero della Cultura del 17 marzo 2021) e che «Dante è in realtà il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la Terra vagheggiata e promessa» (Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri).
La risposta più sciocca possibile e immaginabile al ministro Sangiuliano è dunque che Dante non è né di destra né di sinistra, perché è soltanto italiano: cosa che Dante, storicamente, non fu mai, semplicemente perché per lui non era neppure concepibile esserlo, muovendosi il suo orizzonte politico tra il municipale (Firenze) e l’universale (l’Impero). È di destra, tuttavia, ridurre ogni discorso a una «pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile». Così scriveva uno dei grandi interpreti della cultura di destra, l’antropologo Furio Jesi, che proseguiva definendo i caratteri di questa cultura: una «cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari» e «in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto tradizione e cultura ma anche giustizia, libertà, rivoluzione». La conclusione era drammatica, perché identificava la destra col partito del tradizionalismo fine a se stesso, della difesa ottusa delle identità statiche e della chiusura ideologica su malintese proprietà: «La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra».
I due grandi miti del padre della patria (che Dante non fu) e del padre della lingua (che Dante neppure fu), congiunti mirabilmente in endiadi («padre della lingua italiana, e quindi della Nazione») da Benito Mussolini in un discorso del 27 giugno 1932, in occasione dell’apposizione della targa commemorativa al monumento di Dante a Napoli, andranno definitivamente decostruiti, smontati e ricalibrati. Su questo forse dovremmo continuare a interrogarci: non se Dante sia di destra o di sinistra, che è una boutade che lascia il tempo che trova e ha la sua risposta nell’effimero di una risata, ma cosa vogliano dire destra e sinistra. La destra al governo continua a tenerlo nascosto, ma è arrivato il momento di stanarla, smontandone il linguaggio e individuandone le incoerenze.
Consigli di lettura per Gennaro Sangiuliano:
Stefano Albertini, Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista, in «The Italianist», XVI (1996), 1, pp. 117-42.
Luigi Scorrano, Il Dante “fascista” (2000), in Id., Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, pp. 89-125.
Dennis Looney, Dante for Freedom. The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2011.
Martino Marazzi, Danteum. Studi sul Dante imperiale nel Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2015.
Guy P. Raffa, Dante’s Bones. How A Poet Invented Italy, Cambridge (Mass.) – London, Harvard University Press, 2020.