Del Toro e gli altri: a ciascuno il suo Pinocchio
«Perché tutti amano lui e non me?», chiede Pinocchio a Geppetto a un certo punto del suo ennesimo rifacimento, Pinocchio di Guillermo del Toro. Lui è un crocifisso di legno, opera dello stesso Geppetto, che i fedeli venerano in chiesa, dove invece reagiscono terrorizzati di fronte al burattino senza fili, che considerano una macchinazione del demonio. Il confronto è sintomatico di un’identità universale, cristologica, che può essere declinata tanto in chiave umanistica (il crociano «legno dell’umanità») quanto in chiave religiosa (il cristiano «figlio del padre»): l’unico paragone possibile, per Pinocchio, figura di un destino collettivo, è colui che si è posto come risposta per la totalità, fornendo un senso alla vita che vada al di là della vita stessa.
Riproposto continuamente in remakes, adaptations e appropriations di tutti i tipi, dalla reinvenzione in chiave sovietica di Aleksej Tolstoj alla lettura allegorica cristianizzante del cardinale Biffi, dalle trasposizioni cinematografiche di Disney, Spielberg, Benigni e Garrone fino al sogno anarchico e profetico di Il popolo di legno di Emanuele Trevi, Pinocchio è davvero «l’eroe del nostro tempo», come titolava qualche settimana fa The Economist: l’interprete perfetto di un mondo che si reinventa in continuazione, tra metamorfosi ripetute e nuove fusioni. Ridotto a santino del capitalismo avanzato, all’inseguimento del rinnovamento e del protagonismo a tutti i costi, Pinocchio rischierebbe di perdersi nella mitologia eroica di chi può essere sempre riempito di senso perché porta con sé un vuoto assoluto, al punto da risultare indifferentemente pre-umano e post-umano, trionfo della sensibilità e intelligenza artificiale, testimone del familismo e campione dell’avventura, sé stesso e tutti gli altri. È la sua anfibologia strutturale, lo spiazzante colpo di genio di Collodi, a consentirglielo, perché fin dall’inizio, dentro al libro che ne vede la nascita, Pinocchio è insieme burattino e bambino. Con qualcosa di più, però, per fortuna: burattino che tende al bambino, e che pure vuole esserlo, ma che in fondo lo evita ostinatamente per tutta la durata della storia, mantenendosi sul crinale del doppio senza via di scampo.
È perciò che Guillermo del Toro (insieme con Mark Gustafson) ha potuto ricollocarlo al confine tra la vita e la morte, in quella zona in cui l’umano (il burattino ribelle) resiste al disumano (il bambino ubbidiente), in quanto l’unico modo di diventare bambino è essere sé stesso anziché conformarsi al volere altrui. Sembra una conclusione tanto facile quanto moralistica è l’interpretazione antagonistica, il burattino sbagliato che diventa bambino giusto, eticamente e politicamente corretto; ma le cose non sono così semplici, perché questo Pinocchio vive in un tempo in cui l’ubbidienza coincide con la negazione della natura umana, dentro un regime che irreggimenta, appunto, disciplinando le masse e negando le individualità. Vive tra le due grandi guerre del Novecento, infatti, nell’Italia fascista del Duce, questo Pinocchio, costretto a confrontarsi fin dalla nascita col fantasma del bambino che non è stato, quel Carlo (come il suo autore nella storia: primo invito a una lettura psicanalitica), che Geppetto ha perduto a causa di una bomba lanciata dalla contraerea nemica durante il primo conflitto mondiale.
Costretto a omologarsi al passato idealizzato a causa della perdita, Pinocchio si muove tra anelito alla conformazione e fuga dalla responsabilità, gregario e ribelle al tempo stesso, come si addice a ogni bambino che sia alla ricerca della definizione della propria personalità al di fuori delle gabbie imposte dai genitori e dalla società. A volerlo omologato, tuttavia, non è solo Geppetto, padre troppo sofferente per poterlo lasciar essere sé stesso: ci sono la società dello spettacolo (il teatro dei burattini del conte Volpe col suo attendente, il babbuino Spazzatura, geniale rivisitazione del gatto e della volpe in chiave di produzione teatrale), la società della politica (con Lucignolo figlio di un gerarca fascista che chiede il sacrificio dell’individuo alla patria, fino a un cammeo pupazzettistico del Duce in persona) e la società dei consumi (che spinge per la creazione di miti artificiali per confermare la propria ideologia dei vincenti, come nella tournée cui il truffaldino impresario costringe Pinocchio).
I media, la politica e il mercato convergono per fare di Pinocchio il loro eroe, la figura mitica e salvifica che giustifica le loro azioni e garantisce la loro ideologia: di Pinocchi fascisti ce ne sono stati in effetti in abbondanza, come ha messo in rilievo qualche anno fa uno studio fondamentale di Luciano Curreri, mentre di Pinocchi iconici, funzionali a successi mediatici e identificazioni d’occasioni, è costellata tutta la storia delle rivisitazioni popolari e commerciali dell’ultimo secolo.
Fascismo, media e mercato a braccetto, come grande sinergia di una società dell’organizzazione che nega ogni possibilità di ricerca, coi relativi rischi di deviazione e cambiamento: Furio Jesi avrebbe parlato di «manipolazione di materiali mitologici», finalizzata alla formazione di una «pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile», da cui nasce una cultura, quella che chiamava di destra, «fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire».
