Tolkien e Meloni
Chissà come avrebbero reagito la presidente Meloni e il ministro Sangiuliano all'idea che l'immaginario di Tolkien si radichi in un precedente italiano. Probabilmente l'argomento avrebbe fomentato un rigurgito di orgoglio nazionalistico, suggerendo un motivo in più per sostenere la mostra dedicata all’autore del Signore degli anelli, dove tradizionalismo, conservatorismo e mistificazione si combinano in una singolare miscela di appropriazioni e fraintendimenti.
Eppure alla comparsa del primo volume della saga (The Fellowship of the Ring nel 1954) il grande critico inglese C. S. Lewis, professore a Oxford, autore di saggi letterari di straordinaria influenza e scrittore di fantasy in prima persona con le Cronache di Narnia, sosteneva, nella presentazione sul risvolto di copertina del libro, che l'unico paragone possibile per Tolkien sarebbe stato solo con il più grande poeta del Rinascimento italiano, Ludovico Ariosto, l'autore dell'Orlando Furioso: ‘If Ariosto rivalled it in invention (in fact he does not) he would still lack its heroic seriousness’ (‘Se pure Ariosto lo sorpassasse per la ricchezza dell’invenzione (cosa che comunque non fa), gli mancherebbe sempre la sua grandiosità eroica’).
Solo Ariosto all'altezza di Tolkien, ma un gradino più in basso, perché il secondo aveva saputo costruire un mondo ‘così multiforme e così fedele alle proprie leggi interiori; […] così apparentemente oggettivo, così ripulito dalla contaminazione con la psicologia meramente individuale di un autore; […] così rilevante per la reale situazione umana e tuttavia così libero dall'allegoria’, da introdurre il lettore a una ‘varietà quasi infinita di scene e personaggi: comici, semplici, epici, mostruosi o diabolici’. Non sembra che Tolkien avesse particolarmente gradito il riferimento, che pure lo inseriva di default tra i grandi classici della letteratura occidentale. Ai giornalisti di The Telegraph, Charlotte e Dennis Plimmer, che molti anni dopo (era il 22 marzo 1968) gli chiedevano cosa ne pensasse, rispose semplicemente: ‘I don’t know Ariosto, and I’d loathe him, if I did’ (‘non conosco Ariosto, e lo odierei se lo conoscessi’).
Il rifiuto tolkieniano si spiega con la volontà di essere unico e originale, ma certo il riferimento ariostesco non sembrava un gran servizio allo scrittore da parte dell'amico critico: quanti tra i lettori inglesi e americani di allora avrebbero potuto cogliere il parallelo con un classico italiano che pochi conoscevano e quasi nessuno leggeva, essendo fra l'altro disponibile, in quel momento, solo nell'originale italiano e nella vecchia traduzione di William Stewart Rose del 1831?
Proprio in quel 1954 che vedeva l'uscita della Compagnia dell'anello, tuttavia, l'editore newyorchese di ascendenza italiana Sante Fortunato Vanni dava alle stampe una nuova traduzione, in prosa, del poema ariostesco, da parte del grande esperto di Rinascimento italiano Allan Gilbert, professore di letteratura inglese alla Duke University; e di Ariosto aveva parlato diffusamente, nel suo libro sulla rappresentazione dell'amore nel Medioevo, The Allegory of Love (1936), proprio lo stesso Lewis. Il riferimento colto era rivolto allora a immettere subito la nuova saga tolkieniana in un orizzonte accademico, di letteratura alta, che favorisse una lettura non solo popolare, ma soprattutto intellettuale.
Nazionalisticamente propizio, ma populisticamente pericoloso, il riferimento diventa subito a doppio taglio per gli obiettivi politici di Meloni e Sangiuliano. Come dimostrare che esiste una cultura di destra in Italia, fondata sulla lettura del Signore degli anelli, se il suo predecessore italiano, rivendicato per di più dal critico più importante della società letteraria inglese del tempo, e amico personale dell'autore, fa parte di quella cultura alta che è tradizionale appannaggio della sinistra? Antico, difficile e intellettualmente complesso sono infatti aggettivi agli antipodi della definizione di cultura promossa dal governo italiano attuale, che punta tutto sulla contemporaneità, l'immediatezza e la semplificazione, secondo i canoni della comunicazione mediatica del nostro tempo.