Quanta ansia da prestazione incombe allora su Pinocchio: costretto a rispondere a una miriade di stimoli esterni, si potrebbe perdere, frammentarsi in tante identità e comporsi come gli altri lo vogliono. L’eroe, del resto, insegna Freud nel magistrale Psicologia delle masse e analisi dell’io, nasce come creazione poetica per sostituire il padre di fronte alla comunità dei fratelli che senza di lui rischierebbero di farsi la guerra: totem e fantoccio al tempo stesso, destituito di identità propria a favore della funzione sociale che gli spetta. Chi più totem e fantoccio di quel Duce che a un certo punto del film in Pinocchio si specchia, cercando una vana conferma del proprio essere narcisistico?
Gadda lo aveva spiegato benissimo, quando lo aveva descritto come «favente Genio e favante Tutore della Italia e Condottiero d’Italia in Guerra Lampo e Tempista politico (e Gran Somaro Nocchiero)» in quel capolavoro di psicopatologia delle masse che è Eros e Priapo (dove il «Gran Somaro» qualcosa di pinocchiesco pure contiene): basterà l’immaginario infantile, nutrito di cacca e puzzette, a mettere in crisi le ambizioni bellicose del gran vigliacco, gaddianamente «il Merda», che manda in guerra gli altri solo per confermare il proprio potere?
La sostituzione del Paese dei Balocchi con un campo d’addestramento fascista è la trovata geniale del film, che traspone l’edonismo amorale rappresentato nel libro di Collodi nell’ubbidienza fascisticamente e capitalisticamente intesa della politica e dell’economia del Novecento: in sintonia con la lezione dello scrittore rumeno di origine ebraica, esule in America, Norman Manea, che nella raccolta di saggi Clown. Il dittatore e l’artista (1997), ha individuato nelle mitologie comunitarie il pericolo di un abbraccio mortale tra estetica e politica alla luce del mito del leader, Del Toro fa svicolare il suo personaggio. Leader, appunto, è ciò che a Pinocchio viene continuamente chiesto di essere; e che Pinocchio sistematicamente si rifiuta di essere: come quel bambino in cui il burattino deve imperativamente trasformarsi e che viene accuratamente respinto sullo sfondo.
Ad opporsi a Pinocchio ridotto al mito di Pinocchio è dunque Pinocchio stesso, in questo film stop-motion che fin dalla forma si oppone alle convenzioni dell’industria cinematografica: a differenza della Disney, che ha rimesso in circolazione in carne ed ossa il suo cartone animato, con la regia di Robert Zemeckis e l’interpretazione di Tom Hanks, Del Toro ha scelto di ricorrere al mondo dei pupazzi, perché un burattino deve muoversi nell’orizzonte che gli è proprio, quello della fiction, per cui ciò che vive è pur sempre una favola, senza pretese di verità assolute in quanto soggetta al dominio dell’immaginazione piuttosto che a quello della morale. E il mondo dei pupazzi non può che muoversi lentamente, secondo i principi di un ritmo incantato che le narrazioni tutta azione e niente pause di gran parte della cinematografia hollywoodiana tendono sempre di più a dimenticare. Per di più in un’oscurità che deve tanto al carattere gotico del primo film della Disney, ma è anche inquietante costante atmosferica rispetto alle luci piene e ai colori pastello dei cartoni animati più recenti, soprattutto di marca giapponese.
Questo Pinocchio è sempre stupito di fronte al mondo, perché il mondo non gli preesiste, ma viene scoperto attraverso il suo sguardo: è un Pinocchio che non s’inserisce, doesn’t fit e doesn’t belong, al punto da poter attraversare indenne il regno della morte, dove un cyborg-sfinge che ne gestisce il destino, parallelo al cyborg-fatina che gli ha dato la vita, gli conferma il privilegio dell’immortalità alla condizione di non provare sentimenti. Potrà cadere a ripetizione finché non avrà scoperto il legame, che non è condizionamento, ma incontro con l’altro, rivelazione della differenza e crescita del soggetto: un Pinocchio anti-narcisistico subentrerà al narcisismo di chi aveva ambito a essere come Gesù in croce.
Pinocchio ribelle a sé stesso, al suo stesso mito, alla storia delle sue rivisitazioni e appropriazioni, è l’unico modo perché Pinocchio parli di sé e parli a tutti: perciò nel film Pinocchio si confronta continuamente col libro, che viene tradito e mortificato proprio perché si istituisca il confronto. È lì, in quello spazio intermedio tra il Pinocchio delle origini e il Pinocchio della ricezione, che si può ritrovare Pinocchio: a ciascuno il suo Pinocchio non perché in Pinocchio ciascuno può trovare ciò che vuole, ma perché il lettore o lo spettatore è libero, come il burattino, di dire di no e cercare sé stesso. Il film diventa in tal modo un commento al libro, manganellianamente (come ogni nuovo Pinocchio non può più non essere), mettendone in rilievo figure decisive piuttosto trascurate (come i fantastici conigli becchini) e cancellandone episodi troppo famosi (quasi tutti, dalla sostituzione del cane Melampo alle scene a scuola e dalla fatina): del resto, a scriverlo è il grillo, che Pinocchio l’ha accompagnato come osservatore anziché pretendere di guidarlo come coscienza.
Un film fortemente psicanalitico e fortemente politico, contro tutte le leggende eroiche in un’epoca che sembra incapace di farne a meno nelle sue narrazioni mediatiche, dal mito mistificatorio dei CEO nella gestione aziendale a quello assolutamente falso del campione risolutivo nel mondo del calcio, è questo di Del Toro: assegnando a Pinocchio lo spazio dell’io, che non rimanda a nessun ideale al di fuori del sé, ma solo all’assunzione della propria personalità. Purché lo si prenda, comunque, come una favola anziché una lezione.