Ariosto, del resto, è nome che il lettore italiano di media cultura associa subito a Italo Calvino, che è stato, comunque si prenda il suo rapporto tormentato col comunismo, un campione della cultura di sinistra. Il quale in Ariosto aveva proprio trovato un principio di opposizione al fascismo, all'insegna dell'avventura intellettuale, della complessità rappresentativa e del rifiuto delle parole d'ordine grazie all'osservazione della realtà. Tutto ciò che a Meloni e Sangiuliano potrebbe fare semplicemente paura, perché implica il passaggio dalla propaganda alla politica.
Bisognerà allora andare a vederla, la mostra, per confermare o scardinare i pregiudizi: che sia un’appropriazione indebita da parte della destra di governo; che rilanci un’immagine falsificata e mistificatoria dello scrittore; che immetta i suoi scritti in un orizzonte di militanza partigiana che è estraneo a ogni forma d’arte; e che, di conseguenza, sia una mostra scadente. Antiteticamente: che Tolkien fosse oggettivamente conservatore; che la sua militanza cattolica e antiliberale lo iscriva ipso facto a una cultura di destra; che sia un difensore della tradizione, della famiglia, della fratellanza e della patria; e che, di conseguenza, si tratti di una mostra giustissima. Anziché ridurre il discorso all'affermazione apodittica che la cultura per definizione non può essere di destra, o all'altrettanto superficiale dichiarazione che la letteratura e l'arte si muovono a un livello superiore, per cui non possono essere né di destra né di sinistra, converrà cercare delle coordinate di riferimento per orientarsi in un dibattito che in Italia è ancora irrisolto.
Immersa nella cornice splendida della galleria, tra De Chirico, Fontana, Mondrian e Pistoletto, la mostra rischia di subire financo logisticamente un senso di minorità, relegata in un angolo rispetto alla grandezza dell’arte contemporanea, una curiosità a suo modo appendicolare e fuori luogo: non sarebbe stato allora opportuno legarla quanto più possibile ai pezzi in esposizione, mettendo in rilievo, ad esempio, i cortocircuiti dell’immaginario tra i 32 mq di mare circa di Pino Pascali e la Terra di Mezzo, o tra l’eroismo mitologico dell’Ercole e Lica di Canova e l’eroismo modernista della saga tolkeniana, o tra La tana di Mimmo Paladino e la casa della famiglia Baggins? Se l’obiettivo fosse stato quello di immettere Tolkien nell’universo estetico della contemporaneità, valorizzando la riflessione su spazio, tempo, natura, mondo e identità, anziché isolarlo totemicamente, forse questa sarebbe stata una strada da esplorare.
Ci troviamo invece fin dall’inizio di fronte all’inchino riverente piuttosto che all’indagine delle potenzialità d’interazione: «la mostra celebra la vita, esalta il lavoro accademico, svela la maestosità della produzione letteraria di Tolkien», si legge sul pannello introduttivo. Più idolatra di così è difficile immaginarlo: si comincia infatti col figlio perfetto, che assistette «all’eroica sofferenza e alla morte precoce in estrema povertà della madre»; col cristiano perfetto, che fu educato nella fede da padre Morgan; e col padre perfetto, che riuscì a fare della sua famiglia un’opera d’arte di cui i personaggi sono i figli. Compaiono documenti interessanti, come il Macbeth posseduto dal figlio Michael per lascito paterno, e le pagine dell’Oxford English Dictionary cui collaborò; ma non sarebbe stato più suggestivo far diramare intorno agli oggetti i percorsi della sua formazione, della sua vita intellettuale e della sua ispirazione letteraria (come avviene, ad esempio, nella mostra su Italo Calvino attualmente in corso alla Biblioteca Nazionale di Roma)?
Di lui si sarebbero potute esplorare le contraddizioni, psicologiche e culturali, tanto utili ai fini dell’esplorazione del suo universo creativo: pronto a deludere l’educatore per amore nei confronti dell’unica donna della sua vita, capace di riscattare la sua mancata vocazione col sacerdozio del figlio primogenito e incline a far apprezzare i testi per il loro contenuto narrativo anziché come documenti storici, fu un marito fedele, un cattolico coerente e un docente amorevole, oppure un marito piuttosto assente, un padre quasi padrone e un filologo almeno distratto?
Nel laboratorio dello scrittore si entra solo attraverso tre video: un’intervista in cui Tolkien si esercita a scrivere in elfico, spiegando che «le lingue hanno un sapore», come «un nuovo vino o una nuova leccornia»; un’altra intervista in cui ricostruiva la genesi della sua saga, associando l’anello alla bomba atomica e l’evasione letteraria alla fuga dalla prigione; e una ricostruzione dei meccanismi della parentela linguistica. Davvero poco, per chi si aspettava almeno una tavola con l’alfabeto del runico e un pannello con la storia delle lingue elfiche. «Come scriveva Tolkien» è qualcosa di cui la mostra non dà neppure un assaggio, mancando certamente uno degli obiettivi possibili: lo scrittore, che invece viene ridotto ad autore, col mito della persona a prevalere, ancora una volta, su qualsiasi altra sua attività, soprattutto quella creativa.
Anche qui una delle mostre in corso proprio in questo periodo avrebbe potuto aiutare (quella su Italo Calvino alle Scuderie del Quirinale): entrare nel mondo visivo di Tolkien immaginando «cosa vedeva quando chiudeva gli occhi». Alla traduzione visiva dei suoi libri, tra copertine, illustrazioni, vignette, pubblicità, film, videogames e giochi da tavolo, sono dedicate le sale successive, in una vertiginosa successione di disegni, poster e fotogrammi, fino ad arrivare ai rifacimenti e alle parodie più recenti, che annoverano, fra i tanti titoli, Paperino e il signore del padello di Giorgio Pezzin con Franco Valussi per «Topolino» (1995), Il signore dei porcelli di Stefano Bonfanti e Barbara Barbieri per la collana Zannablù dell’editore Dentiblù (2014) e (ma perché?) L’elenco telefonico degli accolli di Zerocalcare per BAO (2015).
Come dimostrano i titoli appena riportati, tutto è rivolto, infine, alla celebrazione di una possibile italianità di Tolkien, a partire da quel viaggio in Italia dell’estate del 1955 durante il quale affermava di essere «innamorato dell’italiano» e di sentirsi «abbandonato senza la possibilità di cercare di parlarlo»: valorizzando la suggestione di un dialogo implicito con Benedetto Croce, che fu tre volte a Oxford durante la vita di Tolkien, la sua partecipazione alla Dante Society (dal 1945 al 1955), e l’idea da lui stesso proposta che Venezia avrebbe fornito uno scenario ideale per Esgaroth, i curatori (tra cui Oronzo Cilli, autore di un interessante e faziosissimo Tolkien e l’Italia per Il Cerchio Editore, 2016) inseguono un Tolkien italiano che potrà piacere a chi si nutre di patriottismo quotidiano, ma storicamente e letterariamente non ha ragion d’essere. Costruita intorno a un’italianità d’accatto, la mostra ignora proprio quello che avrebbe potuto essere l’unico precedente italiano, quell’Orlando Furioso da cui siamo partiti.
Eppure fin dal 1954 la lettrice cui Mondadori aveva richiesto un parere sull’opportunità o meno di tradurre The Lord of the Rings, la scrittrice di origine tedesca Ruth Domino Tassoni, additava una possibile direzione ariostesca: dopo aver affermato che Tolkien «riprende una delle più antiche funzioni della letteratura: raccontare meraviglie», sosteneva che le sue «vicende dovrebbero venir recitate in grandi sale, con pioggia e vento fuori, e possibilità di lungo ozio. Come nelle antiche saghe, la storia si diffonde, si spezza e riprende in intricati episodi, un motivo conduce ad un secondo e ad un terzo, e dentro una vicenda nasce una nuova vicenda e dentro questa fioriscono canti e poesie». Non era, questa, la descrizione della struttura narrativa del capolavoro ariostesco? Non bastava, però, per proporre la pubblicazione dell’opera, che alla lettrice sembrava «per un editore cui preme un sicuro guadagno» troppo «un rischio». Né piacque, l’opera, otto anni dopo, a Elio Vittorini, direttore editoriale della Mondadori, che trasformava il «rischio» paventato dalla prima lettrice in un’inclinazione negativa, considerato che «il successo del tentativo [di traduzione e pubblicazione] richiederebbe la forza di un vero e proprio genio (che Tolkien dà prova di non essere) e la convalida di una attualità, ma ciò non si verifica affatto». Rifiuto confermato da Vittorio Sereni e sancito da R.C. per la casa editrice. Avevano capito poco, se a farne un film pensavano già in quegli stessi anni i Beatles (con George Harrison che ambiva al ruolo di Sam) e se a sessant’anni di distanza papa Francesco ci vedrà addirittura un’allegoria dell’«uomo in cammino»; ma la questione del fantasy in Italia è argomento ancora tutto da affrontare (e che la mostra neppure sfiora).
Molti sono i documenti utili e grandiose alcune sale, ma la mostra privilegia la celebrazione rispetto all’interpretazione, che è ciò che nasce dal fare confronti, dal mettere in dubbio, dal promuovere ipotesi e favorire la discussione: non essendoci fonti con cui dialogare (dal poema epico medievale in inglese antico Beowulf al romanzo fantasy di E.R. Edison The Worm Oroborous) né termini di paragone (l’ovvia contesa con Harry Potter, ma anche gli Snerg di E.A. Wyke-Smith), mancando interlocutori critici del suo e del nostro tempo (dalle prime recensioni alle analisi più recenti), Tolkien ne esce fuori come un monumento, isolato e intoccabile. Ciò che emerge, insomma, è la solita ansia eroica della destra, il bisogno del campione da adorare anziché del modello o maestro con cui confrontarsi: il gran cacchio, come diceva Gadda del Duce. Al centro c’è infatti la persona, come recita il titolo, dedicato a Tolkien «Uomo, Professore, Autore», tutti rigorosamente con la maiuscola: un santino; laico, ma in odore fortissimo di santità.
Torniamo ad Ariosto e Tolkien. Alcuni lettori inglesi non capirono il riferimento colto e si limitarono a cercare parallelismi: poiché in inglese tanto l'orca quanto l'orco si chiamano orc, l'orca ariostesca che minaccia donne nude legate a uno scoglio dagli abitanti dell'isola di Ebuda per placarla attraverso i sacrifici umani, è diventata un precursore degli orchi tolkeniani che attaccano nani, elfi e uomini nella Terra di Mezzo. Di fronte a tanta mancanza di intelligenza (ma non di humour, che forse non sarebbe dispiaciuto né ad Ariosto né a Tolkien), si può ricordare che nel 1971 (proprio un anno dopo la pubblicazione integrale in italiano del Signore degli anelli presso Rusconi, con la prefazione di Elémire Zolla, dopo la comparsa dei primi due libri presso Astrolabio nel 1967 nella traduzione di Vicky Alliata di Villafranca), l'editore americano Ballantine pubblicava una nuova traduzione inglese dei primi 13 canti dell'Orlando furioso (su 46) da parte dell’autore di fantascienza e saggista Richard Hodgens.
La notizia resterebbe una pura curiosità editoriale, se Ballantine non fosse appunto l'editore americano di The Lord of the Rings. Il sottotitolo di questa prima parte (cui non ha fatto seguito la continuazione della traduzione, purtroppo) era The Ring of Angelica: più esplicito di così. La prefazione era di Lin Carter, autore di fantascienza che nel 1969 aveva pubblicato un saggio su The Lord of the Rings. L’illustratore era David McCall Johnston, famoso per le sue illustrazioni di opere cavalleresche e fantasy. Un intero progetto di assunzione di Ariosto nel mondo di Tolkien si prefigurava dietro la scelta di Ballantine.
In America Ariosto veniva annesso all'orizzonte del fantasy esattamente nello stesso momento in cui in Italia Tolkien veniva divulgato con potenzialità reazionarie. Per quanto accolto e apprezzato soprattutto negli ambienti hippy nel corso degli anni Sessanta, per il suo ritorno alla natura e il suo culto della libertà, in Italia negli anni Settanta il capolavoro di Tolkien diventava lo strumento di un riscatto della cultura di destra, complici lo statuto pubblico dell'editore e l'immagine controversa del prefatore. Editore aperto a suggestioni ermetiche, esoteriche e mistiche, Rusconi pubblicava De Maistre e Jünger, che potevano essere percepiti, come infatti furono, come autori di destra. Zolla, a sua volta, era visto con sospetto dagli ambienti intellettuali caratterizzati da un razionalismo illuminista e scientista coi paraocchi, per cui i suoi interessi per le religioni, il misticismo e l'occultismo lo facevano spesso passare (erroneamente) per oscurantista e destrorso. Rifiutato per questi motivi Tolkien dalla sinistra, non risultò difficile alla destra appropriarsene, facendo leva anche su un presunto conservatorismo dell'autore che è solo in parte fondato, ma soprattutto (come ha scritto Giuseppe Pezzini, uno dei curatori della mostra, professore di latino a Oxford e Tolkien Editor per il Journal of Inklings Studies) nulla ha a che vedere con la sua opera letteraria.
A partire dal biennio 1976-77 Tolkien diventava in Italia un autore di destra. Nel 1976 Monica Centanni e Marilena Novelli fondavano la rivista Eowyn, che avrebbe dovuto rilanciare il dibattito sulla donna all’interno del MSI: «Eowyn è una donna cui non pesa il ferro della spada, Eowyn è tutte noi, donne che combattiamo questa società», si leggeva su una delle prime copertine. Eowyn, principessa di Rohan, è l’eroina che appare nel secondo libro della saga di Tolkien, Le due torri: innamorata invano dell’irraggiungibile Aragorn, è una donna forte, che lotta per il suo popolo, ma sa anche accettare il destino che la vuole consapevole dei suoi limiti e cui si sottomette (a proposito: con l’eccezione della madre e della moglie, non ci sono donne nella mostra, neppure tra i personaggi). Il 6 dicembre dello stesso anno la band Gruppo Padovano di Protesta Nazionale (la futura Compagnia dell'anello) presentava in un concerto a Roma la canzone che sarebbe diventata l'inno del Fronte Nazionale della Gioventù, Il domani appartiene a noi, dove «la terra dei Padri», «la Fede immortal» e «la Tradizion» (obbligatoria anche qui la maiuscola) compaiono come i valori fondanti di una comunità che lotta contro l’oscurità e guarda ai raggi del sole. L’anno dopo vedeva la nascita dei campi Hobbit, invenzione creativa di alcuni leader del Fronte della Gioventù, la sezione giovanile del MSI, Generoso Simeone, Umberto Croppi, Giampiero Rubei, Marco Tarchi e Nicola Cospito.
Associare Tolkien e Ariosto avrebbe significato parlare di letteratura, di complessità, di diversità e di dialogo. Rivendicare il rifiuto di Vittorini come occasione per una storia più fortunata, protesa verso una direzione piuttosto che un’altra, rischia di negarla, invece, la letteratura, che è in effetti la grande assente della mostra. Ognuno può fare le appropriazioni che vuole, ma deve anche saperle fare: se cultura di destra vuol dire banalizzazione e mitizzazione, opposizione pregiudiziale alla sinistra e strumentalizzazione di qualsiasi discorso a uso suo proprio, allora avrà ragione chi pensa che destra e cultura siano semplicemente in antitesi. Ma se cultura di destra vorrà dire un'occasione per promuovere sguardi alternativi e proposte nuove, urge definirne orizzonti di senso e prospettive di ricerca: dal momento che non si può più ricorrere all'opposizione tra progressismo e conservazione, razionalismo e irrazionalità, elitismo e populismo, che non hanno retto alla prova della storia, perché la destra di oggi non è più antimoderna, anticapitalistica e antiburocratica, che si ricominci a pensare la politica all'interno di categorie critiche non può che essere un bene. A patto che la destra voglia davvero promuovere la cultura, fondata sull’orizzonte della ricerca e la capacità del confronto, anziché fare solo propaganda.